L’aumento dei prezzi è un alleato di Giorgia Meloni, che vede un innalzamento della crescita nominale al 4,8%. Mentre il gettito sale (dopo i 37 miliardi in più registrati da Mario Draghi). A farne le spese però sono i più poveri.
L’aumento dei prezzi è un alleato di Giorgia Meloni, che vede un innalzamento della crescita nominale al 4,8%. Mentre il gettito sale (dopo i 37 miliardi in più registrati da Mario Draghi). A farne le spese però sono i più poveri.L’aggiornamento alla Nadef illustrato venerdì pomeriggio dal premier, Giorgia Meloni, e dal ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, nasconde tra le righe il più grande alleato del nuovo governo: l’inflazione.Per definizione, l’inflazione aiuta i debitori e penalizza i creditori e la Repubblica italiana, con circa 2.300 miliardi di obbligazioni in circolazione, riceve dall’inflazione un sostanzioso contributo per rendere sostenibile il proprio debito. Tuttavia non va dimenticato l’effetto recessivo e la perdita di potere d’acquisto che penalizza le classi meno abbienti. L’inflazione aiuta anche a sostenere la crescita nominale del Pil perché va infatti sottolineato che i parametri del debito del Trattato di Maastricht - cioè il rapporto deficit/Pil e il rapporto debito/Pil - vanno tutti calcolati utilizzando il Pil al lordo dell’inflazione, quello nominale appunto.L’aiuto è visibile proprio confrontando gli ultimi numeri pubblicati venerdì, con quelli resi noti dal governo precedente in occasione della nota di aggiornamento al Def del settembre 2021, del Def di aprile 2022 e dell’ultima Nota di aggiornamento di fine settembre. Per il 2023, si osserva che a fronte di un repentino calo della crescita reale dal 2,8% al 0,6%, la crescita nominale non arretra affatto, anzi aumenta dal 4,3% al 4,8%. Tutto merito del deflatore del Pil, che passa dall’1,5% al 4,1% dell’ultima previsione. In anni di inflazione molto bassa, il Pil nominale e la sua crescita era un parametro tenuto in scarsa considerazione, perché risultava molto prossimo al Pil reale. Quest’ultimo neutralizza l’effetto della variazione dei prezzi e rappresenta quindi il valore aggiunto dei volumi prodotti calcolato a prezzi costanti, cioè senza tenere conto delle loro variazioni.Per passare da una variabile all’altra, si usa il deflatore del Pil. Che a sua volta risente degli specifici deflatori delle componenti del Pil: i consumi, le esportazioni e, con il segno negativo, delle importazioni.Tutto è cambiato con la crescita dell’inflazione a partire dall’autunno 2021, che ha reso essenziale distinguere le due variabili. Il lettore che ha avuto la pazienza di seguirci fin qui, si chiederà perché l’inflazione registrata in questi giorni intorno al 12%, sia così diversa da quella usata per il Pil. Prima di tutto l’ultimo dato del 12% è la variazione dei prezzi a ottobre 2022 verso ottobre 2021, cosa ben diversa dalla variazione dei prezzi attesa nel 2023, che dovrebbe essere inferiore. Ma soprattutto, va ricordato che l’inflazione dei prezzi al consumo risente sensibilmente della variazione dei prezzi dei beni importati, tra cui spicca quella dei prodotti energetici che così tanto hanno contribuito ad alimentare l’inflazione. Questi ultimi beni però vanno sottratti nel calcolo del Pil e quindi si arriva alla situazione attuale in cui il Pil è solo parzialmente gonfiato dall’incremento dei prezzi che leggiamo come consumatori, proprio perché buona parte di questo incremento è relativa a beni importati.Il prezioso alleato della Meloni e di Giorgetti manifesta la sua presenza anche sotto altri due aspetti. Il primo è quello delle entrate tributarie. È evidente che se l’Iva è calcolata su basi imponibili gonfiate dall’inflazione, il gettito per lo Stato aumenterà. Così come aumenterà il gettito Irpef per l’aumento nominale - peraltro finora modesto - dei redditi da lavoro e pensioni. Proprio lunedì il dipartimento Finanze del Mef ha comunicato che nei primi nove mesi del 2022 il gettito Iva è aumentato di 18 miliardi, +18% rispetto al 2021. L’Irpef è aumentata del 4% (5,5 miliardi). L’Ires del 52% (8,9 miliardi). Il totale delle entrate tributarie ha fornito ben 37 miliardi in più alle casse statali (+10,9%). Questo maggior gettito è stato il più efficace strumento utilizzato dal governo Draghi per sostenere famiglie e imprese e promette di esserlo, seppure in misura inferiore, anche a favore del governo Meloni.L’altro effetto meno noto al grande pubblico è quello che gli economisti chiamano «palla di neve» (snow ball). Senza entrare nei dettagli, se il tasso di crescita del Pil (g) è superiore al tasso di interesse reale sul debito (r), allora il rapporto debito/Pil diminuisce pure in presenza di un saldo primario negativo. È l’effetto che purtroppo ha causato la crescita del rapporto debito/Pil per buona parte degli ultimi 20 anni. Infatti, pur avendo inanellato per quasi tutti gli anni dei rilevanti avanzi primari di bilancio, l’effetto palla di neve negativo ha fatto crescere il rapporto debito/Pil. Come detto, negli anni di bassa inflazione, i debitori stanno peggio. Nel 2023, così come per il 2022 a favore del governo Draghi, tale effetto è invece positivo e, pur in presenza di un disavanzo primario, consente la discesa del debito/Pil dal 147% del 2021 al 142% del 2023, fino ad arrivare al 138% nel 2025.Ragionando in termini nominali - approssimati ma significativi - con una crescita del Pil del 2023 pari al 4,8% e un onere medio del debito pari al 2,5%, c’è un sufficiente cuscinetto di sicurezza per rendere sostenibile il nostro debito pubblico e non vederlo andare fuori controllo. Va infine evidenziato che la durata media del debito pari a 7,6 anni, impedisce alle nuove emissioni di titoli a tassi crescenti di impattare subito pienamente sul costo medio del debito.Saltato per aria (nel vero senso della parola) il modello tedesco - bassa inflazione, moderazione salariale, compressione della domanda interna ed export trainante - contestato per anni, una crescita moderatamente inflazionistica sembra essere il migliore scudo a disposizione del governo Meloni per superare le difficoltà, almeno nel breve periodo.
Automobili Byd (Ansa)
La società cinese ha selezionato 85 ditte dell’indotto automobilistico mollate dall’ex Fiat. Rendere profittevole l’elettrico anche qui, quindi, è possibile... per chi sa e vuole farlo.
Byd si sta prendendo tutti i fornitori italiani che Stellantis ha lasciato a piedi. Verrebbe da pensare, allora, che il modo per rendere profittevole l’auto elettrica in Italia esiste e forse il gruppo guidato dall’ad Antonio Filosa non ha saputo coglierne le opportunità.
La gentrificazione - cioè l’esproprio degli spazi identitari, relazionali e storici - quelli che Marc Augé ci consegna come i luoghi in opposizione ai non luoghi ha fatto sì che i ristoranti assumano sempre di più desolatamente le sembianze dello spaccio di calorie non obbedendo più a quella cucina urbana che è stata grandissima anche nelle case borghesi dall’Artusi in avanti.
Il miliardario cambia idea, niente catastrofe climatica. Apre il circo della COP30. Cina, sale il prezzo del carbone. Russia e Turchia in trattativa sul gas.
Allarme Coldiretti: «Il porto di Rotterdam è un colabrodo, il 97% dei prodotti non subisce esami». Il ministro incalza Bruxelles.
In ballo ci sono malcontati 700 miliardi di euro, quasi un terzo del Pil generato dall’agroalimentare, oltre che la salute, eppure l’Europa non protegge i campi. Perciò l’Italia si candida a sentinella della qualità e della salubrità delle merci che arrivano dall’estero. Francesco Lollobrigida annuncia: «Chiederemo che venga assegnata all’Italia l’autorità doganale europea». È la risposta all’allarme lanciato dalla Codiretti nella sua tre giorni di Bologna. Ha ammonito il presidente Ettore Prandini: «Con 97 prodotti alimentari stranieri su 100 che entrano nell’Ue senza alcun controllo, approfittando di porti “colabrodo” come Rotterdam, serve un sistema realmente efficace di controlli alle frontiere per tutelare la salute dei cittadini e difendere le imprese agroalimentari dalla concorrenza sleale che mette a rischio i nostri record».





