2019-01-24
Dieci idee che danno senso alla vita per non arrendersi al pensiero unico
Il nuovo libro è un viaggio nell'anima profonda del nostro tempo, alle sorgenti del malessere, della solitudine e della rivolta. Il compendio di 40 anni di riflessioni, da Civiltà a Ritorno.Cos'è l'Occidente, un'espressione geografica, un luogo storico, un orizzonte mentale, una categoria dello spirito? È paradossale, ma spesso accade che si scoprano le identità, vere o presunte, solo quando sono minacciate o morenti. E a dir la verità, l'Occidente di cui parliamo da un secolo nacque proprio dalla percezione del suo tramonto. Per secoli non fu una visione geo-storica; la sua linea di confine non era a Oriente né in un preciso punto cardinale. L'albore dell'Ovest risale al conflitto tra due mondi, greco e persiano; il primo a sancire la separazione dall'Oriente fu Alessandro Magno. Dopo l'Impero romano e bizantino, Occidente fu sinonimo di civiltà cristiana nel conflitto secolare contro arabi e ottomani, nelle crociate, nelle battaglie campali di Otranto, Lepanto, Vienna, e riaffiorò poi in veste imperiale nelle imprese coloniali europee. Ma l'idea di Occidente che usiamo da un secolo nasce sulle orme di un libro dal titolo grandioso e bugiardo, Tramonto dell'Occidente. Grandioso fu il titolo, e non solo per il successo che ebbe, né solo per il tempismo in cui venne alla luce, sulle macerie della Prima guerra mondiale; ma per la visione del mondo, l'impianto storico e drammaturgico, le analogie, i nessi e i raffronti, la sontuosa morfologia delle civiltà che disegnò il suo autore, Oswald Spengler. Ma fu titolo bugiardo perché l'Occidente dopo la Prima guerra mondiale non tramontò; tramontò l'Europa come ombelico del mondo, tramontarono gli imperi centrali, ma non tramontò l'Occidente. Anzi da allora prese corpo quel che fu poi definito il «secolo americano», consacrato da due guerre e da una pervasiva colonizzazione culturale e commerciale, prima che militare. Il Novecento è stato il secolo dell'occidentalizzazione del mondo, che poi coincide con l'americanizzazione del globo. L'Est patì l'esperienza del comunismo che Marx aveva concepito per le società occidentali come il compimento di un processo che passa dall'Illuminismo, dalla borghesia e dalle Rivoluzioni industriale e francese. Poi, caduta l'Unione Sovietica, l'Occidente sconfinò come modello universale di libertà, uguaglianza e democrazia, diritti dell'uomo, ma anche tecnica, finanza, mercato globali. Non ebbe più rivali né argini. Come si può allora parlare di decadenza dell'Occidente davanti al suo sconfinamento globale? Tramonta o si compie? Per definire l'Occidente usiamo con prudenza il riferimento geografico, considerando che il Marocco e il Senegal sono più a ovest dell'Italia e della Grecia, culle dell'Occidente. Ma anche il criterio etnico definisce poco la popolazione occidentale considerando che sono occidentali gli indios, i pellerossa e gli indigeni del Mato Grosso, mentre sono orientali le popolazioni baltiche. In realtà la più pertinente defifiniizione di Occidente è storico-culturale e coincide con l'Europa: è il mondo nato dalla polis greca e dal pensiero greco, dall'imperium e lex romani, dalla civiltà cristiana e dalla storia moderna. Così le storie derivate, la riforma protestante, le Rivoluzioni inglese, americana e francese, l'Illuminismo e la separazione tra religione e politica, il Far West. È Occidente il mondo che riconosce l'individuo e i suoi diritti, il luogo nativo della democrazia, la libertà e l'uguaglianza. Ma le definizioni di Occidente che abbiamo dato, dalle radici ai frutti, combaciano quasi perfettamente con l'identità europea. Sul piano geopolitico di Occidenti ve ne sono almeno tre, intrecciati e distinti: l'America del Nord, l'America latina e l'Europa che ne è la casa madre. E se è per questo, anche l'Oriente in realtà è la somma di più orienti, divisi non solo dalla geografia. Con la caduta dell'impero sovietico che egemonizzava l'Est ma era solo una sua parziale rappresentazione, il vero crinale non è più tra Occidente e Oriente, ma tra Nord e Sud del pianeta. Il Nord industrializzato, benestante, moderno e il Sud sovrappopolato, povero e arretrato. La categoria «Occidente» è relativizzata dal nuovo contesto globale; lo standard di vita di uno statunitense è più vicino a quello di un giapponese che di un latino-americano. A complicare ulteriormente le cose è venuto il contraccolpo della globalizzazione, il suo girone di ritorno e il passaggio dalla circolazione delle merci alla circolazione delle genti, con la comparsa di massicci flussi migratori.L'Occidente ha smesso di indicare un luogo per indicare invece un tempo, la modernità. Il topos dell'Occidente è atopos, il non-luogo che trasforma i suoi abitanti da conterranei in contemporanei, da radicati in nomadi (o naviganti del web). Il tempo diventa la vera casa dell'Occidente, anche nel senso del primato temporale rispetto al sacro e all'eterno. Ma la distinzione tra Occidente moderno e Oriente arcaico ha avuto senso fino a che il monopolio della tecnologia e del capitalismo è stato occidentale. Le tigri del Sud-Est asiatico, la poderosa tecnologia giapponese e la rivoluzione telematica indiana, i passi da gigante del mao-capitalismo in Cina, hanno reso obsoleto questo confine tecno-temporale. La velocità, il divenire, la techne, non sono più prerogative di una sola parte del mondo. L'Occidente sconfinando tramonta, ovvero nel momento in cui si compie ovunque, finisce, si risolve nella globalizzazione fluida e nell'uniformità planetaria. Qui arriviamo al cuore del tema: la decadenza dell'Occidente. In che cosa consiste? Una prima risposta potrebbe essere nella perdita del passato e del futuro, del naturale e del soprannaturale, ossia delle dimensioni costitutive dell'umano e di ogni civiltà. Ciò comporta un declino di legami - famigliari, comunitari e sociali - e una perdita nell'orizzonte delle aspettative. Un'ulteriore risposta potrebbe essere la perdita di culto, cultura e coltivazione, qui intesa come educazione paziente ai frutti futuri. Gli indicatori più vistosi del declino sono la denatalità, le nascite superate dai decessi, l'invecchiamento della popolazione. La perdita della dimensione pubblica e storica, politica e ideale e la crescita abnorme della sfera privata, ego-narcisistica, pur nell'orizzonte di un presente globale sempre collegato alla sfera del web. Ma anche l'indebolimento della fede e della pratica di lettura − sovvertendo la tesi progressista che pronosticava: calando la fede crescerà la cultura; invece la sconfitta dell'una è stata la sconfitta dell'altra, e il benessere in sé non produce cultura, ma a volte degrado opulento. Cruciale è la perdita del nesso tra diritti e doveri, tra conquiste e sacrifici, tra pulsioni e sublimazione. E ancora, la diffusione di un nuovo primitivismo fondato sull'uso abile ma inconsapevole della tecnologia e sul dominio di fattori emotivi, impulsivi, biologici. Infine la rimozione della morte, il rifiuto del limite, la paura di vivere e insieme l'attaccamento assoluto all'esistenza come fenomeno esclusivamente biologico hanno reso la vita stessa insensata ma assoluta. Priva di argini, di senso e di alternative.Non è detto che i barbari vengano da fuori e da lontano; possono venire da dentro e da vicino, risiedere nel cuore del sistema, essere perfino al potere. Come il nichilismo, ieri prerogativa degli anarchici, oggi espresso e somministrato dal potere. Ieri era appannaggio dei ribelli, oggi è l'uniforme dei conformisti. C'è una barbarie concentrata, verticale, letale; e una barbarie diffusa, orizzontale, che non uccide ma avvilisce, degrada. La maleducazione ne è il corollario e forse il segnale, come il turpiloquio e la volgarità, il disprezzo dello stile e della cultura, l'assenza di freni e la smodatezza nei toni. L'ignoranza si arma d'arroganza. La connotazione originaria del barbaro è la lingua ostica e disarmonica. La barbarie primitiva è fondata sulla ferocia, e di solito proviene da lontano; la seconda barbarie è fondata sulla bruttura, e di solito cresce al nostro fianco. La prima barbarie si alimenta di fanatismo, cioè di una fede portata agli eccessi, disposta a sacrificare tutto e tutti; la seconda si alimenta di nichilismo, ovvero di un'assenza di scopi disposta a vanificare tutto e tutti. In entrambi cresce il deserto, l'assenza di vita e di civiltà. Non possiamo essere miopi o presbiti, vedendo solo una delle due. Perché la civiltà muore in entrambi i casi, anche se in una di morte violenta e nell'altra di lenta malattia. Ma la morte violenta, di solito, si abbatte su alcune vittime; l'asfissia è invece generale. Ciascuno di noi avverte la presenza minacciosa di barbari, sente la loro prossimità, si sente come assediato, o quantomeno insidiato. Avvertire il peso di quella minaccia è il primo successo del loro attacco, ma anche la prima difesa. Perché la minaccia avvertita attiva il sistema immunitario; e sull'orlo estremo del pericolo comunità coincide con immunità, ovvero col dispositivo per non farsi pervadere e contagiare. Un segno vitale ed estremo di reattività quando l'organismo è in pericolo.