2020-07-25
Ddl Zan, una legge bavaglio che con la discriminazione non ha niente a che vedere
M.Nardone/Pacific Press/LightRocket/ Getty Images
Se andasse in porto, la libertà di espressione rimarrebbe gravemente compromessa. E dovremmo sentirci sempre colpevoli per la nostra storia, i costumi e la religione.I più intelligenti (o i più furbi) tra i difensori del progetto di legge Zan contro la omotransfobia cercano di confutare l'accusa che si tratti di una legge bavaglio lesiva della libertà di espressione garantita dalla Costituzione facendo leva sul fatto che la stessa, nella sua letterale formulazione, si limiterebbe a vietare e sanzionare penalmente non delle semplici opinioni ma soltanto le condotte costituite dal commettere o dall'istigare a commettere specifici «atti di discriminazione» per motivi non più solo «razziali, etnici, nazionali o religiosi» (come già ora previsto dall'art. 604 bis del codice penale), ma anche «fondati sul genere, sull'orientamento sessuale o sull'identità di genere».Va subito detto che, per «atti di discriminazione» debbono intendersi, secondo la definizione datane dalla Convenzione di New York del 7 marzo 1966, recepita in Italia con la legge n. 654 del 1975, quelli costituiti da « ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l'ascendenza o l'origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose e che abbia lo scopo o l'effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento , il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica». Occorre quindi, in altri termini e più sinteticamente, che si sia in presenza di un «comportamento» materiale che non solo sia mosso da determinate motivazioni ma abbia anche, come risultato pratico o almeno come riconoscibile finalità, la effettiva compromissione o la concreta possibilità di effettiva compromissione, per taluni, delle condizioni di parità con gli altri nel godimento o nell'esercizio di diritti spettanti, per definizione, a tutti indistintamente. Stando così le cose, può anche ammettersi che, come sostenuto, ad esempio, da Simone Alliva in un articolo comparso sull'Espresso dell'11 giugno 2020, rimarrebbe comunque lecito, a stretto rigore, dire che: «l'utero in affitto è un abominio, il matrimonio omosessuale è sbagliato», o fare altre affermazioni di analogo contenuto. Ciò non significa, però, che la libertà di espressione non rimarrebbe comunque gravemente compromessa se il progetto di legge andasse in porto. Occorre, infatti, tener presente che qualsiasi norma che vieti, sotto pena di sanzione, determinati comportamenti ha come effetto non solo quello di rendere applicabile la sanzione nel caso in cui il divieto non venga osservato, ma anche (e soprattutto) quello di scoraggiare, in maggiore o minore misura, quanti fossero tentati dall'idea di non osservarlo. Il che significa che, in presenza di divieti dai contorni non chiaramente definiti (come comunque sarebbe nel nostro caso), molti vengono necessariamente a essere indotti, per elementare senso di prudenza, ad astenersi da qualsiasi condotta che, anche solo ipoteticamente, potrebbe essere interpretata, nel contesto sociale in cui vivono, come non consentita. Ciò si traduce, ovviamente, in una limitazione, di fatto, della loro libertà di autodeterminarsi. Ora, ad un tale risultato si è già pervenuti sotto la vigenza dell'attuale articolo 604 bis del codice penale (riproduttivo dell'articolo 3 della legge n. 654/1975), dal momento che, nel timore di essere anche solo denunciati per vere o presunte violazioni dei divieti da esso previsti, non si osa più parlare o scrivere pubblicamente di rapporti tra razze (la parola stessa è, anzi, da considerare bandita), etnie, nazionalità o credenze religiose se non in termini rigorosamente in linea con i dogmi del «politicamente corretto»; vale a dire ripetendo a pappagallo, in modo più o meno sofisticato ed elegante, i luoghi comuni secondo cui la storia, le tradizioni, i costumi, la religione dell'Italia e dell'intera Europa non potrebbero mai essere oggetto di legittimo orgoglio e di adeguata difesa, ma dovrebbero essere trattati in chiave di perpetua autocolpevolizzazione nel raffronto con quelli di altre parti del mondo e, in particolare, con quelli del mondo di tradizione islamica. Basti per tutti, a dimostrarlo, il caso di Oriana Fallaci, a suo tempo sottoposta a procedimento penale (poi conclusosi senza pronuncia di merito a causa della sua morte), solo per aver pubblicamente sostenuto (poco importa se a torto o a ragione) che la religione islamica, soprattutto per la considerazione che in essa si ha della donna, era incompatibile con i principii della nostra civiltà, senza mai affermare o lasciar intendere, peraltro, che i musulmani dovessero per questo subire pregiudizio alcuno nel godimento o nell'esercizio dei diritti a tutti riconosciuti dalla legge. Non ci vuole molto a comprendere, quindi, che un ulteriore allargamento della sfera di applicabilità della norma in questione si tradurrebbe in una ulteriore compromissione della già abbondantemente compromessa possibilità di un libero e incondizionato confronto di opinioni, con riguardo, stavolta, ai temi della sessualità e della famiglia. Inevitabilmente, infatti, anche di questi i più preferirebbero, a scanso di qualsiasi rischio, o non parlare affatto o parlarne soltanto in modo da compiacere quanti sostengono e condividono la visione che se ne ha da parte di coloro che hanno promosso l'innovazione legislativa. Il tutto a scapito (nella sostanza se non anche nella forma) di quel valore primario che, nel nostro ordinamento, è costituito dalla libertà di manifestazione del pensiero solennemente presidiata e garantita dall'articolo 21 della Costituzione. E non potrebbe neppure dirsi che si tratterebbe di un sacrificio necessario perché altrimenti resterebbero senza tutela i diritti dei soggetti presunti «deboli» che con la proposta di legge in questione si vorrebbero garantire. Per sostenere il contrario si fa, nel già ricordato articolo dell'Espresso, l'esempio di «un'associazione che pubblicando la foto di un attivista gay inviti i suoi seguaci a linciarlo»; ipotesi, questa, nella quale si ritiene, evidentemente, che, senza la nuova legge, non si potrebbe dar luogo a sanzione penale; il che, però, non è affatto vero perché una condotta come quella anzidetta sarebbe già oggi qualificabile come istigazione a delinquere e sarebbe quindi, punibile ai sensi dell'articolo 414 del codice penale.
Jose Mourinho (Getty Images)