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2023-12-25
Su Disney+ arriva la docuserie sulla Carrà
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Raffaella Carrà (Ansa)
Eppure, nella sala, ci è stata. Poco, lo spazio di una settimana. Era luglio, quello scorso, il secondo anniversario dalla scomparsa della grande Carrà. Raffa è arrivato allora, tre ore di magia per raccontare luci ed ombre del mito. La docuserie, che su Disney+ è stata suddivisa in puntate di un’ora ciascuna, non è stata pensata a scopo celebrativo. Non solo, quanto meno. Una domanda l’ha percorsa per intero, la stessa che chi non abbia riempito i cinema nel luglio scorso può ritrovare adesso, a ridosso del Natale, online. Chi è stata Raffaela Carrà? Quale donna si è celata dietro il personaggio? Quali ardori, quali sentimenti?.
Raffa, diretta da Daniele Lucchetti, ha cercato di ricostruire sessant’anni di carriera, sessant’anni di rischi. Sessant’anni in cui ogni scelta è rimandata a quel privato che la Carrà, un nome scelto da altri nel mare magnum dell’arte pittorica, ha sempre custodito con scrupolosa gelosia. È bambina, dunque, quando la docuserie comincia: una piccola, trascurata dal padre e fagocitata da una madre severa e autoritaria, vittima di un divorzio che i tempi hanno reso duro. Ed è bambina, quando la danza, suo sogno più grande, le viene negata. Le caviglie troppo fragili non l’avrebbero retta. Di qui, la decisione di tentare la strada attoriale. Una strada che l’avrebbe portata in America, ad Hollywood, al fianco di Frank Sinatra, costringendola, però, a compromessi che la sua indole le ha impedito di accettare. Raffella Carrà, nata Pelloni nella Bologna dei primi anni Quaranta, ha rifiutato un contratto di tre anni pur di sfuggire a logiche maschiliste e patriarcali. Pur di vivere secondo regole morali sue proprie. Regole difficili che, una volta ancora, l’hanno portata ad un cambiamento.
Archiviata la danza, suo sogno proibito, la Carrà si è trovata ad archiviare anche la recitazione. Ha scelto la televisione, il luogo in cui quel suo viso di bambola non sembrava più stonare con il suo corpo di donna. E, di nuovo, ha scommesso su di sé, sulle proprie convinzioni. Quando ha potuto, ha ballato come nessuno prima aveva mai osato fare. Era il 1970, la trasmissione Io, Agata e tu. Raffaella Carrà ha chiesto le venissero concessi tre minuti da sola, tre minuti libera davanti alla telecamera e, quei tre minuti, li ha usati per muoversi. Ballare. Per stregare l’Italia che, di lì in avanti, ne avrebbe fatto un’icona. L’icona di cui ha raccontato Lucchetti, avvalendosi, nella sua docuserie, di materiali preziosi, provini inediti, di fotografie e archivi e testimonianze che potessero aiutare lo spettatore a capire quanto della Pelloni avesse la Carrà e quanta Carrà ci fosse nella Raffaella di Bologna, quella nata prima delle canzoni e dei balli, della fama internazionale, la Raffaella che ha pianto una maternità mai avuta e patito i bassi della vita familiare.
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Riduci
Un passaggio al cinema, brevissimo. Poi, il 27 dicembre, l’approdo finale, su Disney+. Raffa, docuserie in tre episodi, scritta da Barbara Boncompagni con Cristiana Farina, è stata pensata per lo streaming, il digitale: per una piattaforma che potesse garantirle un’internazionalità e, insieme, l’amore di un pubblico composito, più ampio di quello di una sala tradizionale.Eppure, nella sala, ci è stata. Poco, lo spazio di una settimana. Era luglio, quello scorso, il secondo anniversario dalla scomparsa della grande Carrà. Raffa è arrivato allora, tre ore di magia per raccontare luci ed ombre del mito. La docuserie, che su Disney+ è stata suddivisa in puntate di un’ora ciascuna, non è stata pensata a scopo celebrativo. Non solo, quanto meno. Una domanda l’ha percorsa per intero, la stessa che chi non abbia riempito i cinema nel luglio scorso può ritrovare adesso, a ridosso del Natale, online. Chi è stata Raffaela Carrà? Quale donna si è celata dietro il personaggio? Quali ardori, quali sentimenti?. Raffa, diretta da Daniele Lucchetti, ha cercato di ricostruire sessant’anni di carriera, sessant’anni di rischi. Sessant’anni in cui ogni scelta è rimandata a quel privato che la Carrà, un nome scelto da altri nel mare magnum dell’arte pittorica, ha sempre custodito con scrupolosa gelosia. È bambina, dunque, quando la docuserie comincia: una piccola, trascurata dal padre e fagocitata da una madre severa e autoritaria, vittima di un divorzio che i tempi hanno reso duro. Ed è bambina, quando la danza, suo sogno più grande, le viene negata. Le caviglie troppo fragili non l’avrebbero retta. Di qui, la decisione di tentare la strada attoriale. Una strada che l’avrebbe portata in America, ad Hollywood, al fianco di Frank Sinatra, costringendola, però, a compromessi che la sua indole le ha impedito di accettare. Raffella Carrà, nata Pelloni nella Bologna dei primi anni Quaranta, ha rifiutato un contratto di tre anni pur di sfuggire a logiche maschiliste e patriarcali. Pur di vivere secondo regole morali sue proprie. Regole difficili che, una volta ancora, l’hanno portata ad un cambiamento. Archiviata la danza, suo sogno proibito, la Carrà si è trovata ad archiviare anche la recitazione. Ha scelto la televisione, il luogo in cui quel suo viso di bambola non sembrava più stonare con il suo corpo di donna. E, di nuovo, ha scommesso su di sé, sulle proprie convinzioni. Quando ha potuto, ha ballato come nessuno prima aveva mai osato fare. Era il 1970, la trasmissione Io, Agata e tu. Raffaella Carrà ha chiesto le venissero concessi tre minuti da sola, tre minuti libera davanti alla telecamera e, quei tre minuti, li ha usati per muoversi. Ballare. Per stregare l’Italia che, di lì in avanti, ne avrebbe fatto un’icona. L’icona di cui ha raccontato Lucchetti, avvalendosi, nella sua docuserie, di materiali preziosi, provini inediti, di fotografie e archivi e testimonianze che potessero aiutare lo spettatore a capire quanto della Pelloni avesse la Carrà e quanta Carrà ci fosse nella Raffaella di Bologna, quella nata prima delle canzoni e dei balli, della fama internazionale, la Raffaella che ha pianto una maternità mai avuta e patito i bassi della vita familiare.
(Totaleu)
Lo ha detto il Ministro per gli Affari europei in un’intervista margine degli Ecr Study Days a Roma.
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Ed è quel che ha pensato il gran capo della Fifa, l’imbarazzante Infantino, dopo aver intestato a Trump un neonato riconoscimento Fifa. Solo che stavolta lo show diventa un caso diplomatico e rischia di diventare imbarazzante e difficile da gestire perché, come dicevamo, la partita celebrativa dell’orgoglio Lgbtq+ sarà Egitto contro Iran, due Paesi dove gay, lesbiche e trans finiscono in carcere o addirittura condannate a morte.
Ora, delle due l’una: o censuri chi non si adegua a certe regole oppure imporre le proprie regole diventa ingerenza negli affari altrui. E non si può. Com’è noto il match del 26 giugno a Seattle, una delle città in cui la cultura Lgbtq+ è più radicata, era stata scelto da tempo come pride match, visto che si giocherà di venerdì, alle porte del nel weekend dell’orgoglio gay. Diciamo che la sorte ha deciso di farsi beffa di Infantino e del politically correct. Infatti le due nazioni hanno immediatamente protestato: che c’entriamo noi con queste convenzioni occidentali? Del resto la protesta ha un senso: se nessuno boicotta gli Stati dove l’omosessualità è reato, perché poi dovrebbero partecipare ad un rito occidentale? Per loro la scelta è «inappropriata e politicamente connotata». Così Iran ed Egitto hanno presentato un’obiezione formale, tant’è che Mehdi Taj, presidente della Federcalcio iraniana, ha spiegato la posizione del governo iraniano e della sua federazione: «Sia noi che l’Egitto abbiamo protestato. È stata una decisione irragionevole che sembrava favorire un gruppo particolare. Affronteremo sicuramente la questione». Se le Federcalcio di Iran ed Egitto non hanno intenzione di cedere a una pressione internazionale che ingerisce negli affari interni, nemmeno la Fifa ha intenzione di fare marcia indietro. Secondo Eric Wahl, membro del Pride match advisory committee, «La partita Egitto-Iran a Seattle in giugno capita proprio come pride match, e credo che sia un bene, in realtà. Persone Lgbtq+ esistono ovunque. Qui a Seattle tutti sono liberi di essere se stessi». Certo, lì a Seattle sarà così ma il rischio che la Fifa non considera è quello di esporre gli atleti egiziani e soprattutto iraniani a ritorsioni interne. Andremo al Var? Meglio di no, perché altrimenti dovremmo rivedere certi errori macroscopici su altri diritti dei quali nessun pride si era occupato organizzando partite ad hoc. Per esempio sui diritti dei lavoratori; eppure non pochi operai nei cantieri degli stadi ci hanno lasciato le penne. Ma evidentemente la fretta di rispettare i tempi di consegna fa chiudere entrambi gli occhi. Oppure degli operai non importa nulla. E qui tutto il mondo è Paese.
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