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2025-11-03
Il Nobel a Machado, il pressing Usa. Finisce l’era Maduro in Venezuela?
Nicolás Maduro (Getty Images)
Con l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace a María Corina Machado, la figura più carismatica dell’opposizione venezuelana, il mondo torna a parlare di Venezuela. Dopo anni di silenzio mediatico e di marginalità diplomatica, la decisione del Comitato di Oslo riporta alla ribalta una nazione intrappolata in una spirale di autoritarismo, narcotraffico, censura e collasso economico. Il Nobel non è solo un riconoscimento morale: diventa un detonatore politico. L’interesse americano per il Venezuela è, prima di tutto, energetico. Dopo la guerra in Ucraina e la crisi del Medio Oriente, il controllo delle forniture petrolifere torna a essere una priorità strategica. L’amministrazione Usa sa che un Venezuela allineato garantisce accesso diretto a risorse cruciali e riduce la dipendenza da regioni instabili. Le grandi compagnie energetiche statunitensi, escluse dal mercato venezuelano dal 2007, premono per rientrare.
Secondo fonti statunitensi informate, l’amministrazione di Donald Trump avrebbe individuato obiettivi in Venezuela, comprese infrastrutture militari impiegate nel contrabbando di stupefacenti. I funzionari sostengono che, se il presidente dovesse ordinare raid aerei, i colpi invierebbero a Nicolás Maduro un messaggio chiaro: «È il momento di lasciare il potere». Pur senza una decisione definitiva sui raid terrestri, le valutazioni interne indicano che una campagna aerea mirerebbe ai nodi logistici che, nella ricostruzione americana, collegherebbero reti di narcotraffico e apparato statale venezuelano. Tra i potenziali obiettivi figurano porti gestiti da unità militari, aeroporti e basi navali, punti chiave per il transito e l’imbarco della droga. Dal suo insediamento, Trump ha fatto della lotta all’afflusso di narcotici una priorità, richiamando il numero delle vittime per overdose. Il Pentagono ha intensificato la presenza nei Caraibi e nell’area orientale del Pacifico con intercettazioni e attacchi contro imbarcazioni sospette; l’ulteriore passaggio sarebbe colpire infrastrutture terrestri nel Paese. I consiglieri della Casa Bianca hanno posto l’accento sulla crisi del fentanyl, oppioide sintetico responsabile di un’impennata di decessi negli Stati Uniti. Pur essendo la produzione del fentanyl prevalentemente legata al Messico con precursori cinesi, le autorità americane hanno le prove di come il Venezuela è coinvolto nel quadro logistico più ampio dei flussi di stupefacenti, in particolare quello della cocaina.
Gli organi di salute pubblica citati indicano numeri allarmanti: circa 80.000 morti per overdose nel 2024, con gli oppioidi sintetici responsabili della maggior parte delle vittime. Questa emergenza costituisce la cifra morale che l’amministrazione usa per giustificare la pressione politica e militare: «Il presidente è pronto a usare ogni elemento del potere americano per impedire che la droga invada la nostra patria», ha detto il portavoce della Casa Bianca Anna Kelly. Il Venezuela è stato definito come un «narco-stato» i cui legami con reti criminali rappresentano una minaccia diretta. Tra i più accesi sostenitori di questa impostazione figura il segretario di Stato Marco Rubio, che ha parlato di un’azione contro i «narcoterroristi» dell’emisfero occidentale. L’ipotesi di attacchi terrestri rientra in una strategia volta a spingere la cerchia di Maduro a defezionare o a costringerlo all’esilio. «Se fossi Maduro, andrei subito in Russia o in Cina», ha commentato il senatore Rick Scott. Analisti come Geoff Ramsey dell’Atlantic Council avvertono dei rischi: un intervento militare potrebbe indebolire lo Stato o, al contrario, rafforzare la solidarietà attorno al presidente, un effetto noto come «rally around the flag». Finora non sono emerse prove di defezioni significative nell’esercito, che continua a mostrarsi fedele a Maduro. Per aumentare la pressione, il Pentagono ha trasferito assetti navali e aeronavali nella regione, incluse portaerei scortate da cacciatorpediniere dotati di Tomahawk, caccia F/A-18 e velivoli per contromisure elettroniche. Missioni di sorveglianza e passaggi di bombardieri strategici vicino alle coste hanno lo scopo di sondare le difese e raccogliere informazioni.
Come scrive il Wall Street Journal, Trump ha confermato di aver autorizzato la Cia a condurre operazioni segrete in territorio venezuelano; il presidente ha evitato di rispondere direttamente all’ipotesi di azioni mirate contro la leadership, limitandosi a dire che il Venezuela «sente la pressione». Il governo di Caracas rivendica una presunta solidità difensiva: tra i sistemi in dotazione vengono indicati sistemi antiaerei russi S-300 e migliaia di missili Igla-S portatili. L’efficacia operativa di questi sistemi è dibattuta, ma la loro presenza è un fattore concreto che potrebbe complicare un’eventuale campagna aerea. Inoltre, i registri di volo e le tracce radar indicano l’arrivo a Caracas di aeromobili collegati a interessi russi, circostanza che ha riacceso i timori di un possibile rafforzamento del sostegno esterno al regime in caso di escalation. Il presidente venezuelano dispone di risorse militari limitate per contrastare un’eventuale offensiva statunitense. Il suo arsenale comprende sistemi missilistici terra-aria S-300 di fabbricazione russa, caccia Sukhoi Su-30 armati con missili antinave e droni a lungo raggio.
Nel tentativo di potenziare le proprie difese, Caracas si è rivolta a Teheran per ottenere sistemi radar passivi in grado di rilevare gli F-35, nuovi droni e apparati di guerra elettronica capaci di schermare le coordinate gps. Maduro ha chiesto inoltre al Cremlino l’ammodernamento dei Sukhoi e la fornitura di nuovi radar, missili antiaerei e balistici. Tuttavia, appare improbabile che Mosca possa destinare al Venezuela equipaggiamenti di tale portata, oggi indispensabili per proteggere le proprie infrastrutture energetiche dagli attacchi ucraini. La Russia, pur mantenendo uno stretto legame strategico con Caracas, sembra orientata a inviare soltanto droni Shahed e missili balistici di vecchia generazione. Analoghi appelli sono stati rivolti anche a Pechino, che dispone di un ampio catalogo di armamenti pronti per l’esportazione. Cina e Russia hanno entrambe un interesse concreto nel preservare la stabilità del regime venezuelano – Putin per ragioni geopolitiche, Xi Jinping per garantire la continuità delle forniture di greggio – ma nessuno dei due leader appare disposto a misurarsi apertamente con Donald Trump su un terreno di confronto militare. I potenziali costi di una campagna vanno oltre il teatro militare: le ripercussioni economiche e umanitarie potrebbero includere perturbazioni dei traffici commerciali, impatti sui mercati energetici regionali e ondate migratorie. Organizzazioni umanitarie e Nazioni Unite hanno già espresso preoccupazioni in tal senso. L’aspetto legale e diplomatico rimane cruciale: un intervento su vasta scala solleverebbe questioni di diritto internazionale e attirerebbe critiche nelle sedi multilaterali. A livello non convenzionale, aumentano i timori di ritorsioni informatiche e di campagne di disinformazione che potrebbero estendere l’impatto del confronto. I venti di guerra tornano a farsi sentire con forza. Lo dimostra la chiusura, decisa sabato, dello spazio aereo sopra Porto Rico, dove il Pentagono ha trasferito il proprio centro di comando. E dove, proprio ieri, ha comunicato che il corpo dei marines ha condotto esercitazioni di sbarco e infiltrazione. Ogni mossa resta però sospesa all’incognita del meteo: dopo il ciclone Melissa, non si prevedono nuovi uragani, ma la prudenza impone di attendere almeno la metà di novembre prima di avviare un’offensiva.
«Escludo un’invasione in stile Panama 1989. È troppo complicato»
Giovanni Giacalone coordina il gruppo «America Latina» del centro studi Itss di Verona
Quante possibilità ha Nicolas Maduro di restare al potere dopo che Donald Trump gli ha dichiararato guerra?
«Difficile dirlo. Sicuramente la posizione di Maduro allo stato attuale non è delle più felici. Gli Stati Uniti hanno schierato un imponente apparato militare con circa 10.000 soldati statunitensi, la maggior parte dei quali nelle basi di Porto Rico, ma anche un contingente di marines su navi d’assalto anfibie, oltre a caccia F-35, MQ-9 reaper drones, otto navi da guerra e un sottomarino. Se poi tutta questa mobilitazione serva soltanto a far pressione sul dittatore affinché lasci pacificamente il potere o sia invece funzionale a un’operazione di “regime change” è un altro discorso».
C’è chi ha parlato di una possibile invasione.
«Escludo l’eventualità di una vera e propria invasione da parte degli Stati Uniti in stile Panama 1989 in quanto il Venezuela è un Paese vasto e dal territorio molto complesso anche dal punto di vista geografico, con zone montagnose, selva, caratteristiche ideali per l’attività di guerriglia. È più probabile che Washington punti eventualmente a un importante supporto militare nei confronti di una spinta autoctona alla rivolta contro il regime, magari anche tramite il lavoro della Cia che ritengo stia operando da tempo in Venezuela, come del resto affermato recentemente anche da Trump. Maduro nei giorni scorsi ha esortato gli Usa alla “pace”, segnale che indica estrema preoccupazione da parte del dittatore».
In che modo la Cia può farlo cadere?
«La questione è un po’ complessa per poter essere sintetizzata, ma proverò a evidenziare alcuni aspetti. In primis, bisogna tener presente che Maduro è stato molto abile non soltanto nell’instaurare una rete interna a prova di golpe, ma ha anche concentrato tutto il potere su di sé tramite una rapida de-istituzionalizzazione delle strutture. Ogni istituzione in quel Paese è stata riorganizzata per sostenere un numero esiguo di persone vicine a Maduro: Corte Suprema, magistratura, esercito, polizia, i famigerati colectivos (gruppi paramilitari armati di estrema sinistra formati in prevalenza da volontari provenienti dai barrios), sono tutti suoi alleati. La popolazione dal canto suo è drasticamente divisa tra chi si oppone alla dittatura (e sono tantissimi come si è visto nelle marce a favore della leader dell’opposizione, Maria Corina Machado) e quelli che invece, volenti o nolenti, sostengono il regime. Del resto in Venezuela, se vuoi avere generi alimentari gratis, un lavoro, un passaporto per poter viaggiare, devi partecipare alle attività dei bolivariani, devi essere della cerchia».
Quindi fomentare una divisione interna?
«È probabile che la Cia possa cercare di creare un “gap”, una rottura tra Maduro e i suoi generali, ad esempio; con quale garanzia però? Chiunque possa attivarsi per destituirlo vorrà chiaramente delle garanzie di non passare il resto della propria esistenza in carcere o peggio; devono riscuotere vantaggi consistenti per tradire il regime. Questi personaggi sono però compatibili con una re-istituzionalizzazione del Paese che porti a una nuova era democratica? Non dimentichiamo che molti dei soggetti vicini a Maduro, generali inclusi, sono anche legati al Cartel de los Soles, organizzazione criminale dedita al narcotraffico. Il Dipartimento di Stato americano, proprio lo scorso luglio, ha sanzionato Maduro indicandolo come a capo del Cartello. Non sarà certo semplice reintegrarli in un nuovo Venezuela democratico. In alternativa la Cia potrebbe operare tramite un’infiltrazione del tessuto sociale e militare del Paese, agganciando bassi ranghi insoddisfatti del sistema per poi armarli, svilupparne le capacità operative e sostenerli nella rivolta con il supporto dell’assetto militare statunitense nell’area. Una volta caduto il regime, si procederebbe al conferimento del potere alla Machado. Resterebbe comunque l’incognita Farc ed Eln, formazioni dedite alla guerrilla ancora attive al confine tra Venezuela e Colombia che non prenderebbero certo bene un’eventuale caduta di Maduro».
Se dovesse accadere, María Corina Machado può sostituirlo?
«Teoricamente si, anche perché Maduro è una figura molto impopolare, anche tra tanti che prima lo sostenevano o sostenevano il chavismo. Maria Corina Machado è una politica di grande capacità. Ha catturato l’attenzione della stragrande maggioranza dei venezuelani, come dimostrato dalle manifestazioni svoltesi in suo favore a Caracas, con una marea di sostenitori che hanno rischiato la vita per scendere in strada, ma anche dalla sua vittoria alle primarie e quella del suo vice, Edmundo Gonzalez, nel luglio dello scorso anno. Come accennato bisogna valutare bene le dinamiche interne».
E in che modo in politici locali sono coinvolti con i narcos?
«Il Cartel de los Soles è un’organizzazione di narcotraffico composta da alti membri dello Stato e delle Forze Armate venezuelane. Il nome nasce nel 1993, quando due generali della Guardia Nazionale, identificati dai “soli” sulle mostrine, furono indagati per traffico di droga. Originariamente chiamato Grupo Fenix, era formato da ufficiali di medio livello, poi sostituiti da vertici militari e politici. Nel 2025 gli Usa hanno inserito nella blacklist Padrino López, Cabello Rondón e Maduro, già accusati di dirigere il sistema criminale del regime».
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Il premio all’oppositrice è stato un segnale: da allora gli Stati Uniti hanno iniziato a tramare contro il dittatore per accedere alle risorse di Caracas. Russia e Cina non sono disposte a scontrarsi con Trump nei Caraibi.L’analista Giovanni Giacalone: «Il territorio del Paese è vasto e geograficamente articolato. Più probabile il supporto a una rivolta interna».Lo speciale contiene due articoli.Con l’assegnazione del Premio Nobel per la Pace a María Corina Machado, la figura più carismatica dell’opposizione venezuelana, il mondo torna a parlare di Venezuela. Dopo anni di silenzio mediatico e di marginalità diplomatica, la decisione del Comitato di Oslo riporta alla ribalta una nazione intrappolata in una spirale di autoritarismo, narcotraffico, censura e collasso economico. Il Nobel non è solo un riconoscimento morale: diventa un detonatore politico. L’interesse americano per il Venezuela è, prima di tutto, energetico. Dopo la guerra in Ucraina e la crisi del Medio Oriente, il controllo delle forniture petrolifere torna a essere una priorità strategica. L’amministrazione Usa sa che un Venezuela allineato garantisce accesso diretto a risorse cruciali e riduce la dipendenza da regioni instabili. Le grandi compagnie energetiche statunitensi, escluse dal mercato venezuelano dal 2007, premono per rientrare. Secondo fonti statunitensi informate, l’amministrazione di Donald Trump avrebbe individuato obiettivi in Venezuela, comprese infrastrutture militari impiegate nel contrabbando di stupefacenti. I funzionari sostengono che, se il presidente dovesse ordinare raid aerei, i colpi invierebbero a Nicolás Maduro un messaggio chiaro: «È il momento di lasciare il potere». Pur senza una decisione definitiva sui raid terrestri, le valutazioni interne indicano che una campagna aerea mirerebbe ai nodi logistici che, nella ricostruzione americana, collegherebbero reti di narcotraffico e apparato statale venezuelano. Tra i potenziali obiettivi figurano porti gestiti da unità militari, aeroporti e basi navali, punti chiave per il transito e l’imbarco della droga. Dal suo insediamento, Trump ha fatto della lotta all’afflusso di narcotici una priorità, richiamando il numero delle vittime per overdose. Il Pentagono ha intensificato la presenza nei Caraibi e nell’area orientale del Pacifico con intercettazioni e attacchi contro imbarcazioni sospette; l’ulteriore passaggio sarebbe colpire infrastrutture terrestri nel Paese. I consiglieri della Casa Bianca hanno posto l’accento sulla crisi del fentanyl, oppioide sintetico responsabile di un’impennata di decessi negli Stati Uniti. Pur essendo la produzione del fentanyl prevalentemente legata al Messico con precursori cinesi, le autorità americane hanno le prove di come il Venezuela è coinvolto nel quadro logistico più ampio dei flussi di stupefacenti, in particolare quello della cocaina.Gli organi di salute pubblica citati indicano numeri allarmanti: circa 80.000 morti per overdose nel 2024, con gli oppioidi sintetici responsabili della maggior parte delle vittime. Questa emergenza costituisce la cifra morale che l’amministrazione usa per giustificare la pressione politica e militare: «Il presidente è pronto a usare ogni elemento del potere americano per impedire che la droga invada la nostra patria», ha detto il portavoce della Casa Bianca Anna Kelly. Il Venezuela è stato definito come un «narco-stato» i cui legami con reti criminali rappresentano una minaccia diretta. Tra i più accesi sostenitori di questa impostazione figura il segretario di Stato Marco Rubio, che ha parlato di un’azione contro i «narcoterroristi» dell’emisfero occidentale. L’ipotesi di attacchi terrestri rientra in una strategia volta a spingere la cerchia di Maduro a defezionare o a costringerlo all’esilio. «Se fossi Maduro, andrei subito in Russia o in Cina», ha commentato il senatore Rick Scott. Analisti come Geoff Ramsey dell’Atlantic Council avvertono dei rischi: un intervento militare potrebbe indebolire lo Stato o, al contrario, rafforzare la solidarietà attorno al presidente, un effetto noto come «rally around the flag». Finora non sono emerse prove di defezioni significative nell’esercito, che continua a mostrarsi fedele a Maduro. Per aumentare la pressione, il Pentagono ha trasferito assetti navali e aeronavali nella regione, incluse portaerei scortate da cacciatorpediniere dotati di Tomahawk, caccia F/A-18 e velivoli per contromisure elettroniche. Missioni di sorveglianza e passaggi di bombardieri strategici vicino alle coste hanno lo scopo di sondare le difese e raccogliere informazioni. Come scrive il Wall Street Journal, Trump ha confermato di aver autorizzato la Cia a condurre operazioni segrete in territorio venezuelano; il presidente ha evitato di rispondere direttamente all’ipotesi di azioni mirate contro la leadership, limitandosi a dire che il Venezuela «sente la pressione». Il governo di Caracas rivendica una presunta solidità difensiva: tra i sistemi in dotazione vengono indicati sistemi antiaerei russi S-300 e migliaia di missili Igla-S portatili. L’efficacia operativa di questi sistemi è dibattuta, ma la loro presenza è un fattore concreto che potrebbe complicare un’eventuale campagna aerea. Inoltre, i registri di volo e le tracce radar indicano l’arrivo a Caracas di aeromobili collegati a interessi russi, circostanza che ha riacceso i timori di un possibile rafforzamento del sostegno esterno al regime in caso di escalation. Il presidente venezuelano dispone di risorse militari limitate per contrastare un’eventuale offensiva statunitense. Il suo arsenale comprende sistemi missilistici terra-aria S-300 di fabbricazione russa, caccia Sukhoi Su-30 armati con missili antinave e droni a lungo raggio.Nel tentativo di potenziare le proprie difese, Caracas si è rivolta a Teheran per ottenere sistemi radar passivi in grado di rilevare gli F-35, nuovi droni e apparati di guerra elettronica capaci di schermare le coordinate gps. Maduro ha chiesto inoltre al Cremlino l’ammodernamento dei Sukhoi e la fornitura di nuovi radar, missili antiaerei e balistici. Tuttavia, appare improbabile che Mosca possa destinare al Venezuela equipaggiamenti di tale portata, oggi indispensabili per proteggere le proprie infrastrutture energetiche dagli attacchi ucraini. La Russia, pur mantenendo uno stretto legame strategico con Caracas, sembra orientata a inviare soltanto droni Shahed e missili balistici di vecchia generazione. Analoghi appelli sono stati rivolti anche a Pechino, che dispone di un ampio catalogo di armamenti pronti per l’esportazione. Cina e Russia hanno entrambe un interesse concreto nel preservare la stabilità del regime venezuelano – Putin per ragioni geopolitiche, Xi Jinping per garantire la continuità delle forniture di greggio – ma nessuno dei due leader appare disposto a misurarsi apertamente con Donald Trump su un terreno di confronto militare. I potenziali costi di una campagna vanno oltre il teatro militare: le ripercussioni economiche e umanitarie potrebbero includere perturbazioni dei traffici commerciali, impatti sui mercati energetici regionali e ondate migratorie. Organizzazioni umanitarie e Nazioni Unite hanno già espresso preoccupazioni in tal senso. L’aspetto legale e diplomatico rimane cruciale: un intervento su vasta scala solleverebbe questioni di diritto internazionale e attirerebbe critiche nelle sedi multilaterali. A livello non convenzionale, aumentano i timori di ritorsioni informatiche e di campagne di disinformazione che potrebbero estendere l’impatto del confronto. I venti di guerra tornano a farsi sentire con forza. Lo dimostra la chiusura, decisa sabato, dello spazio aereo sopra Porto Rico, dove il Pentagono ha trasferito il proprio centro di comando. E dove, proprio ieri, ha comunicato che il corpo dei marines ha condotto esercitazioni di sbarco e infiltrazione. 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Gli Stati Uniti hanno schierato un imponente apparato militare con circa 10.000 soldati statunitensi, la maggior parte dei quali nelle basi di Porto Rico, ma anche un contingente di marines su navi d’assalto anfibie, oltre a caccia F-35, MQ-9 reaper drones, otto navi da guerra e un sottomarino. Se poi tutta questa mobilitazione serva soltanto a far pressione sul dittatore affinché lasci pacificamente il potere o sia invece funzionale a un’operazione di “regime change” è un altro discorso».C’è chi ha parlato di una possibile invasione.«Escludo l’eventualità di una vera e propria invasione da parte degli Stati Uniti in stile Panama 1989 in quanto il Venezuela è un Paese vasto e dal territorio molto complesso anche dal punto di vista geografico, con zone montagnose, selva, caratteristiche ideali per l’attività di guerriglia. È più probabile che Washington punti eventualmente a un importante supporto militare nei confronti di una spinta autoctona alla rivolta contro il regime, magari anche tramite il lavoro della Cia che ritengo stia operando da tempo in Venezuela, come del resto affermato recentemente anche da Trump. Maduro nei giorni scorsi ha esortato gli Usa alla “pace”, segnale che indica estrema preoccupazione da parte del dittatore».In che modo la Cia può farlo cadere? «La questione è un po’ complessa per poter essere sintetizzata, ma proverò a evidenziare alcuni aspetti. In primis, bisogna tener presente che Maduro è stato molto abile non soltanto nell’instaurare una rete interna a prova di golpe, ma ha anche concentrato tutto il potere su di sé tramite una rapida de-istituzionalizzazione delle strutture. Ogni istituzione in quel Paese è stata riorganizzata per sostenere un numero esiguo di persone vicine a Maduro: Corte Suprema, magistratura, esercito, polizia, i famigerati colectivos (gruppi paramilitari armati di estrema sinistra formati in prevalenza da volontari provenienti dai barrios), sono tutti suoi alleati. La popolazione dal canto suo è drasticamente divisa tra chi si oppone alla dittatura (e sono tantissimi come si è visto nelle marce a favore della leader dell’opposizione, Maria Corina Machado) e quelli che invece, volenti o nolenti, sostengono il regime. Del resto in Venezuela, se vuoi avere generi alimentari gratis, un lavoro, un passaporto per poter viaggiare, devi partecipare alle attività dei bolivariani, devi essere della cerchia».Quindi fomentare una divisione interna?«È probabile che la Cia possa cercare di creare un “gap”, una rottura tra Maduro e i suoi generali, ad esempio; con quale garanzia però? Chiunque possa attivarsi per destituirlo vorrà chiaramente delle garanzie di non passare il resto della propria esistenza in carcere o peggio; devono riscuotere vantaggi consistenti per tradire il regime. Questi personaggi sono però compatibili con una re-istituzionalizzazione del Paese che porti a una nuova era democratica? Non dimentichiamo che molti dei soggetti vicini a Maduro, generali inclusi, sono anche legati al Cartel de los Soles, organizzazione criminale dedita al narcotraffico. Il Dipartimento di Stato americano, proprio lo scorso luglio, ha sanzionato Maduro indicandolo come a capo del Cartello. Non sarà certo semplice reintegrarli in un nuovo Venezuela democratico. In alternativa la Cia potrebbe operare tramite un’infiltrazione del tessuto sociale e militare del Paese, agganciando bassi ranghi insoddisfatti del sistema per poi armarli, svilupparne le capacità operative e sostenerli nella rivolta con il supporto dell’assetto militare statunitense nell’area. Una volta caduto il regime, si procederebbe al conferimento del potere alla Machado. Resterebbe comunque l’incognita Farc ed Eln, formazioni dedite alla guerrilla ancora attive al confine tra Venezuela e Colombia che non prenderebbero certo bene un’eventuale caduta di Maduro».Se dovesse accadere, María Corina Machado può sostituirlo?«Teoricamente si, anche perché Maduro è una figura molto impopolare, anche tra tanti che prima lo sostenevano o sostenevano il chavismo. Maria Corina Machado è una politica di grande capacità. Ha catturato l’attenzione della stragrande maggioranza dei venezuelani, come dimostrato dalle manifestazioni svoltesi in suo favore a Caracas, con una marea di sostenitori che hanno rischiato la vita per scendere in strada, ma anche dalla sua vittoria alle primarie e quella del suo vice, Edmundo Gonzalez, nel luglio dello scorso anno. Come accennato bisogna valutare bene le dinamiche interne».E in che modo in politici locali sono coinvolti con i narcos?«Il Cartel de los Soles è un’organizzazione di narcotraffico composta da alti membri dello Stato e delle Forze Armate venezuelane. Il nome nasce nel 1993, quando due generali della Guardia Nazionale, identificati dai “soli” sulle mostrine, furono indagati per traffico di droga. Originariamente chiamato Grupo Fenix, era formato da ufficiali di medio livello, poi sostituiti da vertici militari e politici. Nel 2025 gli Usa hanno inserito nella blacklist Padrino López, Cabello Rondón e Maduro, già accusati di dirigere il sistema criminale del regime».
In Toscana un laboratorio a cielo aperto, dove con Enel il calore nascosto della Terra diventa elettricità, teleriscaldamento e turismo.
L’energia geotermica è una fonte rinnovabile tanto antica quanto moderna, perché nasce dal calore naturale generato all’interno della Terra, sotto forma di vapore ad alta temperatura, convogliato attraverso una rete di vapordotti per alimentare le turbine a vapore che girando, azionano gli alternatori degli impianti di generazione. Si tratta di condotte chiuse che trasportano il vapore naturale dal sottosuolo fino alle turbine, permettendo di trasformare il calore terrestre in elettricità senza dispersioni. Questo calore, prodotto dai movimenti geologici naturali e dal gradiente geotermico determinato dalla profondità, può essere utilizzato per produrre elettricità, riscaldare edifici e alimentare processi industriali. La geotermia diventa così una risorsa strategica nella transizione energetica.
L’energia geotermica non dipende da stagionalità o condizioni climatiche: è continua e programmabile, dando un contributo alla stabilità del sistema elettrico.
Oggi la geotermia è riconosciuta globalmente come una delle tecnologie più affidabili e sostenibili: in Cile, Islanda, Nuova Zelanda, Stati Uniti, Filippine e molti altri Paesi questa filiera sta sviluppandosi vigorosamente. Ma è in Italia – e più precisamente in Toscana – che questa storia ha mosso i suoi primi passi.
La presenza dei soffioni boraciferi nel territorio di Larderello (Pisa), da sempre caratterizzato da manifestazioni naturali come vapori, geyser e acque termali, ha fatto intuire il valore energetico di quella forza invisibile. Già nel Medioevo erano attive piccole attività produttive basate sul contenuto minerale dei fluidi geotermici, ma è nel 1818 – grazie all’ingegnere francese François Jacques de Larderel – che avviene il primo utilizzo industriale. Il passaggio decisivo c’è però nel 1904, quando Piero Ginori Conti, sfruttando il vapore naturale, accende a Larderello le prime cinque lampadine: è la prima produzione elettrica geotermica al mondo, anticipando la nascita nel 1913 della prima centrale geotermoelettrica al mondo. Da allora questa tecnologia non ha mai smesso di evolversi, fino a diventare un laboratorio internazionale di ricerca e innovazione.
Attualmente, la Toscana rappresenta il cuore della geotermia nazionale: tra le province di Pisa, Grosseto e Siena Enel gestisce 34 centrali, per un totale di 37 gruppi di produzione che garantiscono una potenza installata di quasi 1.000 MW. Questi impianti generano ogni anno tra i 5,5 e i quasi 6 miliardi di kWh, pari a oltre un terzo del fabbisogno elettrico regionale e al 70% della produzione rinnovabile della Toscana.
Si tratta anche di uno dei più avanzati siti produttivi dal punto di vista tecnologico, che punta non allo sfruttamento ma alla coltivazione di questi giacimenti di energia. Nelle moderne centrali geotermiche, il vapore che ha già azionato le turbine – chiamato tecnicamente «vapore esausto» – non viene disperso nell'atmosfera, ma viene convogliato nelle torri refrigeranti, che con un processo di condensazione ritrasformano il vapore in acqua e lo reimmettono nei serbatoi naturali sotterranei attraverso pozzi di reiniezione.
Accanto alla dimensione produttiva, la geotermia toscana si distingue per la sua capacità di integrarsi nel tessuto sociale ed economico locale. Il calore geotermico residuo – dopo aver alimentato le turbine dell’impianto di generazione - è ceduto gratuitamente o a costi agevolati per alimentare reti di teleriscaldamento che raggiungono oltre 13.000 utenze, scuole, palazzetti, piscine e edifici pubblici, riducendo le emissioni e i consumi di combustibili fossili. Lo stesso calore sostiene attività agricole e artigianali, come serre per la coltivazione di fiori e ortaggi e aziende alimentari, che utilizzano questo calore «di scarto» invece di bruciare gas o gasolio. Persino la produzione di birra artigianale può beneficiare di questa fonte termica sostenibile!
Ma c’è dell’altro, perché questa integrazione tra energia e territorio si riflette anche sul turismo. Le zone geotermiche della cosiddetta «Valle del Diavolo», tra Larderello, Sasso Pisano e Monterotondo Marittimo, attirano ogni anno migliaia di visitatori. Musei, percorsi guidati e la possibilità di osservare da vicino fenomeni naturali e impianti di produzione, rendono il distretto un caso unico al mondo, dove la tecnologia convive con una geografia dominata da vapori e sorgenti naturali che affascinano da secoli viaggiatori e studiosi, creandoun’offerta turistica che vive grazie alla sinergia tra Enel, soggetti istituzionali, imprese, tessuto associativo e consorzi turistici.
Così, oltre un secolo dopo le prime lampadine illuminate dal vapore di Larderello, la geotermia continua ad essere una storia italiana che unisce ingegneria e paesaggio, sostenibilità e comunità. Una storia che prosegue guardando al futuro della transizione energetica, con una risorsa che scorre sotto ai nostri piedi e che il Paese ha imparato per primo a trasformare in energia e opportunità.
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