
Mattarella lancia moniti sulla ghettizzazione degli omosessuali. Giusto. Eppure, lui ha riservato un trattamento simile a chi rifiutava il vaccino anti Covid. E poi, dove sono i paladini dei diritti Lgbt quando si tratta di difendere i gay segregati nei Paesi musulmani?Qualche giorno fa il nostro presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha spiegato come siano terribili le discriminazioni contro persone omosessuali, transessuali, bisessuali. Ha spiegato come queste discriminazioni siano orribili e che nessuno deve essere discriminato. Però nemmeno una sillaba sulle persone a comportamento omoerotico ammazzate come cani a Gaza, in Iran e in Arabia Saudita. Ammazzare la gente è ignobile. «Discriminare», cioè distinguere, come disapprovare sono diritti umani. Solo una dittatura può costringermi ad accettare e apprezzare anche quello che non amo. Sulle discriminazioni possiamo discutere? Nessuno deve essere discriminato? Io sono stata discriminata in maniera terribile, dato che avevo rifiutato l’inoculazione di farmaci pericolosi e inutili. Sono stata sospesa dal lavoro, mi è stato impedito di salire su un treno, di usare il bagno pubblico di un bar. Il presidente Mattarella ha affermato che avendo rifiutato un farmaco pessimo e inutile non dovevo invocare alcuna libertà. Il vaccino è stato messo a punto scavalcando tutte le norme di sicurezza ed è stato imposto fingendo ci fosse un’emergenza, emergenza creata con un lockdown controllato da droni e vicini di casa, fondamentale in Italia ma non in Svizzera; con mascherine, obbligatorie in Italia ma non in Svizzera; con l’isolamento, irrinunciabile a Como ma non richiesto a Bellinzona; con terapie pessime a base di tachipirina, vigile attesa, intubazione. Sono stata radiata per vari motivi, incluso aver avvertito della pericolosità dei vaccini, aver protestato per le criminali discriminazioni dei non inoculati e aver dato indicazioni ai soggetti vaccinati per il Covid. Due libri, Patologia generale della proteina Spike di Paolo Bellavite e Ciro Isidoro e V-19 di Massimo Citro spiegano dettagliatamente la potenziale pericolosità di questi farmaci. Noi non ci salviamo è il dolente libro di Max Del Papa che racconta il dolore degli inoculati. Mentre consideriamo normali le morti improvvise, ampollosamente chiamate malori, le vite distrutte per infiammazione delle piccole fibre e i ragazzini con la miocardite, nessuno si scusa. Il presidente Mattarella ci ha discriminati dal concetto stesso di libertà nell’ingenua e antiscientifica convinzione che i cosiddetti vaccini Covid immunizzassero dal Covid. Eppure secondo l’articolo diPeter Doshi, pubblicato il 4 gennaio 2021 sul British medical journal, «i cosiddetti sieri Pfizer e Moderna non intervengono sull’infezione ma solo sulla malattia, diminuendone l’intensità dei sintomi non del 95% come millantato, ma del 25%». Mi risulta che i sieri, definiti vaccini, non prevengano la malattia; non risulta nemmeno a Peter Doshi; purtroppo non risulta nemmeno ai molto cittadini italiani vaccinati, che hanno dimostrato al di là di ogni ragionevole dubbio che aver subìto entrambe le dosi non diminuisce il contagio; non risulta nemmeno alla Public Health England, che ha condotto una ricerca che ha evidenziato che la carica virale è la stessa tra vaccinati e non vaccinati. I sieri non prevengono l’infezione come la legge che li ha resi obbligatori invece chiedeva (il decreto legge n. 44/2021 convertito nella legge n. 76/2021), dunque non poteva esserci alcun obbligo di ricevere quel siero, perché non fa ciò che la legge richiede. E chiedo, anzi pretendo, in quanto cittadino di uno Stato democratico che mi garantisce una libertà pagata lacrime e sangue, che qualcuno mi spieghi dov’è la logica, o che si scusi per la mancanza di logica. Dopo avermi pesantemente discriminata, in quanto non inoculata e quindi pericolosa secondo una bizzarra teoria antiscientifica, il presidente Mattarella, mi ordina di non discriminare persone a comportamento omoerotico; comportamento che aumenta tragicamente il quantitativo di malattie sessualmente trasmissibili e che è anche un peccato nella mia religione. In quanto presidente della Repubblica, Mattarella dovrebbe essere, in teoria, il custode della Costituzione. La Costituzione prevede all’articolo 3 la libertà religiosa. La mia religione condanna la sodomia. Se non la posso condannare, la mia libertà religiosa è violata. Vorrei sottolineare l’assoluta ipocrisia del discorso del presidente Mattarella. Insieme a pochi altri intellettuali, mi batto contro le persecuzioni che le persone a comportamento omoerotico subiscono a Gaza, dove vengono assassinate in maniera terribile, in Iran e in Arabia Saudita. Ognuno deve avere il diritto di fare quello che vuole con i suoi organi genitali e l’ultima, o la prima, porzione del tubo digerente. Eppure su queste atroci, mortali discriminazioni, il nostro presidente non ha fiatato: la giornata contro l’omotransfobia funziona solamente per i Paesi cristiani, non per quelli islamici. Le persone nate nei Paesi cristiani devono subire le imposizioni dell’Onu, mentre quelle nate nei Paesi islamici devono seguire le imposizioni della sharia. Dei gay, in realtà, non importa niente, altrimenti protesterebbero per quelli assassinati. Quello che importa è umiliare il cristianesimo: a questo serve il movimento Lgbt. Noi siamo stati discriminati in quanto secondo le a-scientifiche teorie del presidente Mattarella avremmo potuto contagiare. Qualcuno le ha spiegato, presidente Mattarella, il quantitativo di malattie che contagiano i maschi a comportamento omoerotico? Ritengo che sia giusto che una persona usi come vuole i suoi organi sessuali e il tubo digerente, ma è assolutamente indecente che la prevenzione delle malattie che ne derivano, i test diagnostici e le vaccinazioni antiepatite vengano fatte direttamente nelle sedi dei circoli Lgbt: una persona gay non può mettersi in coda in una normale Asl con gli altri cittadini? Spostare centri diagnostici all’interno dei circoli aumenta peraltro i costi della sanità. Il solo fatto che questi centri siano all’interno dei circoli Lgbt è una testimonianza dello spaventoso aumento delle malattie sessualmente trasmissibili, e quindi dei quattrini dei contribuenti spesi a cercare di prevenirle e curarle. Trovo intollerabile che, mentre le famiglie con un figlio disabile sono abbandonate e mentre la sanità è allo sbando per mancanza di fondi, il denaro pubblico venga sperperato in parate dove si rivendica l’orgoglio del comportamento omoerotico, che moltiplica le malattie sessualmente trasmissibili. In queste parate la nostra religione è offesa e ingiuriata. Pretendere di non «discriminare», cioè di accettare chi insulta Cristo e la Madonna è una mostruosa pretesa dittatoriale. Quindi io rivendico il diritto di dichiarare che il loro comportamento è sbagliato, che è un disastro sanitario ed è un peccato. Fino a quando il denaro pubblico sarà sperperato per sovvenzionare i circoli Lgbt, gente non eletta da nessuno e che rappresenta solo sé stessa, la nostra «omofobia» non diminuirà. A ogni pride fatto con denaro pubblico - solo quello di Torino sperpererà 150.000 euro tolti alle famiglie - che irride Cristo e la Madonna, aumenta la nostra «omofobia» e la dolorosa coscienza di vivere in uno Stato inclusivamente totalitario. Il comportamento erotico deve far parte della sfera privata. Non ce ne importa niente di quello che fate, non lo vogliamo sapere. Se provate l’impulso irrefrenabile di farcelo sapere, siamo disposti a combattere per il diritto di dirvi cosa ne pensiamo.
Anna Falchi (Ansa)
La conduttrice dei «Fatti vostri»: «L’ho sdoganato perché è un complimento spontaneo. Piaghe come stalking e body shaming sono ben altra cosa. Oggi c’è un perbenismo un po’ forzato e gli uomini stanno sulle difensive».
iStock
Il capo del Consorzio, che celebra i 50 anni di attività, racconta i segreti di questo alimento, che può essere dolce o piccante.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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