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2021-03-11
Il governo si divide sui nuovi divieti. Salvini e Sileri alleati contro il lockdown
Pierpaolo Sileri (Ansa)
Regna l'incertezza, sia sul fronte dei ristori che su quello delle nuove misure anti Covid. Se quella di ieri sera doveva essere, a Palazzo Chigi, la riunione decisiva per mettere a punto la nuova stretta, alla fine tutto si è risolto, dopo un incontro di un'ora e mezza, in un ulteriore rinvio, in attesa di dati più aggiornati, che a questo punto non potranno che essere quelli del monitoraggio settimanale dell'Iss. E se il ritardo nell'emanazione del dl Sostegno comincia a far emergere un malumore sempre più palese da parte di alcuni settori della maggioranza, le nuove chiusure rischiano di esaltarne le divisioni, riproponendo anche gli attriti tra potere centrale e amministratori locali che hanno contraddistinto la prima fase della pandemia. Di certo, infatti, per ora c'è che sotto la spinta dell'ala più intransigente dell'esecutivo, capeggiata dal ministro della Salute, Roberto Speranza, il dpcm entrato in vigore solo qualche giorno fa (il 6 marzo) all'insegna di un nuovo approccio alla questione che avrebbe tenuto conto delle istanze dei soggetti maggiormente colpiti dalle misure, fornendo loro un cospicuo periodo di anticipo nella comunicazione delle stesse, è di fatto lettera morta. Non solo: la nuova stretta, secondo quanto filtra, potrebbe partire già da questo weekend, con il preavviso di un giorno solo che è stato ferocemente criticato dai diretti interessati per tutto l'operato del Conte bis.
Venendo al merito di quello che potrebbe toccare in sorte agli italiani già nelle prossime ore, l'ipotesi prevalente è che si torni esattamente al complesso delle misure messe a punto dal precedente esecutivo nel periodo natalizio. Il che vuol dire, sostanzialmente, uniformare le restrizioni in tutto il Paese nei weekend, comprese le Regioni che sono in fascia gialla, con negozi, bar e ristoranti chiusi. Ma su come declinare nel dettaglio queste nuove limitazioni agli spostamenti, i punti di vista sono più di uno, e non hanno mancato di emergere sia sottotraccia, nella riunione a Palazzo Chigi di ieri tra il presidente del Consiglio, Mario Draghi, i ministri più importanti, il presidente dell'Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro, e il direttore del Consiglio superiore di Sanità, Franco Locatelli, sia attraverso pubbliche dichiarazioni degli esponenti politici.
Ad esempio, non è ancora chiaro se si vorrà dichiarare, nei weekend, tutta Italia zona rossa o zona arancione. E la differenza non è di poco conto, perché nei fine settimana «arancioni» del trascorso periodo festivo era consentito circolare liberamente all'interno del proprio Comune tra le 5 del mattino e le 22, mentre se dovessero prevalere i «rigoristi», stavolta il colore sarebbe il rosso e ci sarebbe il lockdown duro, quello in cui, come un anno fa, ogni spostamento non strettamente necessario era vietato. Perché c'è da ricordare che una delle poche novità introdotte dal governo Draghi è stata quella di non consentire, nelle zone rosse, le visite ad amici e parenti, anche per una sola volta al giorno, che prima invece erano consentite. E sarà proibita l'attività sportiva, se non nelle vicinanze della propria abitazione. A rimetterci saranno negozianti, baristi e ristoratori delle zone in cui la curva del contagio è ritenuta sotto controllo, poiché sia nel caso dei week-end arancioni che di quelli rossi, anche loro dovrebbero abbassare le serrande assieme a tutti gli altri, potendo fare solo asporto e consegna a domicilio. Zona gialla che tra l'altro potrebbe mutare in senso più restrittivo nei giorni feriali, con la chiusura dei ristoranti a pranzo e l'anticipo del coprifuoco di due o tre ore, diventando sempre più simile a una zona arancione.
Ma l'impressione è che, al di là di cosa si deciderà per i weekend, con i dati degli ultimi giorni ben presto tutta l'Italia possa ritrovarsi in rosso: è stato infatti il Cts a mettere nero su bianco la richiesta, già avanzata in passato al governo, di prevedere un passaggio automatico in zona rossa per le aree che superino la cifra di 250 contagi settimanali ogni 100.000 abitanti. Proprio sulla base di questo, alcuni sindaci e governatori (che si confronteranno oggi con l'esecutivo) hanno anticipato i tempi e annunciato le chiusure, come sta succedendo in Puglia con il sindaco di Bari, Antonio Decaro, che ha intenzione di andare anche oltre le ipotesi in campo, chiudendo di fatto il capoluogo pugliese alle 19, mentre il presidente della Regione, Michele Emiliano, ha già fatto sapere di aver disposto la chiusura di tutte le scuole.
Sul fronte politico, chi si sta spendendo di più, nel perimetro della maggioranza, per scongiurare un'ulteriore ondata di chiusure, è il leader leghista, Matteo Salvini, per il quale non c'è bisogno di «chiudere tutto in tutta Italia». Salvini ha aggiunto che «nei weekend non servono più chiusure ma più controlli», e sulla stessa lunghezza d'onda c'è il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri, del M5s, sul cui parere, non a caso, ha fatto leva il Capitano («Come ormai sostengono molti medici, il Cts e il sottosegretario Sileri, servono interventi mirati ed efficaci). Il pentastellato ha affermato che non ha senso «penalizzare la parte dell'Italia dove il contagio è sotto controllo» con un lockdown generalizzato di diverse settimane. E con la sua sponda a Salvini («Da lui parole di buon senso», ha commentato), ha consacrato un asse anti serrata.
Dall'opposizione, la presidente di Fdi, Giorgia Meloni, chiede di tutelare i più fragili dal contagio «con posti riservati sui mezzi pubblici, orari dedicati nei supermercati, alla posta e negli uffici pubblici, e con una assistenza domiciliare dedicata a chi la richiedesse». «Se il governo le leggesse», ha aggiunto, «avremmo probabilmente meno morti e meno chiusure».
In Svezia meno morti senza serrate. E la Svizzera conferma l’ok allo sci
Primi a chiudere e ultimi ad aprire ma al top dei decessi. Eppure, nonostante la chiusura delle scuole, di cinema, teatri, centri sportivi, nonostante il coprifuoco con bar e ristoranti sbarrati, l'Italia con oltre 100.000 morti è maglia nera Covid nel mondo. In Europa siamo superati solo dal Regno Unito con 124.000 morti ma che ora, con la campagna vaccinale di massa, sta invertendo la curva. Oltre al dato assoluto, anche il tasso di letalità è tra i più alti. È al 3,25%, il dato peggiore in Europa a parte Grecia (3,29), Ungheria (3,41) e Bulgaria (4,08). In Gran Bretagna è del 2,95% anche se i morti sono superiori. Sono in posizione migliore, Germania con il 2,86%, Spagna con 2,26% e Francia con 2,24%.
Questi numeri però ci dicono che i Paesi che hanno attuato misure più restrittive non hanno risolto affatto il problema del Covid. L'Ispi, l'Istituto di politica internazionale, ha misurato l'incidenza delle restrizioni sulla diffusione del contagio usando una scala da 0 a 100 che indica il massimo del contenimento. Nella prima ondata, l'Italia ha il livello più alto (80) e conta 587 vittime per milione di abitanti. La Francia ha 74 con 469 decessi, la Spagna 68 con 645 morti, Regno Unito 60 con 609 vittime. Idem la Germania che però ha solo 112 decessi. La Svezia ha il livello più basso (49) e 571 vittime. Nella seconda ondata, da ottobre 2020 al 10 febbraio 2021 l'Italia è sempre al primo posto (74) seguita da Uk (72), Spagna e Germania (70), Francia (66) e Svezia (63). L'Italia è stata la prima a chiudere le scuole, la Dad è scattata dal 27 ottobre mentre altrove non è arrivata fino a dicembre. Da ottobre 2020 a febbraio 2021, nel nostro Paese si contano 941 vittime per milione di abitanti mentre in Germania 650, in Francia 762, in Svezia 672, in Spagna 718. Solo il Regno Unito a causa della variante inglese arriva a 1.077 vittime per milione di abitanti.
Uno studio dell'Oxford coranavirus government response tracker ha stilato una classifica dei Paesi in base ai giorni di blocco delle attività. Al primo posto c'è l'Irlanda (163) seguita dall'Italia (131). In fondo i Paesi Bassi (110), Regno Unito (104), Belgio (97), Francia (84), Lituania (76). Confrontando questi numeri con le curve epidemiologiche emerge che chi ha attuato misure più restrittive non ha bloccato la pandemia.
In Germania, il lockdown, iniziato poco prima di Natale e fino al 7 marzo, non prevedeva l'obbligo di restare in casa. Da lunedì scorso sono stati riaperti negozi, musei e gallerie nelle aree con bassi contagi. Le scuole sono ripartite da metà febbraio.
In Spagna il coprifuoco ha orari variabili su base regionale e in generale inizia alle 23. A Madrid i ristoranti sono aperti.
La Svezia, che ha un tasso di mortalità tra i più bassi in Europa (122 ogni 100.000 abitanti) non ha mai attuato il lockdown. Dal governo sono arrivati solo inviti alle responsabilità individuali. Uniche limitazioni il divieto degli alcolici dopo le 20 e numero massimo di ingressi nei centri sportivi e commerciali. La mascherina non è obbligatoria.
La Svizzera ha adottato alcune misure di restrizione ma mai il blocco totale. Le stazioni sciistiche sono rimaste aperte. Il tasso di positività è attualmente al 4,58% e nella giornata di ieri sono stati segnalati 14 decessi e 41 ricoveri. I Paesi Bassi hanno adottato, durante la prima ondata, quello che il governo ha chiamato il «contenimento intelligente». I negozi sono rimasti aperti e la popolazione è stata libera di uscire. Solo ultimamente c'è stato un parziale giro di vite con ingressi contingentati nei ristoranti.
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Decisioni rinviate in attesa del monitoraggio Iss. Oggi tavolo con le Regioni. Strappo di Antonio Decaro: «Chiudiamo Bari alle 19».Uno studio di Oxford rivela: chi ha bloccato di più le attività non ha contenuto l'epidemia.Lo speciale contiene due articoli.Regna l'incertezza, sia sul fronte dei ristori che su quello delle nuove misure anti Covid. Se quella di ieri sera doveva essere, a Palazzo Chigi, la riunione decisiva per mettere a punto la nuova stretta, alla fine tutto si è risolto, dopo un incontro di un'ora e mezza, in un ulteriore rinvio, in attesa di dati più aggiornati, che a questo punto non potranno che essere quelli del monitoraggio settimanale dell'Iss. E se il ritardo nell'emanazione del dl Sostegno comincia a far emergere un malumore sempre più palese da parte di alcuni settori della maggioranza, le nuove chiusure rischiano di esaltarne le divisioni, riproponendo anche gli attriti tra potere centrale e amministratori locali che hanno contraddistinto la prima fase della pandemia. Di certo, infatti, per ora c'è che sotto la spinta dell'ala più intransigente dell'esecutivo, capeggiata dal ministro della Salute, Roberto Speranza, il dpcm entrato in vigore solo qualche giorno fa (il 6 marzo) all'insegna di un nuovo approccio alla questione che avrebbe tenuto conto delle istanze dei soggetti maggiormente colpiti dalle misure, fornendo loro un cospicuo periodo di anticipo nella comunicazione delle stesse, è di fatto lettera morta. Non solo: la nuova stretta, secondo quanto filtra, potrebbe partire già da questo weekend, con il preavviso di un giorno solo che è stato ferocemente criticato dai diretti interessati per tutto l'operato del Conte bis. Venendo al merito di quello che potrebbe toccare in sorte agli italiani già nelle prossime ore, l'ipotesi prevalente è che si torni esattamente al complesso delle misure messe a punto dal precedente esecutivo nel periodo natalizio. Il che vuol dire, sostanzialmente, uniformare le restrizioni in tutto il Paese nei weekend, comprese le Regioni che sono in fascia gialla, con negozi, bar e ristoranti chiusi. Ma su come declinare nel dettaglio queste nuove limitazioni agli spostamenti, i punti di vista sono più di uno, e non hanno mancato di emergere sia sottotraccia, nella riunione a Palazzo Chigi di ieri tra il presidente del Consiglio, Mario Draghi, i ministri più importanti, il presidente dell'Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro, e il direttore del Consiglio superiore di Sanità, Franco Locatelli, sia attraverso pubbliche dichiarazioni degli esponenti politici. Ad esempio, non è ancora chiaro se si vorrà dichiarare, nei weekend, tutta Italia zona rossa o zona arancione. E la differenza non è di poco conto, perché nei fine settimana «arancioni» del trascorso periodo festivo era consentito circolare liberamente all'interno del proprio Comune tra le 5 del mattino e le 22, mentre se dovessero prevalere i «rigoristi», stavolta il colore sarebbe il rosso e ci sarebbe il lockdown duro, quello in cui, come un anno fa, ogni spostamento non strettamente necessario era vietato. Perché c'è da ricordare che una delle poche novità introdotte dal governo Draghi è stata quella di non consentire, nelle zone rosse, le visite ad amici e parenti, anche per una sola volta al giorno, che prima invece erano consentite. E sarà proibita l'attività sportiva, se non nelle vicinanze della propria abitazione. A rimetterci saranno negozianti, baristi e ristoratori delle zone in cui la curva del contagio è ritenuta sotto controllo, poiché sia nel caso dei week-end arancioni che di quelli rossi, anche loro dovrebbero abbassare le serrande assieme a tutti gli altri, potendo fare solo asporto e consegna a domicilio. Zona gialla che tra l'altro potrebbe mutare in senso più restrittivo nei giorni feriali, con la chiusura dei ristoranti a pranzo e l'anticipo del coprifuoco di due o tre ore, diventando sempre più simile a una zona arancione. Ma l'impressione è che, al di là di cosa si deciderà per i weekend, con i dati degli ultimi giorni ben presto tutta l'Italia possa ritrovarsi in rosso: è stato infatti il Cts a mettere nero su bianco la richiesta, già avanzata in passato al governo, di prevedere un passaggio automatico in zona rossa per le aree che superino la cifra di 250 contagi settimanali ogni 100.000 abitanti. Proprio sulla base di questo, alcuni sindaci e governatori (che si confronteranno oggi con l'esecutivo) hanno anticipato i tempi e annunciato le chiusure, come sta succedendo in Puglia con il sindaco di Bari, Antonio Decaro, che ha intenzione di andare anche oltre le ipotesi in campo, chiudendo di fatto il capoluogo pugliese alle 19, mentre il presidente della Regione, Michele Emiliano, ha già fatto sapere di aver disposto la chiusura di tutte le scuole. Sul fronte politico, chi si sta spendendo di più, nel perimetro della maggioranza, per scongiurare un'ulteriore ondata di chiusure, è il leader leghista, Matteo Salvini, per il quale non c'è bisogno di «chiudere tutto in tutta Italia». Salvini ha aggiunto che «nei weekend non servono più chiusure ma più controlli», e sulla stessa lunghezza d'onda c'è il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri, del M5s, sul cui parere, non a caso, ha fatto leva il Capitano («Come ormai sostengono molti medici, il Cts e il sottosegretario Sileri, servono interventi mirati ed efficaci). Il pentastellato ha affermato che non ha senso «penalizzare la parte dell'Italia dove il contagio è sotto controllo» con un lockdown generalizzato di diverse settimane. E con la sua sponda a Salvini («Da lui parole di buon senso», ha commentato), ha consacrato un asse anti serrata. Dall'opposizione, la presidente di Fdi, Giorgia Meloni, chiede di tutelare i più fragili dal contagio «con posti riservati sui mezzi pubblici, orari dedicati nei supermercati, alla posta e negli uffici pubblici, e con una assistenza domiciliare dedicata a chi la richiedesse». «Se il governo le leggesse», ha aggiunto, «avremmo probabilmente meno morti e meno chiusure». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/divieti-salvini-sileri-contro-lockdown-2651012173.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="in-svezia-meno-morti-senza-serrate-e-la-svizzera-conferma-lok-allo-sci" data-post-id="2651012173" data-published-at="1615417344" data-use-pagination="False"> In Svezia meno morti senza serrate. E la Svizzera conferma l’ok allo sci Primi a chiudere e ultimi ad aprire ma al top dei decessi. Eppure, nonostante la chiusura delle scuole, di cinema, teatri, centri sportivi, nonostante il coprifuoco con bar e ristoranti sbarrati, l'Italia con oltre 100.000 morti è maglia nera Covid nel mondo. In Europa siamo superati solo dal Regno Unito con 124.000 morti ma che ora, con la campagna vaccinale di massa, sta invertendo la curva. Oltre al dato assoluto, anche il tasso di letalità è tra i più alti. È al 3,25%, il dato peggiore in Europa a parte Grecia (3,29), Ungheria (3,41) e Bulgaria (4,08). In Gran Bretagna è del 2,95% anche se i morti sono superiori. Sono in posizione migliore, Germania con il 2,86%, Spagna con 2,26% e Francia con 2,24%. Questi numeri però ci dicono che i Paesi che hanno attuato misure più restrittive non hanno risolto affatto il problema del Covid. L'Ispi, l'Istituto di politica internazionale, ha misurato l'incidenza delle restrizioni sulla diffusione del contagio usando una scala da 0 a 100 che indica il massimo del contenimento. Nella prima ondata, l'Italia ha il livello più alto (80) e conta 587 vittime per milione di abitanti. La Francia ha 74 con 469 decessi, la Spagna 68 con 645 morti, Regno Unito 60 con 609 vittime. Idem la Germania che però ha solo 112 decessi. La Svezia ha il livello più basso (49) e 571 vittime. Nella seconda ondata, da ottobre 2020 al 10 febbraio 2021 l'Italia è sempre al primo posto (74) seguita da Uk (72), Spagna e Germania (70), Francia (66) e Svezia (63). L'Italia è stata la prima a chiudere le scuole, la Dad è scattata dal 27 ottobre mentre altrove non è arrivata fino a dicembre. Da ottobre 2020 a febbraio 2021, nel nostro Paese si contano 941 vittime per milione di abitanti mentre in Germania 650, in Francia 762, in Svezia 672, in Spagna 718. Solo il Regno Unito a causa della variante inglese arriva a 1.077 vittime per milione di abitanti. Uno studio dell'Oxford coranavirus government response tracker ha stilato una classifica dei Paesi in base ai giorni di blocco delle attività. Al primo posto c'è l'Irlanda (163) seguita dall'Italia (131). In fondo i Paesi Bassi (110), Regno Unito (104), Belgio (97), Francia (84), Lituania (76). Confrontando questi numeri con le curve epidemiologiche emerge che chi ha attuato misure più restrittive non ha bloccato la pandemia. In Germania, il lockdown, iniziato poco prima di Natale e fino al 7 marzo, non prevedeva l'obbligo di restare in casa. Da lunedì scorso sono stati riaperti negozi, musei e gallerie nelle aree con bassi contagi. Le scuole sono ripartite da metà febbraio. In Spagna il coprifuoco ha orari variabili su base regionale e in generale inizia alle 23. A Madrid i ristoranti sono aperti. La Svezia, che ha un tasso di mortalità tra i più bassi in Europa (122 ogni 100.000 abitanti) non ha mai attuato il lockdown. Dal governo sono arrivati solo inviti alle responsabilità individuali. Uniche limitazioni il divieto degli alcolici dopo le 20 e numero massimo di ingressi nei centri sportivi e commerciali. La mascherina non è obbligatoria. La Svizzera ha adottato alcune misure di restrizione ma mai il blocco totale. Le stazioni sciistiche sono rimaste aperte. Il tasso di positività è attualmente al 4,58% e nella giornata di ieri sono stati segnalati 14 decessi e 41 ricoveri. I Paesi Bassi hanno adottato, durante la prima ondata, quello che il governo ha chiamato il «contenimento intelligente». I negozi sono rimasti aperti e la popolazione è stata libera di uscire. Solo ultimamente c'è stato un parziale giro di vite con ingressi contingentati nei ristoranti.
Ansa
Eppure, fino a pochi giorni fa, per la banca più antica del mondo l’aria era diventata irrespirabile. Le indagini della Procura di Milano avevano spinto il titolo giù dal cavallo, facendogli perdere miliardi di capitalizzazione. Le prime pagine dei giornali finanziari tremavano all’unisono: «aggiotaggio», «ostacolo alla vigilanza», «patto occulto». Parole che in Borsa funzionano come il fumo negli alveari: tutti scappano, nessuno chiede perché. Poi, lunedì, il colpo di scena. Spunta la parola magica che fa battere il cuore agli investitori: Consob. L’Autorità di vigilanza, finora poco loquace, aveva già detto a settembre che di «concerto» nella scalata a Mediobanca non ne vedeva traccia. E a Piazza Affari questo basta. Non è certezza, è una sfumatura, un mezzo sorriso, un sopracciglio alzato: ma per i mercati è come una benedizione papale. La Procura, però, non sembra aver preso bene la posizione dell’Autorità. Così ha inviato nuove carte, intercettazioni comprese, convinta che tra Luigi Lovaglio, Francesco Gaetano Caltagirone e Francesco Milleri ci fosse più di una semplice comunione d’intenti. Per i magistrati milanesi il trio avrebbe pianificato la conquista di Mps e poi la scalata a Mediobanca con la meticolosità di un architetto che disegna una cattedrale gotica.
Il punto è che dimostrarlo non è affatto semplice. Lo ha ricordato più volte lo stesso Paolo Savona, presidente della Consob, che sulla materia ha mostrato la cautela di un chirurgo: «Il concerto occulto è complesso da provare». Tradotto: puoi avere intercettazioni, sospetti, ricostruzioni, ma per far quadrare la tesi serve molto di più. E forse è questo che ha fatto scattare l’effetto molla sul titolo Mps: l’idea che la montagna giudiziaria rischi di partorire un topolino burocratico. Da qui in avanti il racconto assume i contorni della tragicommedia finanziaria. Milano manda documenti a Roma; Roma annuncia di valutarli. Gli investitori, che hanno il fiuto dei cani da caccia, interpretano la mossa come: «Sì, le carte le leggiamo, ma intanto non cambia nulla rispetto a settembre». E la banca di Siena - che ha passato negli ultimi dieci anni disastri che avrebbero fatto chiudere qualunque altro istituto occidentale - stavolta fiuta l’aria buona. Intanto gli analisti, quelli che il mercato lo guardano dall’alto del loro grafico preferito, si mostrano quasi papali: buy confermato, target price a 11 euro, fiducia intatta. Per loro la tempesta giudiziaria è un rumore di fondo. Una di quelle pioggerelline che fanno frusciare le foglie ma non cambiano le previsioni della vendemmia. Il paradosso è che anche Mediobanca, la presunta vittima designata del «concerto» inesistente, brinda. Alle 17 è a 16,48 euro, in rialzo dell’1,35%. Sembra quasi che il mercato si sia rassegnato a un’idea semplice: questa storia finirà in un grande nulla di fatto, come tante vicende finanziarie italiane in cui i protagonisti si guardano negli occhi e dicono: «Abbiamo scherzato». È un Paese curioso, l’Italia. Le accuse volano come coriandoli, i titoli crollano, la politica si indigna, i pm lavorano a pieno ritmo. Poi basta una riga in una relazione Consob - nemmeno una conclusione, solo un orientamento - e tutto si ribalta.
Il caso Mps dimostra ancora una volta che nel nostro mercato finanziario non c’è nulla di più potente della percezione. Non la verità processuale, non gli atti, non i faldoni. La percezione. Se la Consob solleva un sopracciglio, Mps vola. Se la magistratura invia nuove carte, il titolo magari trema per qualche ora, ma poi risale. È il teatro della finanza italiana: un luogo dove le istituzioni recitano, il pubblico interpreta e il mercato decide chi applaudirà. Intanto, a Siena, si festeggia. Non apertamente, perché la prudenza è d’obbligo. Ma nei corridoi, tra una planata di grafici e una riunione lampo, dev’essere tornato a circolare un pensiero che la banca aveva sepolto da tempo: forse stavolta siamo davvero usciti dal tunnel. Non è detto, perché le carte giudiziarie hanno vita propria e la Procura non ama essere smentita. Ma di certo lunedì è successo qualcosa. La banca più antica del mondo ha mostrato di avere ancora schiena, gambe e fiato. E soprattutto una cosa che da anni le mancava: fiducia. Il resto lo farà il tempo. E, naturalmente, la Consob. Che con un cenno, anche involontario, riesce ancora a muovere montagne. O almeno a far correre Mps come non succedeva da un pezzo.
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Il 43,8 % degli italiani ha detto di non ritenerla utile. «È una riflessione importante», osservava Ghisleri nel programma Realpolitik di Tommaso Labate su Rete 4, «perché vorrebbe dire che la legge sul consenso verrebbe utilizzata come deterrente, ma non sarebbe utile perché manca l’educazione». Ricordiamo che la legge, che introduce nel Codice penale il concetto di «consenso libero e attuale», è stata approvata all’unanimità alla Camera e presentata come un accordo bipartisan tra il premier Giorgia Meloni e il segretario del Pd, Elly Schlein. In commissione Giustizia, la coalizione di governo ha chiesto un nuovo passaggio, scatenando la reazione dell’opposizione che ha parlato di un «voltafaccia», di patto politico tradito. Ancor più singolare è che, nel sondaggio, sia stato il 37,6% delle donne a non ritenere la norma sullo stupro utile a scoraggiare o impedire la violenza sessuale, rispetto a un 38,8% convinto che serva. Perciò, se il 51,6% degli italiani interpellati crede che sia necessaria una legge che inasprisca il reato, ridefinendone le modalità (il ddl torna questa settimana in commissione a Palazzo Madama), la maggior parte di questo campione non lo considera un deterrente effettivo.
Inevitabile chiedersi il senso, allora, di una legge che complica all’inverosimile l’onere della prova di un consenso non «libero e attuale» (e il non poterlo provare può diventare equivalente all’aver commesso il reato), mentre poco inciderebbe nella protezione delle donne. Non la crede utile non solo l’elettorato di centrodestra (47,9% delle risposte, rispetto al 38,2% di «sì»), ma anche una bella fetta di coloro che votano a sinistra (34,3% i «no», 43,3 % i «sì»). E se può non sorprendere che il 53,6% degli elettori di Fratelli d’Italia abbia detto di con credere alla legge come prevenzione di episodi di violenza, è significativo che la pensi allo stesso modo il 38,5% di quanti votano Pd e che appena il 36,5% dei dem la consideri, invece, utile.
Quindi nei due partiti rappresentati da Giorgia Meloni e da Elly Schlein sono più forti le perplessità, circa l’approvazione del ddl come misura deterrente. Quanto all’impatto del reato di violenza sessuale riformato sulla base di un accordo Meloni-Schlein, restano sempre forti le riserve degli italiani. Non tanto perché non serva una legge dura (oltre il 53% sia a sinistra sia a destra si dice a favore), ma in quanto non risulta ben formulata. Non definisce che cosa costituisce consenso, anche nelle forme non verbali e nemmeno chiarisce quali elementi probatori possono dimostrarlo o escluderlo. «Si pensa che questi requisiti di libertà e attualità siano puntualizzati a tutela della donna e a vincolo e controllo per l’uomo: anche qui siamo di fronte a un ribaltamento concettuale e fisico della prova, spesso sono le donne che prendono l’iniziativa e non si può “pregiudizialmente” pensare al maschio come attaccante-persecutore, attizzatore di incendi passionali che si trasformano in atti di coercizione nel “fare” e nell’insistere», osservava due giorni fa su Startmag Francesco Provinciali, già giudice onorario presso il Tribunale per i minorenni di Milano.
Fanno pensare, inoltre, gli esiti di un altro sondaggio che è stato riportato sempre da Ghisleri. «Abbiamo chiesto quali sono le paure più grandi (degli italiani, ndr), al primo posto ci sono le aggressioni e le minacce (22,7%), seguite da rapine in casa (20,5%), furti e rapine (19,4%), truffe e frodi (16,6%)». La violenza sessuale risultava solo al quinto posto (9,4%) come preoccupazione. Eppure, dai primi dati emersi dall’indagine 2025 sulla violenza contro le donne condotta dal dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio e l’Istat denominata «Sicurezza delle donne», risultano aumentate «dal 30,1% al 36,3% le vittime che considerano un reato la violenza subita dal partner e raddoppia la percentuale delle richieste di aiuto ai Centri antiviolenza e gli altri servizi specializzati (dal 4,4 del 2014 all’8,7% del 2025)».
Evidentemente, la certezza della pena non è un deterrente. Rispetto al passato, c’è una diversa sensibilità verso la violenza sessuale e i diversi contenuti giuridici che il reato ha assunto nel tempo, però occorrono strategie volte all’educazione, alla sensibilizzazione, al riconoscimento della violenza, formando operatori (dalla scuola alla magistratura, passando per i servizi sociali). Serve rendere operativo ovunque il percorso di tutela per le donne che hanno subito violenza e perseguire chi l’ha provocata. Discutere di pertinenza e liceità all’interno della coppia, criminalizzando a priori, non argina la violenza sessuale.
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Quella al ladro, invece, è finita «grazie» all’intervento di quanti hanno braccato un albanese di 40 anni finito poi in ospedale con 30 giorni di prognosi. Il messaggio della questura è chiaro, «nessuna giustizia fai da te». Ma la corsa a identificare i residenti che hanno inseguito il ladro, alcuni forse armati di piccone tanto da provocargli una frattura al bacino, per la comunità è difficile da digerire. «In casa con me vivono mia moglie e i miei due bambini piccoli. Per fortuna, in quel momento non eravamo presenti. L’allarme è scattato ma le forze dell’ordine sono arrivate una decina di minuti dopo: il tempo sufficiente perché i ladri scappassero», scrive in una lettera al sito Aostasera.it un cittadino che vive in una delle case finite nel mirino dei ladri. «Non vuole essere un rimprovero ai carabinieri che sono intervenuti, ma il dato di fatto di un territorio in cui i tempi di reazione non sono adeguati alla pressione dei furti che subiamo da mesi». Addirittura cinque o sei i raid di furti verificatisi a partire dall’estate. Troppi per il paesino che ormai vive nell’angoscia.
Lo scorso venerdì erano passate da poco le 19 quando un massaggio da parte di un cittadino ha fatto scattare l’allarme: «Sono tornati i ladri». E di lì il tam tam da un telefonino all’altro: «Fate attenzione, chiudete le porte». Il rumore provocato dai ladri nel tentativo di aprire una cassaforte richiama l’attenzione dei cittadini che chiamano i carabinieri. In poco tempo, però, scatta il caos perché in molti si riversano in strada. Partono le urla, le segnalazioni, alcuni residenti sono armati di bastoni. Qualcuno parla di picconi ma i cittadini, oggi, negano. Uno dei malviventi scappa verso il bosco mentre l’altro viene individuato grazie all’utilizzo di una termocamera e fermato. Ha con sé la refurtiva, 5.000 euro, gli abitanti gli si scagliano contro e solo l’intervento dei carabinieri mette fine al linciaggio oggi duramente stigmatizzato dal questore Gian Maria Sertorio: «La deriva giustizialista è pericolosissima, le ronde non devono essere fatte in alcun modo, bisogna chiamare il 112 e aspettare le forze dell’ordine». Dello stesso avviso il comandante dei carabinieri della Valle d’Aosta, Livio Propato, che ribadisce un secco «no alle ronde e alla giustizia fai da te. Non bisogna lasciarsi prendere dalla violenza gratuita perché è un reato. E si passa dalla parte del torto. I controlli ci sono, i furti ci sono, ma noi tutti stiamo facendo ogni sforzo per uscire tutte le sere con più pattuglie e quella sera siamo subito intervenuti».
Già, peccato che, a quanto pare, tutto questo non basti. Negli ultimi mesi il Comune si era attrezzato di una cinquantina di telecamere per contrastare le incursioni dei ladri ma senza successo. «A livello psicologico è un periodo complicato», stempera il sindaco Alexandre Bertolin, «le forze dell’ordine fanno del loro meglio ma non si riesce a monitorare tutto. Abbiamo le telecamere ma al massimo riusciamo a vedere dopo il fatto come si sono mossi i ladri». E anche qualora si dovesse arrivare prima e si riuscisse a fermare il ladro, commentano i cittadini, tutto poi finisce in un nulla di fatto.
«Leggendo le cronache», si legge sempre nella lettera a Aostasera.it, «si apprende che il ladro fermato sarebbe incensurato. Temo che questo significhi pochi giorni di detenzione e una rapida scarcerazione. Tradotto: io resto l’unica vittima, con la casa a soqquadro, i ricordi rubati e la paura addosso; lui invece rischia di cavarsela con poco senza dover dire chi lo aiutava e dove sono finiti i nostri beni».
Un clima di esasperazione destinato ad aumentare ora che si scopre che nemmeno difendersi sarebbe legittimo. Intanto, per il ladro, accusato di furto e in carcere fino al processo che si terrà il 19 dicembre, la linea difensiva è già pronta . Quella di un cuoco con figli piccoli da mantenere e tanto bisogno di soldi. «Mi hanno mandato altri albanesi», dice. In attesa di vedere quale corso farà la giustizia, i cittadini ribadiscono che l’attesa inerme non funziona. «Quando la legge non riesce a proteggere chi subisce i reati, le persone, piaccia o no si organizzano da sole. Se vogliamo evitare che episodi come questo si ripetano non dovremmo essere stigmatizzati. Occorre dare alla comunità strumenti per sentirsi protette. Prima che la rabbia prenda il sopravvento». Non proprio la direzione in cui sembra andare ora l’Arma.
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«Little Disasters: L'errore di una madre» (Paramount+)
Sarah Vaughan è quella di Anatomia di uno scandalo, diventato poi miniserie Netflix. Ed è la stessa che pare averci preso gusto, con la narrazione televisiva. Giovedì 11 dicembre, tocca ad un altro romanzo della scrittrice debuttare come serie tv, non su Netflix, ma su Paramount+.
Little Disasters: L'errore di una madre non è un thriller e non ha granché delle vicissitudini, amorose e politiche, che hanno decretato il successo di Anatomia di uno scandalo. Il romanzo è riflessivo. Non pretende di spiegare, di inventare una storia che possa tenere chi legga con il fiato sospeso o indurlo a parteggiare per questa o quella parte, a indignarsi e commuoversi insieme ai suoi protagonisti. Little Disasters è la storia di un mestiere mai riconosciuto come tale, quello di madre. Non c'è retorica, però. Sarah Vaughan non sembra ambire a veder riconosciuto uno dei tanti sondaggi che alle madri del mondo assegnano uno stipendio, quantificando le ore spese nell'accudimento dei figli e della casa. Pare, piuttosto, intenzionata a sondare le profondità di un abisso che, spesso, rimane nascosto dietro sorrisi di facciata, dietro un contegno autoimposto, dietro una perfezione solo apparente.
Little Disastersè, dunque, la storia di Liz e di Jess, due amiche che sulla propria e personale concezione di maternità imbastiscono - loro malgrado - un conflitto insanabile. Jess, pediatra all'interno di un ospedale, è di turno al pronto soccorso, quando Liz si presenta con la sua bambina fra le braccia. Sembra non stare bene, per ragioni imperscrutabili ad occhio profano. Ma i primi esami rivelano altro: un'altra verità. La piccola ha una ferita alla testa, qualcosa che una madre non può non aver visto. Qualcosa che, forse, una madre può addirittura aver provocato. Così, sui referti di quella piccinina si apre la guerra, fatta di domande silenziose, di diffidenza, di dubbi. Jess comincia a pensare che, all'interno della famiglia di Liz, così bella a guardarla da fuori, possa nascondersi un mostro. Ipotizza che l'amica possa soffrire di depressione post partum, che la relazione tra lei e il marito possa essere violenta. Liz, da parte sua, non parla. Non dice. Non spiega come sia possibile non abbia visto quel bozzo sul crapino della bambina. E Little Disasters va avanti, con un finale piuttosto prevedibile, ma con la capacità altresì di raccontare la complessità della maternità, le difficoltà, i giudizi, la deprivazione del sonno, il peso di una solitudine che, a tratti, si rivela essere assordante.
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