Suicidio assistito, in agguato a destra la solita tentazione del male minore

Diversi parlamentari della maggioranza ritengono necessaria una legge sul suicidio assistito come «male minore» rispetto a un’eventuale futura legge radicale. Per via delle sentenze della Consulta, dicono, non intervenendo, si contribuirebbe comunque alla morte di coloro che ottengono l’aiuto a morire a legislazione vigente, dunque legiferare servirebbe almeno a regolare il fenomeno, a mettere dei solidi «paletti».
In realtà è meglio il medico che non interviene e sceglie di non somministrare del veleno a un paziente, anche se non fa niente per salvarlo. Così non diventa complice della sua morte. Una qualsiasi regolamentazione del suicidio assistito equivale invece a prescrivere quel veleno, rendendo il Parlamento - e quindi il popolo - corresponsabili del gesto. Bisogna aiutare chi soffre, non offrire per legge la morte come soluzione. È questo il futuro che vogliamo? Una società che sopprime i fragili invece di tendergli la mano?
Una nuova normativa proprio non serve. Gli strumenti per rifiutare le cure esistono già: la legge 219/2017 consente di interrompere trattamenti, e lo stesso permette il codice deontologico medico. Quanto ai «paletti», l’esperienza della legge 40/2004 sulla fecondazione artificiale ci ha insegnato quanto sia facile farli cadere per via giurisprudenziale e amministrativa.
Ogni legge ha un valore pedagogico: ciò che è legale appare giusto, persino auspicabile. Una norma che legittima la morte induce malati e anziani a credere che il suicidio sia l’unica via accettabile. La stessa Consulta, con le sentenze n. 135/2024 e n. 66/2025, avverte che una legge potrebbe aumentare il rischio di abusi e pressione sociale sui più fragili. In sintesi: una legge nata per «limitare» i casi finirebbe per aumentarli.
Una sproporzione è evidente: in Italia si contano 4.000 suicidi l’anno, 11 al giorno, e i suicidi tra i giovani crescono di anno in anno, ma il dramma resta ignorato. Al contrario, i pochi casi di suicidio «assistito» ottengono enorme visibilità, come fossero un’emergenza nazionale. È un paradosso che serve a spostare l’attenzione dalla prevenzione alla «soluzione rapida»: eliminare chi soffre.
Lo Stato trascura vere emergenze. Secondo uno studio della Bocconi, il 77% dei malati adulti (e fino all’85% dei bambini, secondo la Società italiana di pediatria) non riceve cure palliative, nonostante ne abbia diritto. Che libertà è «scegliere» la morte, senza offrire la possibilità di vivere senza dolore? A ciò si aggiunge che tra oltre 2 milioni di disabili gravi, solo uno su cinque, riceve l’assistenza domiciliare necessaria. Un sistema frammentato e diseguale, denunciato dall’Istat stesso. Invece di intervenire su queste vere emergenze si preferisce facilitare il suicidio?
Si sostiene il principio di autodeterminazione. Ma lo Stato limita le libertà individuali ogni giorno, imponendo casco, cinture di sicurezza eccetera, per proteggere la vita. Dovremmo accettare il suicidio dei depressi o lasciar morire di fame gli anoressici? Non lo facciamo perché sappiamo che la vita è un bene da tutelare, anche contro le spinte autodistruttive dei singoli, che sono sempre indice di fragilità, di una condizione che toglie lucidità se non proprio la capacità di intendere e di volere. Chi chiede di morire, del resto, non è libero: è disperato. Lo scrisse anche DJ Fabo nella sua ultima lettera: «Vivo nella sofferenza e nella disperazione, non trovando più senso nella mia vita». Era una richiesta di morte o un grido d’aiuto?
Ciò che accade all’estero mostra che fatta la legge, i paletti crollano. Dai malati terminali si passa a disabili, malati psichici e alcolisti. In Olanda, un’eutanasia su cinque avviene senza consenso e Noa Pothoven, a 17 anni, ha ottenuto l’eutanasia per gli abusi subiti da bambina. In Belgio, la ventitreenne Shanti De Corte è stata soppressa per depressione. In California a Stephanie Packer, madre di quattro figli, è stata negata la chemioterapia ma offerto il suicidio assistito. In Canada, nel 2016 si contarono 1.018 morti per eutanasia; nel 2023 sono diventati 15.343. E infine, nonostante la propaganda, solo 13 Paesi su 194 nel mondo hanno legalizzato eutanasia o suicidio assistito. Davvero vogliamo essere il quattordicesimo?
Anch’io, malato di cancro al pancreas, ho conosciuto dolori insopportabili e la paura di vivere nella sofferenza. Ho pensato fosse meglio farla finita. Poi, grazie alle cure palliative, all’amore di mia moglie e alla presenza degli amici ho resistito. Se allora fosse esistita una legge sul suicidio assistito, avrei potuto compiere un gesto di cui non mi sarei più potuto pentire.






