2018-10-21
Declassamento dell’Italia già deciso per fotocopiare la letterina dell’Ue
Le agenzie di rating spesso ripropongono i rapporti di Bankitalia e danno giudizi basati su analisi superficiali. Sono società private, non organismi sovranazionali: togliamogli il potere di influenzare le Banche centrali.«Siamo virtuosi e invece di premiarci ci puniscono. Il downgrade è del tutto ingiustificato e fuorviante perché non tiene conto del grande lavoro che questo Paese sta facendo». Evitate di cercare in rete queste dichiarazioni del premier Giuseppe Conte. Anche perché queste parole non sono sue. Ma di un altro premier. Al secolo Mario Monti, che così strepitava al cielo nel febbraio del 2012. Moody's aveva appena declassato il proprio sacro giudizio su di noi. Da Baa2 (che equivale ad una A- di Standard & Poor's o di Fitch) a Baa3 (la Bbb delle altre due consorelle). Una retrocessione pesante di ben due gradini (anzi «notch», come dicono pomposamente gli analisti). È proprio vero. Non c'è giustizia a questo mondo. Uno il suo Paese lo tortura sodo una vita (è il caso di Monti che già nel 1994 dalle colonne della Stampa esortava Silvio Berlusconi ad attuare le ricette lacrime e sangue dell'argentino Carlos Saúl Menem, che avrebbero portato Buenos Aires al default sei sette anni più tardi) per poi sentirsi dire questo?Il downgrade di Moody's che ieri ha retrocesso il suo giudizio sull'Italia da Baa2 a Baa3 non mi stupisce affatto. Le argomentazioni sono a dir poco paradossali. L'Italia propone di fare un deficit in linea con il 2017 e inferiore alla media degli ultimi dieci anni. Ma nulla, il responso è Baa3. Quello è l'ultimo posto nel paradiso dell'investment grade. Un'ulteriore declassamento e i titoli di stato sarebbero considerati junk bond. Obbligazioni spazzatura. Titoli che a causa dei regolamenti di tutti gli investitori istituzionali non potrebbero più trovare posto nei loro portafogli. Se non in quantità molto ridotte e a costo di rendimenti elevati. Doppia cifra o quasi. Conosco il mondo delle agenzie di rating troppo bene avendo fatto il rating advisor per oltre dieci anni. Assistevo le banche di credito cooperativo e popolari di piccola dimensione che volevano farsi affibbiare un giudizio da queste agenzie. Che poi chiamarle tali è oggettivamente fuorviante. Come sottolinea Angelo De Mattia, per anni in servizio dentro Banca d'Italia, si finisce per attribuire a queste società la patente di organismi sovranazionali capaci con il loro giudizio di orientare le politiche di investimento di tutti gli operatori fino, incredibilmente, a influenzare le stesse policy di vigilanza delle Banche centrali che arrivano a riconoscere l'intrinseca validità dei giudizi di questi signori come sacri e invalicabili paletti di confine fra chi è buono e chi no.Nei primi anni Duemila mi capitava di affiancare i clienti nelle operazione di attribuzione del rating. Per avere accesso al mercato dei capitali internazionali la piccola banca aveva grazie al rating molte possibilità di raccolta dei capitali altrimenti indisponibili. Il rating parlava per te. Non avevi la necessità di truccarti ed improfumarti più di tanto ogni volta che incontravi un nuovo investitore. Gli sbarbatelli analisti delle agenzie arrivavano a incontrare il management della banca da me accompagnati non prima delle 10. Tanti convenevoli e scontatissime interviste. Con l'unica domanda chiave che veramente contava: «Ci consegnate l'ultimo rapporto ispettivo di Banca d'Italia? Non preoccupatevi siamo uomini di mondo conosciamo i toni di Via Nazionale e non ci faremo influenzare». In realtà avrebbero poi finito per scopiazzare quel rapporto con giudizi fin troppo prevedibili. Alle 13.30 a pranzo nel ristorante più costoso, giusto il tempo di rientrare per le 15.30 e ricapitolare tre banalità e tanti saluti in attesa del giudizio. Anzi del pregiudizio. Perché questo è ciò che le agenzie danno. Già sapevamo in anticipo i voti finali che avrebbero espresso ricopiando le argomentazioni di Banca d'Italia. A una mia banca cliente, vero gioiellino, andava assolutamente di traverso il giudizio Bbb+. Per intendersi due gradini (anzi notch) sopra l'Italia oggi. Lavoro per una settimana alla produzione di un report poi inviato agli analisti. Mettevo a confronto numeri e tabelle. La «mia banca» superava in tutto e per tutto una banca cui loro attribuivano un rating A. Quello era l'obiettivo mio e del mio cliente. Duelli rusticani per giorni. Alla fine vengo liquidato con rudezza: «Caro Dragoni apprezziamo molto il suo lavoro. Ma le sue ragionevoli argomentazioni stanno diventando ineleganti pressioni. La nostra visione è che una banca di credito cooperativo non possa avere un rating superiore a Bbb+. Lei si sta impropriamente confrontando con una cassa di risparmio che può legittimamente avere una A-». Mentre oggi la mia banca cliente continua a essere una delle banche locali più apprezzate del Paese, quella cassa di risparmio non esiste più. Prima commissariata e poi ingoiata da una banca francese. Quell'analista - resosi forse conto dell'eccessiva ruvidezza delle sue parole - provò a indorarmi la pillola con parole che con il senno di poi suonano a dir poco surreali: «Dragoni non capisco il motivo della sua amarezza. Può essere ben fiero del suo lavoro. Consideri che il suo cliente è una piccola banca che ottiene un rating addirittura più lusinghiero di una multinazionale come Parmalat». Queste le sue parole. Giuro sulle mie figlie potessi non rivederle più.