John Grisham è emerso con grandi capacità espressive in un genere dalla lunga tradizione negli Stati Uniti: il giallo giudiziario, conosciuto anche all’estero con la denominazione originaria, legal thriller.
Il genere nasce fra le due guerre mondiali del XX secolo con Perry Mason, l’avvocato infallibile di Erle Stanley Gardner, successivamente legato al suo interprete più popolare, Raymond Burr, assassino in La finestra sul cortile e strenuo difensore di innocenti alla sbarra sul piccolo schermo.
Nella società americana la democrazia e la libertà acquistano particolare risalto con i procedimenti legali. Avvocati e giudici hanno grande presa e sono protagonisti di numerosi romanzi, film e serie televisive.
John Grisham, nativo del Mississippi nel 1955, si laurea in legge nel 1981. Per nove anni fa l’avvocato penalista e matura quell’esperienza professionale indispensabile a scrivere gialli giudiziari con una solida conoscenza della materia. È l’ennesima riprova della norma promulgata nelle scuole di scrittura universitarie americane: scrivi di ciò che conosci bene.
Grisham viene eletto deputato alla Camera dei Rappresentanti del Mississippi. Anche questo gli servirà da scrittore. Spesso ai problemi legali nelle sue storie si mescolano le pressioni dei politici e la corruzione nelle alte sfere istituzionali, come si vedrà nei suoi plot. Dopodiché scrive il primo romanzo, Il momento di uccidere, al quale seguono gli altri, tutti bestseller: Il rapporto Pelican, Il socio (dal quale viene tratto un film di altrettanto successo), Il cliente (che diventa uno sceneggiato televisivo molto seguito), L’appello, L’uomo della pioggia, La giuria, eccetera.
Adesso torna nelle librerie e di certo nelle classifiche dei libri più venduti con La vedova. Il plot ripropone lo schema ricorrente dei suoi romanzi. La location è quella preferita di Grisham, la fonda provincia americana, nel caso la Virginia, distante dal cosmopolitismo delle metropoli ma non per questo carente di circostanze che fanno i voltapagine, i libri impossibili da abbandonare prima della fine. Protagonista Simon Latch, legale di minuscolo calibro, cui non toccherà la carriera milionaria dell’associato di un grosso studio newyorkese. Gli toccano al massimo procedimenti fallimentari, ammende e pignoramenti. Peggio ancora sul piano personale. Il suo matrimonio è andato a rotoli, deve perciò affrontare l’inevitabile divorzio, con una prospettiva di alimenti piuttosto cari. In più soffre di una ludopatia che lo espone a grandi perdite economiche nel gioco d’azzardo. Da questo una marea di debiti che salda a fatica. Il caso gli manda allo studio la signora Eleanor Barnett, una vedova ottantacinquenne intenzionata a fare testamento. È il patrimonio ingente ereditato a sua volta dal marito, ignorato da tutti. Per Simon è la classica occasione della vita, la realizzazione del sogno americano, che fin qui gli pareva precluso. Un’anziana ricca e la concreta possibilità di incrementare le sue scarse finanze, disperatamente bisognose di essere rimpinguate. Ovvio che accetti di curare la questione del lascito propostagli dalla Barnett. E per precauzione tace ogni cosa perfino alla sua affidabile collaboratrice.
Si prodiga in consigli e attenzioni con la vecchia signora e pregusta il salto di quantità del suo conto in banca. Peccato che malgrado i vent’anni quale leguleio tormentato da perenni insuccessi, Latch non abbia del tutto smarrito la perspicacia indispensabile nella sua professione. Lentamente ma inesorabilmente, con il tipico crescendo del thriller, legal o meno, gli entra dentro il tarlo del sospetto, alla Hitchcock. Secondo lui, la storia della Barnett potrebbe essere fake. La fantasia senile di una donna sola? O altro.
Ipotesi che si acuiscono dopo l’incidente subito dall’interessata, tale da farla ricoverare in ospedale. A questo punto Latch viene accusato di omicidio e finisce sotto processo. Come per gli imputati difesi da Perry Mason, l’unico modo di scagionarsi è smascherare il colpevole del crimine ingiustamente attribuitogli.
Si sovrappongono i canoni del legal thriller e del mystery, ovvero il giallo da manuale. Per comprendere la struttura, si deve tornare a quella stabilita appunto da Erle Stanley Gardner per i casi affrontati da Perry Mason.
Viene compiuto un omicidio. L’accusato si proclama innocente. Il colpevole è qualcun altro. In La vedova, però, Latch deve fare tutto da solo. Buon per lui che abbia dalla sua la maestria narrativa di John Grisham.
Il Natale veniva anche per Andrea Pazienza, genio iconoclasta del tratto grafico che non di rado acquisiva parvenze tutt’altro che pie. Le festività erano per lui i ritorni a San Severo, per le avventure sul Viale della Villa e le tombole tirate fino a tarda notte. Dapprima veniva da Pescara, dove studiava al liceo artistico «Misticoni Bellisario», poi dalla Bologna del Dams, del ‘77, di Radio Alice, di Bifo, dei cortei, delle molotov, dei fumogeni, dell’assalto con saccheggio al ristorante Cantunzein e delle tavole primigenie di Pentothal. L’alter ego a fumetti di Paz chiude l’episodio iniziale con una tavola in cui ha sullo sfondo la nuova epopea giovanile, che gli sfugge. Si sente «completamente tagliato fuori», dopo pagine e pagine di autobiografia esistenziale che bypassa il movimento dei nuovi barbari dell’anno nove (dal Sessantotto), come li avrebbe definiti Umberto Eco, talent scout di Pazienza insieme a Oreste Del Buono, direttore di Linus e Alter Alter, su cui esordì il disegnatore.
Ma il Natale in discesa da Bologna comportava una sosta a San Benedetto del Tronto, la città di Giuliana Di Cretico, la madre. Andrea lì ci è nato, e vi risiedono i parenti. Gli zii, immigrati abruzzesi di Atri. E sopratutto erano suoi incondizionati adoratori. Nella cerchia familiare spicca lo zio Mario, che per la proprietà transitiva degli affetti lo diventa di tutti gli amici più cari di Paz. È un uomo mite, bonariamente sornione, tutt’altro che un patriarca di quelli cui adesso si addossano le colpe che spettano ai singoli deragliati e non alle strutture familiari consolidate nell’arco di millenni. Lo zio Mario ha un’etica del lavoro che coincide con la sua visione del mondo: produrre per dare lavoro e vivere nel rispetto dei valori. Peccato che le cose intorno a lui stiano prendendo una pessima piega. Una in particolare lo tocca di persona. Andrea discende a spirale nel buco nero dell’eroina. Zio Mario e gli altri di San Benedetto lo capiscono, specie da certe frequentazioni con le quali si presenta da loro, non solo alle festività. Poi pare che ne sia uscito. Il periodo bolognese è passato. Anche i cortei, i fumogeni, le molotov e il tetro repertorio degli anni di piombo. Ora Andrea è un artista di grande successo, che vive a Montepulciano in un casolare del Trecento. Zio Mario & C. gli chiedono uno schizzo decorativo da utilizzare per le scatole natalizie. Andrea va oltre e realizza un intero presepe componibile, che anticipa su carta e cartoncino i miracoli della digitalizzazione, ancora lontana da venire, perché si è nel 1986. Lui non sa che gli mancano solo due anni a morire, il 16 giugno 1988. Per il momento, trentenne e baldo, disegna le figurine del presepe che oggi la Gallucci pubblica in formato 3D, da allestire, proponendo un libro che è in realtà un giocattolo per adulti.
Al di là della sfilata dei personaggi, tutti canonici, compresi il bue e l’asinello, il diorama di Andrea Pazienza è un’altra occasione per riandare alle sue radici formative, ben diverse dall’epopea trasgressiva con cui lo si identifica ancora a trentacinque anni dalla sua scomparsa per overdose.
Le sue figurine, da cui sovente traspare lo spirito francescano originario della natività di Greccio, discendono direttamente da quelle dei soldatini e degli animali da ritagliare, negli inserti del Corriere dei Piccoli e di altre riviste per ragazzi, nonché sul retro dei quaderni di scuola. D’altronde, uno degli ispiratori riconosciuti di Andrea fu Benito Jacovitti. E c’è un classico pazienziano, Perché Pippo sembra uno sballato, in cui il personaggio di Disney, pur venendo assimilato all’universo tossico di quella gioventù più che bruciata, incenerita, serba lo spirito genuino di un nuovo Candido, che caratterizza gli sfattoni da droghe leggere.
Inoltre questo presepe rimanda a un’altra escursione di Andrea nella religiosità. L’anno successivo alla composizione del presepe, viene avvicinato dal titolare di un’agenzia pubblicitaria di San Severo, suo ex collega del Dams, che lo invita a disegnare con i pennarelli, mezzi espressivi di preferenza per Paz, la Madonna del Soccorso, patrona della città, da inserire in un dépliant turistico con il patrocinio del Comune. Il sindaco dell’epoca, alla vista dell’opera, storce il naso definendola nient’altro che un fumetto, epiteto nel quale mette irriverenza. La ritiene quasi blasfema verso la Vergine Nera, perché bizantina, la cui statua lignea si venera a San Severo nella basilica di Sant’Agostino.
Ebbene, quel politico non aveva e non avrebbe mai potuto avere gli strumenti per capire. Aveva pensato di inquadrare Andrea Pazienza nell’ambito del fumetto per sminuirlo. E non si era accorto di avergli riconosciuto e tributato l’eccellenza di quanto era diventato: un’icona laica che si confrontava con un’icona liturgica, intrisa di quell’animismo contadino non ancora snaturato dall’avvento del post-moderno. Lo stesso vale per questo presepe più prezioso dei fogli di cartoncino sui quali lui lo ha creato.
Andrea Pazienza, Il presepe (Gallucci, euro 24)
I dieci giorni che sconvolsero il thriller. Dal 3 al 13 dicembre 1926 Agatha Christie fece perdere ogni traccia di sé e la stampa si scatenò in ipotesi fantasiose, tra le quali spiccava il sospetto che l’avesse uccisa il marito, Archibald Christie, da cui lei stava per divorziare. L’episodio fu ricostruito con elegante inventiva nel film del 1979 Agatha, diretto da Michael Apted, interpretato da Vanessa Redgrave nella parte della protagonista e da Dustin Hoffman in quella di un giornalista che la smaschera e la corteggia fra le camere sontuose di un aristocratico centro benessere di Harrogate.
Nina De Gramont, a sua volta docente di scrittura creativa alla North Carolina University, ricostruisce la vicenda sotto forma narrativa in Il caso Agatha Christie (Neri Pozza editore, 336 pagine, 18 euro), dove la voce narrante è quella di Nan O’Dea, amante del marito. L’auto dell’autrice, una Morris Crowley, viene ritrovata sull’orlo di un dirupo, con sparsi sul sedile posteriore la pelliccia, una valigia piena di abiti e la patente. Sullo sfondo, l’intera cornice biografica della Christie. Dunque, l’occasione imperdibile per tornare sulla figura e l’opera della regina del brivido. Proprio quest’anno, peraltro, si celebra il centenario dell’esordio letterario di Hercule Poirot, che compone insieme a Miss Marple un binomio di segugi scolpito nell’immaginario. Dietro le geometrie investigative del geniale belga e la sagacia della zitella si annida la personalità della loro creatrice, tormentata da numerose traversie: l’infanzia dorata e nello stesso tempo densa di problemi familiari, la maturità segnata da due matrimoni opachi. Un vissuto che di per sé spiega la fuga della Christie nel limbo di quei dieci giorni.
Il primo marito, del quale Agatha conservò il cognome, la preferì alla più giovane e slanciata Nancy Nellie, che con lui condivideva la passione per il golf e le competizioni sportive. Il secondo, l’archeologo Max Mallowan, era più giovane di lei, e la coinvolse in una riproposta nell’eterno triangolo con Barbara Parker, ex allieva dello studioso.
A quel punto la Christie, acquisita grande fama presso il pubblico che divorava i suoi libri, aveva sviluppato la saggezza che deriva dal fatalismo, e ritenne controproducente per la sua carriera un secondo divorzio.
La donna fu assillata da avversità economiche, pendenze tributarie e controversie professionali nelle stesure di contratti comunque fruttuosi. Si capisce che le sfide enigmistiche nei suoi intrecci costituiscono allegorie dell’imprevisto che domina nei rapporti umani e che spesso alimenta il divampare della violenza omicida. Finché, a ben pensare, risultano più feroci le trame inesorabili della Christie che i film di Quentin Tarantino, dove l’aggressività è talmente esplicita da risolversi in parodie sanguinarie.
Agatha Christie ricordava così il percorso che la portò ad inventare Poirot: «Doveva essere meticoloso e molto ordinato, decisi, mentre mi affaccendavo a raccogliere una serie di oggetti che avevo seminato nella mia stanza. Un omino preciso con la mania dell’ordine, della simmetria, e una netta propensione per le forme quadrate piuttosto che per quelle tonde. E poi molto intelligente, con il cervello pieno di piccole cellule di materia grigia… ah che bella frase, non dovevo dimenticarla».
Quanto alla nazionalità di Poirot, riandò con la memoria alle sue esperienze d’infermiera durante la prima guerra mondiale, allorché sul suolo britannico trovarono asilo molti transfughi dal continente: «Mi vennero in mente i rifugiati belgi, quelli che vivevano nella parrocchia di Tor. E perché non un investigatore belga?»
Il successo di Poirot fu planetario. Dalla prima, sorprendente, indagine di Styles Court, l’«omino preciso» non perdette un solo colpo. Nessun profiler, nessun tecnico della Scientifica, nessun mago del computer potrà mai competere con il lavorio delle sue «cellule grigie». Poirot è il trionfo illuminista dell’intelletto su ogni devianza criminale. La Christie, però, preavvertì i sintomi della propria dipartita, avvenuta il 12 gennaio 1976, e non intendeva lasciare il suo personaggio in balia di ghost writers. Perciò lo fece morire nel romanzo Sipario, del 1975. Invece Poirot tornò in campo con una nuova serie, firmata da Sophie Hannah.
Mentre nel caso di Holmes i cultori devono accontentarsi del 221B di Baker Street fittizio come lo era il suo inquilino, per la Christie dispongono di una location reale come Agatha, insignita del titolo di Dame, equivalente femminile di Sir. La sua residenza estiva in stile georgiano, Greenway House, si trova nel Devonshire, aperta al pubblico dopo restauri costati 6 milioni di euro. Dal 2009 si può visitare e perfino soggiornarvi. Contiene oggetti riportati da viaggi che le ispirarono, fra gli altri, Assassinio sull’Orient Express, Poirot sul Nilo e Non c’è più scampo. La Christie vi trascorse le vacanze dal 1938 al 1976. Dovette rinunciarvi però nel 1943, quando la tenuta passò sotto il controllo del comando alleato per la preparazione dello sbarco in Normandia.




