2022-11-14
Disegnare il cibo
Angela Simonelli (angelasimonelli.it)
Il piatto non è più solamente un vassoio utile ad accogliere le pietanze ma è una tela che colpisce gli occhi e la mente prima dello stomaco. Non serve essere cuochi professionisti: bastano passione e fantasia.La chef specialista nel food design Angela Simonelli insegna a valorizzare anche le pietanze meno invitanti: «Utilizzate forme e consistenze diverse, qualche colore in più e un condimento non banale. Persino la dieta sarà più piacevole».Lo speciale contiene due articoli In un’epoca nella quale il politically correct si prefigge di contrastare l’estetica omologata e perfezionista normalizzando ciò che prima si percepiva come difetto, al cibo accade l’esatto contrario. Basta con l’estetica casereccia dove la forma è zero perché conta la sostanza normata da secoli e secoli di ricette preparate allo stesso modo, sostituiamola col food design. E così ecco destrutturazioni, dislocazioni, liquefazioni di solidi e solidificazioni di liquidi e chi più ne ha più ne metta applicate a ricette della tradizione oppure la creazione di nuove ricette usando come criterio edificativo della pietanza un’estetica tutta contemporanea. Il fenomeno non è di poco conto, anche perché nella ristorazione professionale rappresenta una tendenza, trasversale e di impatto via via più importante, che va dal bar al ristorante tristellato. Se nel primo possiamo trovare il barista food designer per principianti che ombreggia soggetti sul cappuccino, dalla foglia al cuoricino, nel tristellato siamo alla concezione del cibo come materia e come iconografia non differente da quella in uso nell’edificazione artistica e architettonica (dal marmo alle spume di resina) dalle forme più varie, sia del singolo ingrediente che del piatto completo. Le sperimentazioni della cucina molecolare sono state interiorizzate. I ristoranti di cucina molecolare sono un po' scemati rispetto al passato, ma la molecolarità della cucina è il substrato del food design ormai penetrato ovunque. Anche in pizzeria. Se, per esempio, sulle pizze del grande ambasciatore della pizza napoletana nel mondo Gino Sorbillo si realizzano con la mozzarella nomi e perfetti ritratti degli astanti Vip, su quelle di Denis, la pizza di montagna di Denis Lovatel che sta facendo innamorare Milano e che, già esaltata da Gambero Rosso e 50 Top Pizza, proprio due lunedì fa sul palco di Golosaria è stata premiata come miglior pizzeria del capoluogo lombardo dal Golosario, la guida di Paolo Massobrio e Marco Gatti, col pecorino, crosta edibile compresa, si realizzano chips a forma di fiore che decorano per esempio la Buon Enrico. Sono «fiori» di formaggio buoni, ma anche puliti (scelta di non spreco) e giusti (ingredienti territoriali e pagati al giusto prezzo), come direbbe Carlo Petrini di Slow Food. Il piatto, insomma, non è più solo un vassoio che accoglie indifferente il cibo: è una tela che lo presenta in un modo che prima dello stomaco colpisca gli occhi e la mente. Il piatto, oggi, è un’opera d’arte al pari di un’installazione. Intervenire sull’estetica del cibo non è però una assoluta novità. Né è solo una novità della ristorazione di intrattenimento. Nelle Linee di indirizzo nazionale per la ristorazione ospedaliera, assistenziale e scolastica del ministero della Salute ci si chiede se sia «possibile modificare la struttura del pasto o la presentazione del cibo in funzione di nuove esigenze», la risposta è sì e l’intervento è proprio sul piatto, che si auspica come piatto unico. «La struttura classica del pasto adottata dopo la seconda guerra mondiale (primo e secondo piatto, pane, contorno e frutta) non risponde più alle esigenze della nuova organizzazione della vita. Di fatto oggi la struttura del pasto prevede un solo piatto (primo o secondo) accompagnato da contorno e/o frutta. L’adozione di un piatto unico (da accompagnare a contorno, pane e frutta) nel rispetto delle indicazioni nutrizionali previste dai Larn e/o da esigenze individuali, sia nella ristorazione scolastica che nell’ospedaliera e assistenziale, può favorire l’adozione di corrette abitudini alimentari da mantenere auspicabilmente anche a casa». Il piatto unico aiuta anche a mangiare meglio: «Tale struttura, tra l’altro corrisponde meglio anche a quanto previsto nel modello mediterraneo dove lo «spazio» dei secondi piatti (carni, pesce, uova, formaggi) è significativamente ridotto a favore di alimenti d’origine vegetale (legumi, ortaggi in particolarmodo)». E i finger food possono aiutare a mangiare meglio i «pazienti con deterioramento cognitivo esposti a un elevato rischio di malnutrizione per riduzione dell’apporto alimentare (difficoltà nell’alimentarsi e a utilizzare le posate, incapacità a relazionarsi con il cibo)» perché «consente di garantire il giusto apporto giornaliero di nutrienti, mantenere il piacere di mangiare e permette un discreto livello di autonomia». Come? «È importante frazionare il vitto su sei piccoli pasti, proporre menu stagionali e ricette del territorio per favorire nei pazienti il ricordo di alcuni sapori conosciuti. I finger food devono essere facili da maneggiare, nutrienti e calorici, di piccole dimensioni (un solo boccone)». Un food design ante litteram, dicevamo, è sempre esistito: dal Medioevo, torta parmesana e pastello volativo dimostrano come fosse in uso stupire le tavole dei nobili con architetture commestibili che addirittura potevano contenere uccelli che volavano via scoperchiando, il salsum sine salso, stoccafisso senza stoccafisso, è una ricetta di Apicio nella quale la sorpresa del piatto tanto in voga nei banchetti antico-romani sta nel fatto che alla carne sia data la forma di un pesce. Ed è sempre esistito ovunque: nella cucina giapponese con kaiseki si intende il pasto con tante piccole portate su piatti differenti (il cha-kaiseki è il pasto semplice allestito in seguito alla cerimonia del tè (chanoyu) organizzate secondo armonia di gusti, motivi e colori. La percezione del cibo è da sempre multisensoriale, cioè gustativa, sì, ma anche odorosa, tattile, sonora e, ancor prima di questi quattro sensi, visiva. Lo stimolo visivo, insieme con quello olfattivo, stimola l’apparato digestivo a ricevere il cibo. Il riflesso centrale della salivazione fu scoperto dal fisiologo russo Ivan Petrovič Pavlov (Nobel per la medicina nel 1904): Pavlov aveva notato che quando si presentava davanti ai suoi cani col cibo, questi visto e annusato (a distanza) il cibo iniziavano a salivare. Lo slogan del food design contemporaneo, che oppone alla bulimia della porzione abbondante, inutile ora che dal boom economico in poi siamo nazione nella quale il cibo non manca, anzi sovrabbonda, la misura della porzione elegante, potrebbe essere «mangiare meno, mangiare più bello». Anche per i nostri salute e benessere.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/disegnare-il-cibo-2658639761.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="angela-simonelli-se-sono-presentate-nel-modo-giusto-le-verdure-piacciono-pure-ai-piccoli" data-post-id="2658639761" data-published-at="1668327718" data-use-pagination="False"> Angela Simonelli: «Se sono presentate nel modo giusto le verdure piacciono pure ai piccoli» Angela Simonelli è architetto, chef e food designer incantevole e incantata dalla bellezza. Lasciata la professione di architetto, è stabilmente in cucina da Agricuoco, Sestri Levante, con lo chef, sommelier, e compagno Emanuele Revello. L’abbiamo intervistata in occasione dell’uscita di Veg bella buona (Giunti). Libro col quale, pur non essendo vegetariana, Angela si prefigge di applicare il food design anche alle pietanze vegetariane, innovativo o già appartenenti alla dieta mediterranea. «Ho sempre cucinato fin da quando ero molto piccola, anche con le mie nonne», ci racconta. «Nel 2015 ho partecipato a un concorso fotografico di cucina, poi ad altri concorsi, li vincevo tutti e ho capito che un impiattamento poteva fare la differenza». In che modo? «Quando si mangia, lo si fa con la bocca, sì, ma anche con il naso, con l’udito perché una patatina croccante è più stimolante per il nostro appetito rispetto a una molle, quindi perché non inserire il senso della vista? Ho preso i miei studi di geometria, scienza dei colori, scenografia eccetera e li ho declinati in cucina. All’inizio, sono nati piatti gourmet, poi ho impiattato anche le pizze. L’impiattamento si può applicare anche alla cucina tradizionale. Con Luisanna Messeri abbiamo scritto il libro Le stories di #Artusi, nel quale abbiamo dato un’immagine visiva alle ricette di Artusi in chiave leggermente moderna». Avete vestito di nuovo qualcosa di cui avete mantenuto l’essenza tradizionale. «La ricetta è sempre quella. C’erano ricette in cui Artusi diceva “un po’”, “ad occhio”, “quanto ne ha bisogno”... Con Luisanna abbiamo dato una grammatura, aiutando i lettori a capire meglio le sue ricette. La cucina dell’Artusi è la cucina italiana per eccellenza, quella tramandata da zie e nonne. Con le nuove tecniche di cucina si può usare un sottovuoto per stressare di meno la carne, trattare verdure di stagione con la tecnica della fermentazione per non sciuparle e conservarle. La grande sfida è poter mangiare un pomodoro fuori stagione e buono, non di serra o addirittura comprato all’estero, caso in cui abbiamo da considerare i costi del carburante, il costo elettrico delle serre eccetera. Sarebbe bene usare i pomodori in estate oppure conservarli, pastorizzarli anche semplicemente in un forno a vapore oppure facendo una fermentazione. è la sfida dello chef moderno, perché è difficile inventare qualcosa. La cucina molecolare c’è riuscita senz’altro, ma a volte basta trovare un modo per rendere più appetibile un piatto della tradizione a un palato che magari non lo apprezza più». Lei vuole parlare alle persone normali che intendono ritrovare un rapporto immediato col cibo. «Sì, è un modo anche creativo. Non sono solo suggerimenti d’impiattamento o ricette carine, il tema è anche l’utilizzo della materia in tutte le sue parti, come usare le bucce per fare delle polveri, per esempio. Nella buccia c’è la parte più vitaminica, c'è la maggior parte del colore». In alcuni casi, anche il maggior contenuto di fibra. «Esatto, spesso la buccia diventa rifiuto perché non si sanno queste cose oppure non si conosce un modo creativo per sfruttarle. Vivere in modo veramente ecosostenibile vuol dire anche sfruttare al massimo la materia. Suggerisco anche di farsi un orto, almeno coltivare qualche erba aromatica sul davanzale, perché fa tanta differenza, sia all’olfatto, sia all’occhio, perché il verde è uno dei colori che stimolano di più il piacere visivo. I colori del semaforo sono rosso e verde perché sono super attrattivi per l’occhio umano. Se noi realizziamo un piatto con delle gocce di rosso, oppure di verde, magari una foglia, l’occhio le noterà». Lei insomma invita a utilizzare di più il food design e ad essere più ecologici? «Si tratta di capire cosa si mangia. Poi, l’impiattamento è amore per sé stessi e per gli altri, è una coccola, è un piacere visivo. Immagina di fare una dieta e prepararti un piatto un po’ triste, un po’ grigio… Poi immaginati lo stesso piatto magari tagliato a cubetti, con erbe aromatiche, verdure colorate... Il piatto assume immediatamente un’altra valenza. L’impiattamento è un’ottima strategia anche per chi vuole tenersi in forma, non è assolutamente fine a sé stesso o esclusivamente artistico: contribuisce ad un maggiore gradimento della ricetta». In casda però abbiamo pochi minuti per cucinare e la parte estetica del piatto ci sembra un sovrappiù evitabile... «Io do anche indicazioni comprensibili a tutti, per esempio lo stile raggruppato, con le pietanze nel piatto messe insieme a bouquet. Oppure deplacé, un elemento spostato che crea una dissimmetria nell’occhio e piacere allo sguardo, che si trasforma in vere e proprie endorfine. Un altro consiglio per chi è a casa è scegliere un piatto giusto che dia modo alla nostra ricetta di respirare, non uno super pieno con lo sporco intorno, le gocce d’olio. Un piatto giusto coi contorni tutti puliti è già più gratificante che mangiare direttamente dal pentolino». Quindi chiunque può imparare? «Con i consigli e le ricette che do, sì. A volte uno pensa che basti fare un disegnino col cucchiaio, ma se non hai una salsa della giusta consistenza non puoi. Con la maionese e in generale con le salse emulsionate a base d’olio non si possono fare disegni a cucchiaio, perché ci restano attaccate, meglio usare un sac à poche o una salsa più adatta a fare questi giochi artistici col cucchiaio». Ha lavorato anche con le pizzerie? «Sì, ho fatto progetti sia per pizzerie che per paninerie. I panini devono essere attraenti, le pizze devono essere tagliate: io insegno al pizzaiolo come mettere la farcitura in modo che al taglio tutti abbiano il proprio pezzo di prosciutto, l’oliva eccetera. Ci sono tante tecniche di disposizione, a raggi, a triangoli, che sono cose basilari, che tutti possono imparare». Se la verdura nel piatto è più bella, si mangia più volentieri? «Posso garantire che è così, perché i miei 3 figli che hanno sempre giocato con le verdure, le hanno sempre mangiate. Bisogna partire da piccoli, creando sempre cose diverse, per esempio un orsacchiotto, un piccolo gioco che contribuisce a rendere più piacevole il pasto. Per gli adulti è uguale: se le verdure non vengono servite sempre bollite e condite con l’olio, possono avere tutto un altro appeal. Nel libro ho sviluppato un capitolo per mostrare come le ricette tipiche regionali siano vegetariane, a volte vegane da sempre. Queste ricette sono nel nostro dna emotivo, il nostro palato le conosce e per forza troviamo piacere nel gustarle. Abbiamo più difficoltà con ingredienti stranieri. Non ho usato tofu, seitan: abbiamo già talmente tanti prodotti ottimi vegetariani in Italia che mi sembrava inutile andare a cercarli fuori. Verdure cotte, crude e stufate, come dicevo, offrono giochi di diverse consistenze sotto i denti. Non stracuocete le verdure. Vanno scottate, cotte leggermente al dente, proprio come si fa con la pasta, altrimenti perdono sali minerali, vitamine e tutto il sapore». Viviamo in un’epoca bulimica, produciamo troppo, mangiamo troppo, mangiamo troppo velocemente. L’impiattamento può aiutare a recuperare un rapporto più equilibrato col cibo? «Sì, si dà più rispetto a tutte le parti dell’alimento perché si cerca di sfruttarle tutte. L’impiattamento non avviene alla fine, ma mentre si crea la ricetta. È una dimostrazione di amore nei nostri confronti e nei confronti del cibo».