2023-02-14
Democratici in tilt: esultano per la sconfitta
Elly Schlein e Stefano Bonaccini (Ansa)
Enrico Letta: «Secondi nelle due competizioni, il tentativo di sostituirci è fallito». Eppure gli elettori hanno bocciato entrambe le strategie del Nazareno: l’alleanza al centro e quella con i pentastellati. E non hanno abboccato alla demonizzazione dell’esecutivo Meloni.Altri due chiodi sulla bara del Pd: eppure i familiari sembrano sollevati. La metafora sarà pure macabra, ma esprime bene la situazione surreale di un partito ormai ridotto al lumicino, e che però continua a negare l’evidenza, come vedremo dalle dichiarazioni di Enrico Letta. Una volta incassata la batosta di ieri in Lombardia e Lazio, cosa resta dopo la perdita del governo nazionale nell’autunno scorso? Appena quattro regioni su 20: Emilia Romagna, Toscana, Campania, Puglia. Una strana combinazione appenninico-borbonica: i due fortini rossi più due anomale giunte populiste di sinistra nel Meridione. La giornata di ieri, peraltro, ha segnato la sconfitta di ogni possibile formula politica scelta dagli strateghi del Nazareno: nel Lazio il Pd ha perso essendo alleato con i centristi di Carlo Calenda e Matteo Renzi (e separato dai grillini); in Lombardia ha perso alleato con i grillini (e separato dai centristi). Peggio ancora: perfino applicando l’aritmetica a una materia (quella delle alleanze elettorali) che per definizione rifiuta le sommatorie, sia nell’uno sia nell’altro caso il Pd avrebbe perso pure nell’ipotesi in cui fosse stato capace di realizzare l’impossibile, e cioè una mega-alleanza-accozzaglia con tutti dentro, sia i grillini sia i centristi. È questo il lascito della fallimentare stagione di Letta. Dapprima, quando arrivò da Parigi, avanzò proposte lunari, tipiche di chi era chiaramente sconnesso dalla vita reale del Paese: aumento della tassa di successione, ius soli, voto ai sedicenni. Poi, a settembre, venne la demonizzazione parossistica di Giorgia Meloni. Adesso, si è arrivati a una campagna elettorale con due formule asimmetriche di alleanza (entrambe perdenti) e a un congresso così diluito nel tempo da risultare slabbrato prim’ancora dell’elezione del nuovo leader. Anche lì, il Pd ha dato il peggio di sé: tatticismo, autoreferenzialità, mancanza di visione. Avrebbe potuto scegliere di anticipare i tempi congressuali per avere un segretario in campo già per queste regionali: ma tutti si sono tirati indietro. Oppure avrebbe potuto scegliere una tempistica molto più allungata, per dare al congresso una dimensione costituente. Come al solito, al Nazareno non hanno saputo fare né la prima né la seconda cosa, ritrovandosi in una terra di nessuno. E ieri, a sconfitta maturata, la reazione di Letta è parsa quella di un marziano: «Il fatto che il Pd rimanga la seconda forza e primo partito d’opposizione può essere un viatico fondamentale per il lavoro del nuovo gruppo dirigente che uscirà dalle primarie del Pd del 26 febbraio». E ancora, una surreale sottolineatura sul fatto che sia fallito il tentativo di sostituire il Pd, rimasto seconda forza. La presa d’atto della sconfitta pare quasi un dato marginale: «Il centrodestra vince in entrambe le regioni; non possiamo, quindi, essere contenti di questo risultato complessivo, reso ancora più negativo dalla preoccupante crescita dell’astensione». Quanto a Stefano Bonaccini, ha cercato di caricare la responsabilità sulla vecchia dirigenza: «La sconfitta di oggi è in continuità con quella delle politiche del 25 settembre. Dobbiamo chiudere questo capitolo e aprirne uno nuovo». Per ciò che riguarda i due candidati battuti, Pierfrancesco Majorino ha annunciato le dimissioni da europarlamentare per guidare l’opposizione in Consiglio regionale e ha sferrato un attacco al Terzo polo, colpevole di aver diviso il fronte. Stesso schema, a parti invertite, scelto da Alessio D’Amato nel Lazio, che invece se l’è presa con i grillini: «I veri sconfitti sono i 5 stelle, credo che Conte dovrà riflettere sulle scelte compiute». Ma, in sede di commento, appare chiaro che siano state travolte dagli elettori due scelte presuntuose e sbagliate della dirigenza dem (e, diciamolo, anche della stampa di riferimento, della «bolla Vip», dei commentatori d’area, del carro di Tespi degli intellettuali progressisti). Per un verso, la pretesa di rieducare il Paese e impartire lezioni di civiltà. Sanremo è stato il paradigma di questo format: la kermesse «doveva» segnare la chiusura della campagna elettorale infiammando il Paese contro una destra razzista, omofoba, minacciosa contro la Costituzione. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: la sinistra avrà pure vinto a Sanremo, ma è ormai desertificata nel Paese. Per altro verso, l’errore gemello è stato quello di alimentare una comunicazione all’insegna dell’apocalisse imminente. Secondo la narrazione dem, con il governo Meloni si sarebbero inevitabilmente registrati lo sfascio dei conti pubblici, una crisi economica devastante, e non si sa quante altre piaghe d’Egitto. Così, ogni giorno si è cercato di montare un caso: contro il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, contro il viceministro Galeazzo Bignami, contro l’onorevole Giovanni Donzelli e il sottosegretario Andrea Delmastro. Da settimane, ogni sera si affacciano nei tg i volti del Pd (da Debora Serracchiani a Simona Malpezzi, per tacere degli opinionisti e dei direttori di complemento) a gridare indignazione, ad alzare i toni, a incendiare il clima. Errore non solo politico ma proprio di lettura dello stato d’animo del Paese: che invece è in cerca di normalità, non di drammatizzazioni forzate. C’è da temere che, in questo deserto, qualcuno a sinistra cerchi di giocare le carte più disperate e improprie: quella della chiamata dello straniero (tifando Emmanuel Macron) e/o quella di sperare che sia Sergio Mattarella a porsi sempre più spesso come anomalo controcanto rispetto a Palazzo Chigi.