2025-01-20
Distopie d’autore
Libri e serie tv presentano futuri alternativi sempre più opprimenti. Forse perché in realtà parlano del presente. E del lato oscuro del progresso.L’ultimo «sogno» femminista: coprifuoco per soli maschi. In Curfew agli uomini, trattati tutti da potenziali molestatori, è vietato uscire di notte. Le attiviste si esaltano. Ignorando ancora che il pericolo arriva soprattutto dai migranti.Lo speciale comprende due articoliIl sole dell’avvenire si è oscurato. Il progresso un tempo prometteva un futuro radioso, libero dalla fatica e dalle limitazioni che la vita di ogni uomo fatalmente prevede. Oggi la luce si muta in buio, e la prospettiva è soltanto quella del disastro. All’ordine del giorno è il terrore, l’apocalisse è materia quotidiana di discussione. La letteratura, ancora una volta, fa da spia: le eccitanti utopie tecnologiche di H.G. Wells o Jules Verne hanno lasciato spazio a distopie sempre più terrificanti, a confronto delle quali il Grande Fratello appare quasi un capo di Stato tollerante. Non stupisce: se la disillusione e la disperazione dominano, la distopia è l’unico risultato possibile. Essa infatti non mette in scena il futuro, bensì il presente. Sono passati dieci anni dall’uscita di quella prodotta da Michel Houellebecq che immaginava una Francia (e poi una Europa) abbandonata nelle mani di un partito islamico. Era, quello, il racconto di un continente stanco, di una cultura spenta e sottomessa prima di tutto alle sue pulsioni autodistruttive. Possiamo dire che la distopia si è almeno in parte realizzata ma è sbagliato: le distopie non si realizzano, sono già realtà nel momento in cui vengono partorite. O, almeno, lo sono nella percezione di una parte della popolazione. Dovremmo chiederci allora perché siamo così affascinati dai massacri. Perché tra le serie tv più viste di sempre ci sia la coreana Squid Game, atroce rappresentazione di un gioco al massacro di cui è da poco uscita su Netflix la seconda stagione. Caitlyn Clark su Jacobin scrive che «l’estrema disuguaglianza della Corea è il tema centrale di Squid Game. Nella serie, un gruppo di concorrenti pieni di debiti compete in una varietà di giochi per bambini, da Red Light, Green Light ai tradizionali ppopgi coreani, per 38 miliardi di Krw (Korean Republic Won, circa 38 milioni di dollari). C’è solo un problema: in ogni partita si gioca fino alla morte. I giocatori che falliscono vengono uccisi sul posto, il rischio di eliminazione aumenta a ogni round. Ogni volta che un giocatore viene ucciso, il montepremi cresce, rappresentato graficamente in un gigantesco salvadanaio levitante dentro al dormitorio dei giocatori. Nel frattempo, un gruppo di élite globali ultraricche osserva e si diletta dei miserabili tentativi dei giocatori di vincere il premio in denaro. Scommettono sulla vita dei giocatori proprio come il protagonista dello show, Gi-hun, che coi debiti di gioco si è rovinato la vita, rappresentazione plastica di come la società sotto il capitalismo operi secondo due categorie di regole, una per i ricchi e l’altra per i poveri».C’è del vero in quello che Clark sostiene. «Alla fine siamo tutti giocatori, siamo tutti consumatori e tutti abbiamo le mani macchiate di sangue», mi ha detto Guillermo Andrés Duque Silva, ricercatore all’Università di Madrid e autore di Squid Game. Il gioco postcapitalista (Mimesis). Ma probabilmente c’è qualcosa di più. La nostra società non è lo specchio di quella coreana, e l’attrazione morbosa per l’ultraviolenza non può essere l’unica ragione del successo globale della serie. Viene da pensare che piaccia tanto ai più giovani perché corrisponde alla loro visione della vita: competizione spietata e distruzione certa per i più deboli. Le nuove generazioni costantemente offese e ipersensibili è facile che si rivedano nei concorrenti, come si rivedevano in Hunger Games. O in quelli dei protagonisti di un’altra serie distopica, Alice in Borderland, tratta da un manga firmato da Haro Aso. In fondo la trama è superficialmente simile: un gruppo di ragazzi si trova suo malgrado a competere in un gioco che prevede la morte per chi non supera i vari livelli. Appropriato per la società giapponese iper competitiva, un po’ meno per la nostra. A noi si addicono distopie più raffinate, e un filo più complesse. I lettori hanno l’imbarazzo della scelta, e il fatto che ve ne siano per tanti gusti diversi dimostra che ciascuno vede il futuro nero a modo suo. Si sprecano, per dire, i romanzi che immaginano l’avvento di un totalitarismo destrorso. Il capostipite è Qui non può succedere di Sinclair Lewis recentemente ristampato da Chiarelettere che racconta la scalata al potere del senatore statunitense Buzz Windrip, demagogo in cui a molti liberal piace rivedere il volto di Donald Trump. Del resto sono gli stessi che, quando il tycoon ha vinto per la prima volta, sono corsi in massa ad acquistare 1984 o Il Racconto dell’Ancella di Margaret Atwood. O che si sono fiondati su Il futuro di Naomi Alderman e soprattutto su Il complotto di A.M. Homes, il più concentrato sull’incubo trumpiano. È un fenomeno curioso questo della «distopia di sinistra»: racconti postapocalittici che insistono sulla catastrofe climatica, nazioni democratiche schiacciate da autocrati senza scrupoli, ritorno del nazismo o del fascismo, razzismo diffuso come ne I nostri cuori perduti di Celeste Ng. Mai nessuno, però, che sappia accorgersi dei disastri causati dal progressismo realizzato, dall’idolatria scientifica o dall’avanzata del politicamente corretto. L’intellettuale di sinistra compulsa i volumi di Octavia Butler e Ursula K. Leguin e ne ricava ansie sulla sorte delle minoranze etniche e sessuali. E non si accorge della distopia in cui lo ha gettato la sua cultura politica di riferimento a colpi di limitazione del linguaggio, superfetazione della tecnica e controllo sociale. Spesso le distopie più efficaci non incontrano il plauso generale. Al di là delle visioni di Aldous Huxley nel Mondo Nuovo, ci sono gioielli di critica sociale che tendono a passare in secondo piano, anche se firmati da autori di sublime livello. Un esempio perfetto è Il seme inquieto di Anthony Burgess, vero anticipatore della società fluida, assente da anni dagli scaffali forse perché troppo indigesto per i palati risentiti dei nostri tempi. Pochissimi hanno ricordato, in tempi di Covid, Prigionieri del Caduceo di Ward Moore, che nel 1959 già ipotizzava un totalitarismo sanitario (oggi ne segue vagamente le orme - concentrandosi soprattutto sulla discriminazione dei presunti infetti - Il Marchio di Frida Iksberg). Genio obliato, Ward Moore: in Più verde del previsto si era soffermato pure sui deliri ecologisti. La fissazione patologica per il corpo è stata indagata anche da LP Hartley in Giustizia facciale, capolavoro nascosto portato in Italia da Liberilibri. Senz’altro però il più potente cantore della carne mutante è stato ed è David Cronenberg, straordinario filosofo prima che regista: ogni suo film è un trattato su un segmento di realtà. Dalla demoniaca fascinazione per gli schermi mostrata in Videodrome fino all’ultimo tesoro Crimes of the future, che mette in scena una società in cui il dolore è scomparso, la modifica del corpo è pratica quotidiana, tanto che «la chirurgia è il nuovo sesso», dato che per provare qualcosa di profondo gli esseri umani hanno bisogno di incidersi le membra. Il corpo e le sue manipolazioni sono al centro di opere suggestive come Gattaca di Andrew Niccol, riflessione sulla malattia, la ricerca della perfezione e la tentazione dell’editing genetico. Temi che, con un filo meno di grazia, balenano pure in The Island di Michael Bay, il quale ha pure il pregio di mostrare gli orrori della maternità surrogata. Anche questi sono argomenti che distopie più recenti evitano: meglio concentrarsi sugli ipotetici pericoli che sarebbero causati dall’ascesa di movimenti conservatori. Per questo non godono di grande fama opere straordinarie come Amore tra le rovine del cattolico Walker Percy che mette in scena gli «ultimi giorni paurosi della vecchia, violenta, diletta America e del mondo occidentale che dispensava morte, avendo dimenticato Cristo ed essendo ossessionato da Cristo». Percy racconta una società dilaniata da scontri fra minoranze, eventualità su cui aveva insistito anche Ray Bradbury in Farehneit 451, di cui però si tende a ricordare solo il rogo «fascista» dei libri. Curiosamente il libro di Percy si intitola in traduzione italiana come un altro capolavoro distopico di Evelyn Waugh, che si concentra sui disastri prodotti dall’egualitarismo sfrenato, anche se con meno insistenza rispetto a certe opere comunque imprescindibili di Ayn Rand (su tutte Antifonia, uscito sempre per Liberilibri). Di nuovo, non sono temi di gran moda, per quanto spaventosamente attuali. Pressoché sconosciuto ai più è il film Codice: Genesi dei fratelli Hughes, con Denzel Washington che si fa guerriero per difendere l’ultima copia rimasta della Bibbia. Non va in classifica Solo il mimo canta al limitare del bosco di Walter Tevis che riflette sulle conseguenze della rivoluzione tecnologica e della scomparsa della fatica. In fondo sono poco lette persino le distopie sovversive del libertario William Burroughs, che più di ogni altro aveva inteso l’importanza della manipolazione del linguaggio. Difficile, dopo tutto, apprezzare una distopia quando la si sta vivendo. Più suggestivo appassionarsi al gioco al massacro quando, a ben vedere, ci si sta costruendo una morte per logoramento.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/distopie-dautore-2670892464.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="lultimo-sogno-femminista-coprifuoco-per-soli-maschi" data-post-id="2670892464" data-published-at="1737317658" data-use-pagination="False"> L’ultimo «sogno» femminista: coprifuoco per soli maschi Monica Ricci Sargentini, giornalista e nota attivista femminista, l’ha evocata a mo’ di provocazione, al termine di una conversazione sulle violenze di capodanno a Milano. E in effetti la serie appena resa disponibile sul canale Paramount ha diversi tratti di attualità. Si intitola Curfew, coprifuoco, e immagina un mondo in cui gli uomini sono appunto obbligati a rispettare un coprifuoco dalle 19 alle 7 del mattino. L’obiettivo è evidente: evitare che possano trasformarsi in molestatori o stupratori nelle ore serali, garantendo così alle donne la possibilità di circolare liberamente per le vie cittadine, senza preoccuparsi troppo di eventuali aggressioni. I maschi, per sovrappiù, vengono costantemente monitorati tramite dispositivi elettronici, come avviene ai condannati ai domiciliari. Ovviamente si tratta di una distopia che mira a fare esplodere la questione della violenza sulle donne, presentando una soluzione radicale e liberticida per neutralizzare la violenza patriarcale. Come sempre più spesso accade in questi tempi, tuttavia, le opere fantascientifiche e distopiche aprono scenari impensati, che allargano gli orizzonti della riflessione ben oltre le previsioni degli autori o autrici e le analisi dei commentatori. Ecco dunque che l’efficacia del racconto di Curfew supera gli angusti confini del discorso neofemminista oggi tanto presente nel mainstream. Certo, per intravvederne gli aspetti più penetranti bisogna avere il fegato di lasciare da parte la correttezza politica e le indicazioni del pensiero prevalente. Non c’è bisogno di immaginare universi paralleli per trovare tracce del coprifuoco di cui tratta la serie. Lo abbiamo vissuto tutti - maschi e femmine - nei giorni bui del Covid, ma sembra che questo tipo di lettura non abbia larga diffusione. Sono rari gli autori e le autrici che abbiano avuto il coraggio di stigmatizzare le derive (appunto) distopiche della gestione della pandemia: restrizioni folli, reclusione forzata, lasciapassare elettronico... Niente che gli scrittori non avessero ampiamente previsto. Eppure, guarda un po’, la gran parte della popolazione e la quasi totalità degli intellettuali si è serenamente prestata all’oppressione. Risulta grottesco, perciò, che ora gli illustri pensatori si balocchino con previsioni di incubi totalitari e fantasie discriminatorie. Non è tutto. Se proprio si vuole restare nell’ambito del dibattito riguardante la violenza contro le donne, si dovrebbe ammettere che Curfew è leggermente fuori fuoco. A ben vedere, il pericolo nelle città europee oggi viene per lo più da bande di stranieri di seconda o terza generazione. Lo testimoniano le molestie di gruppo che continuano a ripetersi a Milano e che si sono verificate anche altrove. Lo testimonia lo scandalo micidiale delle grooming gang britanniche, gruppi di pakistani che hanno adescato e abusato migliaia e migliaia di ragazzine. Come nei più inquietanti romanzi di science fiction, le istituzioni del Regno Unito hanno sepolto per anni la questione, per non soffiare sul fuoco del razzismo: perfetta realizzazione della distopia multiculturale. Segno che la realtà del presente, molto spesso, è più spaventosa del futuro immaginato.
Il cancelliere tedesco Friedrich Merz (Ansa)
Mario Draghi e Ursula von der Leyen (Ansa)