2022-04-01
Dopo anni di ritardi su Mps, la guerra taglia le gambe al piano di salvataggio
Marco Morelli (imagoeconomica)
Governi e ministri dell’Economia si sono rimpallati il dossier. Il risultato è che pandemia e conflitto hanno reso l’accordo con l’Ue obsoleto. Ci ritroviamo appesi a una nuova proroga e alla banca servono 2,5 miliardi.Qualche tempo fa, parliamo di mesi e non di anni, durante una conversazione riservata con un «grande vecchio» della finanza italiana alla domanda «che fine farà Mps?» la risposta ricevuta fu lapidaria: «Farà la fine di Alitalia». Difficile, al momento, smentire questa previsione. Non solo perché, lo abbiamo scritto nei giorni scorsi svelando perizie e rapporti della Bce contenuti nelle ultime carte dell’inchiesta milanese, i fantasmi del passato e dei tentativi di sminare le sofferenze della banca complicano ancora il rilancio finanziario di Rocca Salimbeni. Non si può, infatti, dimenticare l’altra faccia della medaglia. Ovvero la gestione del caso Mps portata avanti negli ultimi anni dall’azionista di maggioranza. All’inizio del luglio 2017 la Commissione Ue ha approvato aiuti di Stato da 5,4 miliardi per la ricapitalizzazione precauzionale del Monte, dopo l’accordo di massima sul piano di ristrutturazione raggiunto il 1° giugno 2017 da Margrethe Vestager e dall’allora ministro dell’Economia (oggi presidente di Unicredit), Pier Carlo Padoan. Il Monte dei Paschi è così diventato il Monte di Stato ma i diversi governi che si sono passati il testimone da quell’estate a oggi non hanno mai potuto (o saputo) rendere il problema meno «radioattivo» per Palazzo Chigi e per il Mef. Non sembra riuscirci - al momento - nemmeno il governo di Mario Draghi. Ex direttore generale del Tesoro, ex governatore di Bankitalia (ai tempi dell’operazione Antonveneta) e infine ex presidente della Bce, Draghi ha avuto un ruolo da protagonista negli ultimi 35 anni del sistema bancario, non solo italiano. Mps va salvato «whatever it takes», per rispettare gli accordi presi con Bruxelles e Francoforte dove lo stesso Draghi abitava fino al 2019. La storia del Monte e quella del premier si sono, dunque, intrecciate spesso. E ora tocca a lui chiudere il cerchio. È chiaro che nessuno aveva, e ha, la bacchetta magica. Ed è vero che di «cigni neri» ne sono spuntati due, enormi: prima la pandemia che ha alzato un nuovo tsunami di crediti deteriorati che complica qualsiasi fusione o acquisizione e ora la guerra in Ucraina che si combatte anche sul fronte finanziario con le sanzioni. Mercoledì l’agenzia S&P ha affermato in un report che lo shock dell’invasione russa è un punto di svolta nel ciclo del credito in Europa ed è atteso «un inasprimento delle condizioni di finanziamento e un tasso di default in rialzo verso il 2,5% entro la fine dell’anno». Senza dimenticare le possibili conseguenze, ancora imprevedibili, delle inchieste giudiziarie. Nel frattempo, però, gli allarmi erano suonati. Lo stesso ex ad di Mps, Marco Morelli, aveva chiesto più volte al Tesoro di trattare con l’Europa un nuovo piano di ristrutturazione ricordando anche i «paletti» stretti del piano 2017-2021 imposto dalla Commissione Ue per l’aiuto di Stato. Quei «commitment» che hanno legato le mani al rilancio dell’istituto di Rocca Salimbeni. Dei 24 obiettivi chiesti da Bruxelles è stato mancato quello forse più ambizioso, la riduzione del rapporto tra costi e ricavi. E la struttura del ministero di Via XX settembre, oggi guidata da Daniele Franco, lo sa già da due anni. Glielo aveva scritto proprio Morelli in una lettera inviata il 1° aprile 2020 per poi lasciare la banca poco più di un mese dopo. Negli ultimi due anni del suo mandato Morelli ha avuto un compito non facile: tenere l’operatività del Montepaschi sopra la linea di galleggiamento all’interno delle boe piazzate dalla Commissione Ue e dalla Bce nel 2017 in cambio del via libera alla ricapitalizzazione statale e nel frattempo rispettare la rigida tabella di marcia sulla pulizia di bilancio eliminando la zavorra di sofferenze e incagli accumulati negli anni della crisi. Tutto in mezzo alle onde agitate dai tassi negativi e dalle stime sulla crescita del Pil sempre più ridimensionate. Preso il timone della banca a settembre 2016, durante la sua gestione Morelli ha fatto pulizia nei conti, portando a 9,9 miliardi il totale degli accantonamenti per le rettifiche sui crediti del bilancio 2016 (gran parte sono quelli «corretti» dalla Bce, per altro con una metodologia statistica contestata da Bankitalia, nel rapporto sul bilancio 2015 arrivato però solo nel giugno di due anni dopo) e di quello del 2017. Ma soprattutto ha negoziato il piano con la Dgcomp e la Bce mentre saliva la tensione tra Francoforte e Banca d’Italia sulle nuove regole restrittive sugli Npl - il cosiddetto addendum - annunciate dalla Vigilanza europea.I limiti della Ue sugli aiuti di Stato, tra l’altro, si basavano su un piano del 2017, già vecchio allora, e su norme che poi sono state rimessi in discussione dall’emergenza Covid. Quegli appelli di Morelli a chiedere una revisione degli accordi a Bruxelles non sono mai stati accolti dal Mef che ora si ritrova appeso a una proroga «congrua», ovvero il più lunga possibile, della Commissione Ue, per avere il tempo di trovare i soldi dell’ennesimo aumento di capitale da almeno 2,5 miliardi, mettere in piedi l’ennesimo piano di ristrutturazione e finalmente scendere dal Monte. Evitando di fare la fine di Alitalia.
Caterina Interlandi, presidente vicario del tribunale di Tempio Pausania (Imagoeconomica)
Julius Evola negli anni Venti (Fondazione Evola)