2023-12-25
Su Disney+ arriva la docuserie sulla Carrà
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Un passaggio al cinema, brevissimo. Poi, il 27 dicembre, l’approdo finale, su Disney+. Raffa, docuserie in tre episodi, scritta da Barbara Boncompagni con Cristiana Farina, è stata pensata per lo streaming, il digitale: per una piattaforma che potesse garantirle un’internazionalità e, insieme, l’amore di un pubblico composito, più ampio di quello di una sala tradizionale.Eppure, nella sala, ci è stata. Poco, lo spazio di una settimana. Era luglio, quello scorso, il secondo anniversario dalla scomparsa della grande Carrà. Raffa è arrivato allora, tre ore di magia per raccontare luci ed ombre del mito. La docuserie, che su Disney+ è stata suddivisa in puntate di un’ora ciascuna, non è stata pensata a scopo celebrativo. Non solo, quanto meno. Una domanda l’ha percorsa per intero, la stessa che chi non abbia riempito i cinema nel luglio scorso può ritrovare adesso, a ridosso del Natale, online. Chi è stata Raffaela Carrà? Quale donna si è celata dietro il personaggio? Quali ardori, quali sentimenti?. Raffa, diretta da Daniele Lucchetti, ha cercato di ricostruire sessant’anni di carriera, sessant’anni di rischi. Sessant’anni in cui ogni scelta è rimandata a quel privato che la Carrà, un nome scelto da altri nel mare magnum dell’arte pittorica, ha sempre custodito con scrupolosa gelosia. È bambina, dunque, quando la docuserie comincia: una piccola, trascurata dal padre e fagocitata da una madre severa e autoritaria, vittima di un divorzio che i tempi hanno reso duro. Ed è bambina, quando la danza, suo sogno più grande, le viene negata. Le caviglie troppo fragili non l’avrebbero retta. Di qui, la decisione di tentare la strada attoriale. Una strada che l’avrebbe portata in America, ad Hollywood, al fianco di Frank Sinatra, costringendola, però, a compromessi che la sua indole le ha impedito di accettare. Raffella Carrà, nata Pelloni nella Bologna dei primi anni Quaranta, ha rifiutato un contratto di tre anni pur di sfuggire a logiche maschiliste e patriarcali. Pur di vivere secondo regole morali sue proprie. Regole difficili che, una volta ancora, l’hanno portata ad un cambiamento. Archiviata la danza, suo sogno proibito, la Carrà si è trovata ad archiviare anche la recitazione. Ha scelto la televisione, il luogo in cui quel suo viso di bambola non sembrava più stonare con il suo corpo di donna. E, di nuovo, ha scommesso su di sé, sulle proprie convinzioni. Quando ha potuto, ha ballato come nessuno prima aveva mai osato fare. Era il 1970, la trasmissione Io, Agata e tu. Raffaella Carrà ha chiesto le venissero concessi tre minuti da sola, tre minuti libera davanti alla telecamera e, quei tre minuti, li ha usati per muoversi. Ballare. Per stregare l’Italia che, di lì in avanti, ne avrebbe fatto un’icona. L’icona di cui ha raccontato Lucchetti, avvalendosi, nella sua docuserie, di materiali preziosi, provini inediti, di fotografie e archivi e testimonianze che potessero aiutare lo spettatore a capire quanto della Pelloni avesse la Carrà e quanta Carrà ci fosse nella Raffaella di Bologna, quella nata prima delle canzoni e dei balli, della fama internazionale, la Raffaella che ha pianto una maternità mai avuta e patito i bassi della vita familiare.
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