La minaccia dei rubli ha permesso a Vladimir Putin di non fare default e pagare 117 milioni di dollari d’interessi. I prezzi attuali di gas e greggio inoltre assicurano 700 miliardi al giorno. E il biglietto verde rischia di perdere prestigio.
La minaccia dei rubli ha permesso a Vladimir Putin di non fare default e pagare 117 milioni di dollari d’interessi. I prezzi attuali di gas e greggio inoltre assicurano 700 miliardi al giorno. E il biglietto verde rischia di perdere prestigio.«L’impatto delle sanzioni sarà rilevante. L’economia e la finanza pubblica russa sono a rischio default per la difficoltà a rimborsare alcuni interessi in dollari», ha detto Paolo Gentiloni alla commissione Bilancio della Camera due giorni fa. Compiacersi del possibile default russo è a dir poco masochistico. L’Italia ne è infatti il primo creditore al mondo con i suoi 25,3 miliardi prestati a banche, imprese, famiglie e governo della Russia. Magari Paolo Gentiloni Silveri da Filottrano Cingoli Macerata e Tolentino non si sente più italiano, in quanto Commissario dell’Unione europea. Ma anche Parigi non ride: è il secondo più grande creditore di Mosca, con 25,2 miliardi.Fare i conti in tasca alla Russia, in questo momento, non è poi così difficile. La sua Banca centrale ha accumulato 640 miliardi di riserve. Principalmente oro, obbligazioni e azioni. Sono gli attivi commerciali russi degli ultimi anni reinvestiti soprattutto in dollari ed euro. Mosca esporta principalmente gas, petrolio, carbone, metalli vari, grano e fertilizzanti. L’Italia è il terzo partner commerciale dopo Pechino e Berlino. Vendiamo a Mosca meccanica (in generale e di precisione). Non solo cibo e alta moda. Motivo in più per non compiacersi del possibile tracollo di un cliente che assorbe un export di oltre 8 miliardi (0,5% del Pil), pari a 14 miliardi prima delle sanzioni inferte a Mosca nel 2014 per l’annessione della Crimea. Ebbene, circa 300 miliardi delle riserve russe in giro per il mondo sarebbero stati sequestrati come ritorsione all’invasione in Ucraina. Che quindi la Russia abbia difficoltà nel pagare i suoi debiti in valuta sarebbe quanto mai comprensibile. Il 16 marzo il Cremlino ha tuttavia pagato 117 milioni di interessi in dollari su due obbligazioni scadenti rispettivamente nel 2023 e nel 2043. Con quale denaro? Ovviamente con quello sequestrato dalle banche centrali depositarie. «Alla Russia è consentito pagare debiti già esistenti usando questi fondi almeno fino al 25 maggio», riporta un portavoce del tesoro americano al Wall Street Journal. Detto altrimenti, il problema è tutto del creditore. È bastata la minaccia di pagare in rubli anziché dollari e subito i sanzionatori si sono affrettati a trovare una soluzione. Mosca ha forse scoperto di avere anche una «bomba finanziaria» nel suo arsenale. Le basterà dire: «Vorrei tanto pagarvi, i soldi ci sono pure ma non me li fate usare. Vorrà dire che non vi pagherò. Se proprio ci tenete eccovi i rubli». Il Bruegel institute di Bruxelles (think tank vicino alla Commissione Ue) stima che grazie all’aumento dei prezzi di gas e petrolio la Russia stia ora incassando dal suo export quasi 700 milioni di dollari al giorno. Erano 200 prima dell’invasione. In altre parole, sono sufficienti sei giorni di export per far incassare a Putin quanto necessario a rimborsare il debito in dollari che scade nel 2022: 4,2 miliardi. La Russia accumulerebbe in un anno nuove riserve per 250 miliardi. Fra il 31 marzo e il 4 aprile scadranno pagamenti per 2.359.000.000. Cosa farà Mosca? Eric Fossing Nielsen, capo economista di Unicredit, sottolinea come «per quanto mi dispiaccia dirlo, le sanzioni economiche a Putin non cambieranno le sorti del conflitto». Per poi aggiungere come queste - facendo crescere il prezzo delle materie prime - causeranno «grandi danni all’Europa», «pochi danni a Usa e Uk», ancora «minori danni» alla Cina e alle altre economie emergenti, addirittura «dignitosi benefici» alla Russia ed «enormi benefici» ai Paesi Opec produttori di petrolio. Un fiume di dollari nei prossimi mesi inonderà la Russia, sempreché sia lei a desiderare di incassare questa divisa.Il dollaro è da sempre la moneta del mondo, almeno dal 1944, con gli accordi di Bretton Woods. I Paesi aderenti al nascituro Fondo monetario internazionale stabilirono che il dollaro fosse l’unica moneta convertibile in oro: 35 bigliettoni per un’oncia. Il dollaro era in pratica un assegno. Lo presentavi alla Fed e questa ti dava in cambio il suo oro. Il cambio delle altre valute poteva oscillare pochissimo rispetto al dollaro. Da lì in poi è storia nota. Gli Usa stampavano molti più dollari rispetto all’oro detenuto, contando sul fatto che non tutti i detentori sarebbero corsi a cambiare il biglietto verde con il metallo giallo. O almeno non insieme. Come ricordato dall’ex governatore Antonio Fazio su queste colonne, l’Italia è diventato il quarto Paese al mondo quanto a possesso di riserve auree dopo Usa, Germania e Fmi proprio reinvestendo saggiamente «i surplus commerciali del Dopoguerra in oro». Non capacitandomi di come la Banca centrale americana accettasse dollari che può stampare all’infinito (quindi carta) in cambio di oro (per definizione scarso) il governatore disse che «con la convertibilità dollaro-oro gli Usa hanno imposto la loro moneta come valuta di riserva mondiale. E dopo il 1971, con la fine di questo regime e al netto dei vari shock petroliferi, la supremazia valutaria del dollaro è proseguita. Oggi gli Usa sono l’unico Paese che, almeno finanziariamente, può permettersi ampi e persistenti deficit commerciali. Il dollaro svolge per gli Stati Uniti quella funzione che forse John Maynard Keynes immaginava per il “bancor”, la moneta mondiale per il commercio. Un affare per loro, ma anche per l’Italia». In pratica, anche dopo che Nixon ebbe dichiarato al mondo intero che il dollaro non sarebbe stato più convertibile in oro, questo ha continuato di fatto a «valere oro». Tutti hanno fiducia nell’America. Tutto questo si è incrinato tre settimane fa.Dopo aver «sequestrato» le riserve del Cremlino depositate nelle nostre banche centrali, non è più così. Lo ha scritto Wolfgang Munchau nella sua prestigiosa newsletter settimanale: «In realtà è stato l’Occidente a fare default nei confronti della Russia. E nel nostro asset più importante: la moneta fiat». Quella creata dal nulla ma che ha un valore intrinseco perché siamo gente di parola. O meglio, eravamo di parola. Sarà pur vero che «la Russia ha violato il diritto internazionale invadendo l’Ucraina», scrive Munchau, ma quei soldi depositati da Mosca erano «legittimamente guadagnati». In pratica, abbiamo compiuto un atto inaudito che per ora non è servito a mettere in ginocchio le finanze di Mosca. Il rischio è di aver indebolito lo status del dollaro come valuta rifugio. E infatti ora la Russia reagisce. Il Financial Times ha anticipato la stipula di un accordo storico fra Russia e India. In pratica Putin preferisce incredibilmente accettare rupie anziché dollari in cambio del suo petrolio. Mosca a sua volta darà precedenza ai prodotti indiani, così spendendo le rupie incassate. L’India potrà permettersi tutto il petrolio che le serve potendo stampare rupie senza cercare dollari. Neppure l’Arabia Saudita sembra rimanere ancorata alla valuta americana. Lo riporta il Wall Street Journal. Sta preparando un accordo di libero scambio con Pechino: gli arabi sono disposti a incassare lo yuan cinese. Non si fidano più di Joe Biden. Il trattamento riservato a Mosca potrebbe essere riservato loro domani. L’ex ufficiale dell’intelligence e diplomatico britannico Alastair Crooke intervistato in una tv araba in lingua inglese, avverte che la Russia potrebbe, d’ora poi, richiedere per il suo petrolio un pagamento in oro. Il biglietto verde rischia il suo status di «moneta del mondo»? Forse è presto per dirlo, ma la portata di quello che sta accadendo non deve essere sottostimata.
Alessia Pifferi (Ansa)
Cancellata l’aggravante dei futili motivi e concesse le attenuanti generiche ad Alessia Pifferi: condanna ridotta a soli 24 anni.
L’ergastolo? È passato di moda. Anche se una madre lascia morire di stenti la sua bambina di un anno e mezzo per andare a divertirsi. Lo ha gridato alla lettura della sentenza d’appello Viviana Pifferi, la prima accusatrice della sorella, Alessia Pifferi, che ieri ha schivato il carcere a vita. Di certo l’afflizione più grave, e che non l’abbandonerà finché campa, per Alessia Pifferi è se si è resa conto di quello che ha fatto: ha abbandonato la figlia di 18 mesi - a vederla nelle foto pare una bambola e il pensiero di ciò che le ha fatto la madre diventa insostenibile - lasciandola morire di fame e di sete straziata dalle piaghe del pannolino. Nel corso dei due processi - in quello di primo grado che si è svolto un anno fa la donna era stata condannata al carcere a vita - si è appurato che la bambina ha cercato di mangiare il pannolino prima di spirare.
Toga (iStock). Nel riquadro, Roberto Crepaldi
La toga progressista: «Voterò no, ma sono in disaccordo con il Comitato e i suoi slogan. Separare le carriere non mi scandalizza. Il rischio sono i pubblici ministeri fuori controllo. Serviva un Csm diviso in due sezioni».
È un giudice, lo anticipiamo ai lettori, contrario alla riforma della giustizia approvata definitivamente dal Parlamento e voluta dal governo, ma lo è per motivi diametralmente opposti rispetto ai numerosi pm che in questo periodo stanno gridando al golpe. Roberto Crepaldi ritiene, infatti, che l’unico rischio della legge sia quello di dare troppo potere ai pubblici ministeri.
Magistrato dal 2014 (è nato nel 1985), è giudice per le indagini preliminari a Milano dal 2019. Professore a contratto all’Università degli studi di Milano e docente in numerosi master, è stato componente della Giunta di Milano dell’Associazione nazionale magistrati dal 2023 al 2025, dove è stato eletto come indipendente nella lista delle toghe progressiste di Area.
Antonella Sberna (Totaleu)
Lo ha dichiarato la vicepresidente del Parlamento Ue Antonella Sberna, in un'intervista a margine dell'evento «Facing the Talent Gap, creating the conditions for every talent to shine», in occasione della Gender Equality Week svoltasi al Parlamento europeo di Bruxelles.
Ansa
Mirko Mussetti («Limes»): «Trump ha smosso le acque, ma lo status quo conviene a tutti».
Le parole del presidente statunitense su un possibile intervento militare in Nigeria in difesa dei cristiani perseguitati, convertiti a forza, rapiti e uccisi dai gruppi fondamentalisti islamici che agiscono nel Paese africano hanno riportato l’attenzione del mondo su un problema spesso dimenticato. Le persecuzioni dei cristiani In Nigeria e negli Stati del Sahel vanno avanti ormai da molti anni e, stando ai dati raccolti dall’Associazione Open Doors, tra ottobre 2023 e settembre 2024 sono stati uccisi 3.300 cristiani nelle province settentrionali e centrali nigeriane a causa della loro fede. Tra il 2011 e il 2021 ben 41.152 cristiani hanno perso la vita per motivi legati alla fede, in Africa centrale un cristiano ha una probabilità 6,5 volte maggiore di essere ucciso e 5,1 volte maggiore di essere rapito rispetto a un musulmano.






