2025-05-03
Dazi, Cina e Ue gettano l’amo a Washington
Bruxelles è pronta ad aumentare gli acquisti di beni Usa per 50 miliardi di euro, ma chiede alla Casa Bianca di levare le tariffe al 10%. Il Dragone apre ai colloqui con gli Stati Uniti e valuta una stretta sui «precursori» utili alla produzione del Fentanyl. Borse in rialzo.Il colosso della telefonia Huawei usa i think tank per eludere il (lasco) ostracismo dopo lo scandalo corruzione.Lo speciale contiene due articoliProve di accordo tra Stati Uniti, Europa e Cina. I segnali di apertura sui due fronti si fanno sempre più marcati anche se tra mille paletti. L’Ue sarebbe pronta ad aumentare gli acquisti di beni statunitensi di 50 miliardi di euro per risolvere il «problema» nelle relazioni commerciali, ma a una condizione: Washington deve togliere i dazi del 10% sui suoi prodotti. In un’intervista al Financial Times, il commissario europeo al Commercio, Maros Sefcovic, nonché principale negoziatore sulle tariffe, ha indicato quella che potrebbe essere la piattaforma negoziale dalla quale partire per risolvere la questione tariffe. «Se ciò che consideriamo un problema nel deficit sono 50 miliardi di euro, credo che possiamo risolverlo rapidamente attraverso l’acquisto di Gnl e di alcuni prodotti agricoli come la soia o di altri settori», ha affermato Sefcovic che ha riferito di aver chiesto a Washington di tenere conto delle esportazioni di servizi Usa verso l’Ue. Considerando questa voce, il disavanzo complessivo si ridurrebbe a circa 50 miliardi di euro.Dal canto suo, però, Washington deve togliere la tariffa del 10% come soglia minima nei negoziati commerciali, ha affermato Sefcovic. Poi ha precisato che l’Unione non si accontenterebbe di un accordo che mantenga i dazi a quel livello, considerato «molto elevato». Ed è ciò che Sefcovic ha detto anche al rappresentante commerciale statunitense Jamieson Greer e al segretario al commercio Howard Lutnick, definendo i dazi minacciati da Donald Trump nei confronti dell’Ue come «cifre astronomiche ingiuste e inaccettabili». Dall’intervista emerge che la trattativa tra Usa e Ue sarebbe in fase avanzata e che ci sarebbero stati numerosi contatti di persona e telefonici da quando Trump ha imposto, e poi sospeso, dazi del 20% sull’Unione. La macchina della diplomazia si è quindi mossa subito e marcia e pieno ritmo. Il commissario ha dato atto alla Casa Bianca di aver recepito le preoccupazioni «sulle potenziali conseguenze negative» della politica tariffaria che lo hanno portato ad «alcuni aggiustamenti o correzioni», come i dazi del 25% sulle automobili, decise dalla Casa Bianca in seguito a giornate di forti perdite delle principali Borse globali. Il commissario ha poi lanciato un altro amo a Washington: «Crediamo di poter ottenere molto insieme, in particolare sulla sovracapacità di acciaio e alluminio, lavorando insieme sui semiconduttori e superando la dipendenza da materie prime critiche». In giornata, mentre rimbalzavano sui media le reazioni all’intervista di Sefcovic, la Commissione europea ha tenuto a precisare che «attualmente non c’è alcuna offerta formale agli Stati Uniti» sull’acquisto di gas. «Abbiamo discusso delle aree sulle quali possiamo potenzialmente trovare un accordo», ha insistito il portavoce al commercio. Ma va ricordato che la partita degli acquisti di Gnl americano fa parte a pieno titolo del negoziato in corso: Trump vuole che gli europei accettino consegne di combustibile Usa per 350 miliardi di dollari. Deboli segnali di apertura vengono anche dalla Cina. Il ministero del Commercio di Pechino ha fatto sapere che «gli Stati Uniti hanno recentemente preso l’iniziativa in numerose occasioni di trasmettere informazioni alla Cina tramite le parti interessate, affermando di sperare di poter parlare con il governo cinese» e che a sua volta «la Cina sta valutando questa possibilità». I dazi Usa che hanno raggiunto il 145% su molti prodotti cinesi sono entrati in vigore ad aprile, mentre Pechino ha risposto con nuove tariffe del 125% sulle importazioni dagli Stati Uniti. Mercoledì Trump ha ribadito che ci sono «alte probabilità di raggiungere un accordo». Pechino ha negato con veemenza che siano in corso colloqui, esortando ripetutamente gli Stati Uniti a «correggere le pratiche sbagliate e ad annullare i dazi unilaterali». Il ministero degli Esteri ha lanciato un video sui social media in cui ostenta toni muscolari dicendo che Pechino «non si inginocchierà mai» e, se necessario, «combatterà una guerra commerciale fino in fondo». Al di là delle dichiarazioni ufficiali, la diplomazia lavora dietro le quinte. Il Wall Street Journal, riportando fonti anonime, scrive che le autorità cinesi starebbero valutando «possibili approcci» per venire incontro alle «lamentele» dell’amministrazione Trump relativamente al ruolo di Pechino nel traffico internazionale di Fentanyl. Questo potrebbe essere un primo passo di avvicinamento, in grado di aprire la strada al negoziato commerciale tra Washington e Pechino. Il ministro cinese per la Pubblica sicurezza, Wang Xiaohong, avrebbe chiesto «informazioni» per capire «cosa dovrebbe fare la Cina» in merito alla produzione di sostanze chimiche utilizzate per produrre il Fentanyl. Una quota consistente di tali sostanze, poi rivendute online, proviene da aziende cinesi. Le autorità di Pechino, secondo le fonti, starebbero valutando di inviare Wang negli Usa per incontrare l’amministrazione statunitense e affrontare il tema.Altro fronte aperto è con il Canada. Il primo ministro Mark Carney sarà a Washington martedì prossimo per incontrare Trump. Un vertice che prevede «sarà difficile ma costruttivo».Intanto i mercati cominciano a tirare un sospiro di sollievo. Le Borse tornano ai livelli pre dazi. Milano ha chiuso la seduta a +1,9%, sperando nei segnali di dialogo da una parte all’altra dell’oceano.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/dazi-cina-ue-usa-2671884162.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-lobbismo-di-huawei-non-si-ferma-pressioni-in-europa-sullenergia" data-post-id="2671884162" data-published-at="1746230143" data-use-pagination="False"> Il lobbismo di Huawei non si ferma. «Pressioni in Europa sull’energia» Li cacci dalla porta, ma rientrano dalla finestra. È così che si può riassumere la vicenda dei lobbisti di Huawei. Malgrado l’indagine in corso sulla possibile corruzione di una quindicina di eurodeputati, infatti, il colosso delle telecomunicazioni continua imperterrito, secondo Euractiv, a influenzare i processi decisionali dell’Unione europea, in particolare nel settore delle politiche energetiche: pur essendo nota soprattutto per i cellulari, l’azienda cinese è molto attiva anche nel campo dei pannelli solari. Huawei, per esempio, è il principale fornitore in Europa di un loro componente fondamentale, ossia gli inverter fotovoltaici, rappresentando circa un terzo del mercato. Visto lo scandalo scoppiato a Bruxelles a metà marzo, l’Europarlamento si è affrettato a espellere i lobbisti del colosso cinese dalle sue sedi e a proibire ai suoi dipendenti l’utilizzo dei dispositivi Huawei. Eppure, come fa notare Euractiv in un’inchiesta, l’azienda dai petali rossi non ci ha messo molto a trovare un modo per eludere l’ostracismo - in realtà assai lasco - delle istituzione europee. Citando fonti informate, la nota testata ha affermato che «Huawei sta mascherando la sua attività di advocacy attraverso associazioni di categoria». In buona sostanza, il gigante delle telecomunicazioni prosegue la sua attività di lobbying attraverso il patrocinio di oltre 50 organizzazioni e think tank che hanno diretta influenza sui legislatori. A qualcuno potrà sembrare un escamotage dal fiato corto, e invece è proprio tramite il dialogo e la mediazione con queste associazioni - talvolta anche di nicchia - che i legislatori di Bruxelles redigono le leggi sull’energia da sottoporre poi al voto dell’Europarlamento. Tra queste organizzazioni figura, ad esempio, l’influente Associazione europea per l’immagazzinamento dell’energia (Ease), che rappresenta l’intera filiera dell’accumulo energetico. Versando un contributo annuale di 22.400 euro all’Ease, spiega Euractiv, «i lobbisti di Huawei possono partecipare all’organo più importante dell’associazione, ossia il gruppo di lavoro, dove vengono discusse le strategie del gruppo stesso in materia di lobbying». Discorso analogo per la potente SolarPower Europe, a cui gli emissari del colosso cinese corrispondono una quota annuale da 60.000 euro per l’iscrizione al livello più alto dell’organizzazione. Una volta scoppiato lo scandalo, sia l’Ease che SolarPower Europe si sono affrettate a rimuovere Huawei dalla lista dei loro partner finanziatori per evitare ulteriori imbarazzi. Un imbarazzo che, però, non ha invece sfiorato la fondazione Bruegel, sul cui sito campeggia ancora il logo dell’azienda cinese. Think thank autorevole e influente di respiro europeo, Bruegel fu tenuto a battesimo nel 2005 da Mario Monti, che è tuttora venerato come il suo presidente fondatore (attualmente l’organizzazione è presieduta dall’ex governatore della Bce Jean-Claude Trichet). Per ottenere la tessera di membro di Bruegel, Huawei paga una quota annuale di oltre 50.000 euro. Secondo una stima di Euractiv, peraltro definita «prudente», l’azienda cinese spende per le sue attività di lobbying in Europa circa un milione di euro all’anno. Ed è un sistema che evidentemente funziona, visto che le istituzioni di Bruxelles fanno fatica a porvi un freno, come ha dovuto ammettere un portavoce della Commissione Ue: «Non sarebbe fattibile, né a livello logistico né a livello pratico, impedire ai nostri funzionari di incontrare queste associazioni, le quali rappresentano un gran numero di parti interessate».
Nicolas Sarkozy e Carla Bruni (Getty Images)