2022-09-12
Documenti classificati: quel sospetto di doppiopesismo sui casi di Trump e Hillary Clinton
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Hillary Clinton è tornata a parlare pubblicamente dello scandalo Emailgate. Ma la sua versione non convince più di tanto. Era lo scorso 6 settembre, quando Hillary Clinton ha espresso il suo disappunto su Twitter contro Donald Trump, colpevole – a suo dire – di aver fatto un paragone tra il caso dei documenti sequestrati dall’Fbi a Mar-a-Lago e lo scandalo delle email che coinvolse l’ex first lady nel 2016. “La verità è che io avevo zero email che erano classificate”, ha twittato Hillary. Peccato che le cose non stiano esattamente così. A rendere chiara la situazione fu un rapporto, pubblicato nel giugno 2018 dall’Ispettore generale del Dipartimento di Giustizia, Michael Horowitz. “Le agenzie della comunità di intelligence”, vi si legge, “hanno stabilito che queste 81 catene di posta elettronica, sebbene non contrassegnate come classificate, contenevano informazioni classificate al tempo in cui le email sono state inviate e avrebbero dovuto essere così contrassegnate”. “Dodici delle 81 le catene di posta elettronica classificate”, prosegue il rapporto, “non erano tra le 30.490 che gli avvocati della Clinton avevano prodotto al Dipartimento di Stato, e queste sono state tutte classificate ai livelli ‘segreto’ o ‘confidenziale’”. “Sette delle 81 catene di posta elettronica”, si legge ancora, “contenevano informazioni associate con un programma di accesso speciale (Sap), che i testimoni ci hanno detto essere considerato particolarmente sensibile. Le email contenenti informazioni top secret e Sap erano comprese nei 30.490 forniti al Dipartimento di Stato”. Del resto, anche l’allora direttore dell’Fbi, James Comey, ebbe parole tutt’altro che lusinghiere per Hillary, quando chiuse l’indagine sulle sue email il 5 luglio del 2016. “Dal gruppo di 30.000 email restituite al Dipartimento di Stato, 110 email in 52 catene di email sono state designate dall'agenzia di riferimento come contenenti informazioni classificate al momento in cui sono state inviate o ricevute. Otto di quelle catene contenevano informazioni che erano top secret al momento dell'invio; 36 catene contenevano informazioni segrete all'epoca; e otto contenevano informazioni riservate, che è il livello di classificazione più basso”, dichiaro l'allora capo del Bureau. Comey definì inoltre la Clinton e i suoi collaboratori “estremamente negligenti” e sostenne che “alcune migliaia” di email non erano state consegnate.“Nessuna di queste email”, aggiunse “avrebbe dovuto trovarsi su un qualsiasi tipo di sistema non classificato, ma la loro presenza è particolarmente preoccupante, perché tutte queste email erano ospitate su server personali non classificati non supportati nemmeno dal personale di sicurezza a tempo pieno”. L’allora direttore del Bureau non escluse interferenze da parte di attori ostili. “Riteniamo che attori ostili abbiano ottenuto l'accesso agli account di posta elettronica commerciali privati di persone con cui il segretario Clinton era in contatto regolare dal suo account personale. Riteniamo anche che l'uso da parte del segretario Clinton di un dominio di posta elettronica personale fosse noto a un gran numero di persone e subito evidente”, dichiarò. Eppure alla fine Comey e Loretta Lynch (che era all’epoca ministro della Giustizia di Barack Obama) si rifiutarono di incriminare Hillary, dicendo che non poteva essere dimostrato che le violazioni fossero avvenute intenzionalmente. La Lynch aveva avuto tra l’altro un controverso incontro con Bill Clinton il 27 giugno 2016 in un aeroporto dell’Arizona: un incontro che, nel suo rapporto del 2018, Horowitz definì dettato da un “errore di giudizio” da parte della Lynch. È quindi alla luce di questi elementi che, pochi giorni, fa il board editoriale del Wall Street Journal ha chiesto che a Trump venga applicato il medesimo standard che fu applicato alle email della Clinton. Per quanto non completamente sovrapponibili, i due casi sono simili. Contro entrambi è stata infatti invocata la medesima sezione dell’Espionage Act, che punisce il possesso indebito di documenti. Eppure, al momento, il Dipartimento di Giustizia sembra più agguerrito che mai contro Trump, tanto da aver fatto ricorso contro la sentenza di un giudice, che ha concesso all’ex presidente la nomina di uno “special master” che valuti il materiale sequestrato in casa sua dall’Fbi. Vedremo come si svilupperà la vicenda nelle prossime settimane. Tuttavia tira sempre più aria di doppiopesismo.