2020-03-01
Dopo un decennio di tagli alla sanità abbiamo meno armi contro il virus
A partire dal 2010 i fondi per la salute pubblica sono calati di 37 miliardi: in nome dell'austerità abbiamo perso 6.000 dottori. Se all'1% degli italiani servissero cure intensive, avremmo un centesimo dei posti letto necessari. Evitare a tutti i costi il tracollo del nostro sistema sanitario nazionale. È questa, come ha ribadito ieri alla Verità il virologo Andrea Crisanti, direttore di microbiologia e virologia dell'Università di Padova e inventore di uno dei test diagnostici per il Covid-19, l'emergenza nell'emergenza che si trova ora a dover fronteggiare il Paese. Ma il «paziente Italia», purtroppo per noi, è arrivato già debilitato all'appuntamento con il coronavirus. Molto prima della polmonite di Wuhan, è stata l'austerità a colpire con forza il comparto della salute nazionale. Una vera e propria emorragia di risorse che ha portato allo stremo personale e strutture, al punto che ai primi colpi di uno choc di natura sanitaria - com'è quello al quale stiamo assistendo in queste settimane - l'intero sistema sta già dando pericolosi segni di cedimento.La portata di questo stillicidio è impressionante. Secondo uno studio della Fondazione Gimbe pubblicato appena lo scorso settembre, nel periodo che va dal 2010 al 2019 alla sanità pubblica sono stati sottratti la bellezza di 37 miliardi di euro, di cui 25 miliardi nel 2010-2015 in conseguenza dei tagli previsti dalle manovre finanziarie, e altri 12 legati al «definanziamento» che ha assegnato meno risorse al Ssn rispetto ai livelli programmati. Nel decennio preso in considerazione, si legge nel rapporto, il finanziamento pubblico è aumentato di soli 8,8 miliardi, crescendo a un tasso (0,9%) nettamente inferiore rispetto a quello dell'inflazione. Poche speranze anche per il futuro. Già nel Def 2019, approvato ad aprile 2019, la spesa sanitaria in rapporto al Prodotto interno lordo veniva data in calo dall'attuale 6,6% al 6,4% previsto per il 2022. Solo nel 2009, la spesa pubblica per il comparto era pari al 7,4%. Nella nota di aggiornamento licenziata a settembre dall'esecutivo giallorosso, il dato veniva corretto leggermente al rialzo al 6,5%, ma poco cambia. Smentite le promesse del premier Giuseppe Conte che, appena insediato, prometteva a giugno del 2018 di «invertire» la tendenza alla contrazione della spesa, al fine di «garantire la necessaria equità nell'accesso alle cure». Decimali a parte, siamo anni luce dai nostri partner europei, dove lo Stato spende molto di più per la salute dei suoi cittadini. Si va dal Regno Unito (7,5%, dati 2018), ai Paesi Bassi (8,2%), fino a Francia (9,3%) e Germania (9,5%). Ma non eravamo noi gli spendaccioni?Se oggi ci troviamo in questa situazione dobbiamo ringraziare i precedenti governi. La cronistoria del definanziamento del Sistema sanitario nazionale descritta nel report Gimbe lascia poco spazio all'immaginazione: il peccato originale risale al dicembre 2012, quando il ministro della Salute del governo Monti, Renato Balduzzi, annunciava che le manovre del triennio successivo avrebbero sottratto fondi per 25 miliardi. Da allora è stato un continuo bagno di sangue, dalla riduzione programmata della spesa prevista nella Nadef 2013 (dal 7,1% al 6,7% sul Pil), alla richiesta alle Regioni di un contributo alla finanza pubblica pari a 4 miliardi inoltrata con la legge di stabilità 2015, fino alla manovra 2018 (governo Gentiloni) che fissava al 6,3%/Pil la spesa sanitaria pubblica per il 2020. Uno degli effetti collaterali della revisione della spesa è stato l'aumento della spesa sanitaria privata a carico dei cittadini (cosiddetta «out of pocket»), che rappresenta ormai quasi un quarto del totale e il 2% del Pil, e in ogni caso viaggia a livelli molto superiori rispetto ai nostri vicini europei.La scure dei tagli è stata brandita al grido di «i piccoli ospedali sono pericolosi», e anche se chiuderli è «doloroso», se non lo si fa «è inutile parlare di spending review» (tweet del 7 giugno 2016 di Giampaolo Galli, ex senatore del Pd e oggi vice di Carlo Cottarelli). Ribadire oggi lo stesso concetto a un qualsiasi operatore dei nosocomi della zona rossa comporterebbe di sicuro il linciaggio. Come conseguenza di tutto ciò, tra chiusure e accorpamenti, la rete di assistenza pubblica si è contratta fortemente, passando dalle 634 strutture ospedaliere del 2010 alle 518 del 2017 (dati ministero della Salute). Nello stesso periodo si sono persi 30.000 posti letto: si è passati dai 199.952 previsti del 2010 ai 169.978 del 2017, pari a una contrazione del 14,8% (il dato si riferisce solo alle strutture pubbliche, ndr). La quantità di posti letto previsti per 1.000 abitanti è scesa dai 3,3 del 2010 ai 2,8 del 2017. Decisamente pochi rispetto ai 3,1 della Francia e ai 6 della Germania. Pesante anche l'impatto sull'assistenza ai casi più gravi. Dal 2007 al 2013, i posti letto di terapia intensiva sono diminuiti da 324 a 275 ogni 100.000 abitanti (dati Oms). Nello stesso periodo un calo minore, ma con molti più posti a disposizione, ha interessato la Francia (da 462 a 436 ogni 100.000 abitanti), mentre in Germania la disponibilità è persino aumentata (da 616 a 621). Oggi in Italia abbiamo appena 5.090 posti letto in terapia intensiva e 1.129 in terapia intensiva neonatale (ma il dato tiene conto anche delle strutture accreditate). Se il 10% degli italiani dovesse contrarre il virus e, di questi, il 10% necessitare di cure intensive (dunque 600.000 casi) saremmo in presenza di una disponibilità di posti letto 100 volte inferiore a quella richiesta. Decimato anche il personale sanitario nelle strutture pubbliche: dal 2010 abbiamo perso quasi 6.000 medici (-5,8%) e 10.000 infermieri (-3,9%). Possiamo solo augurarci, vista la situazione, che il coronavirus ci ripensi.