2025-09-05
Asse tra Renzi e Mattarella al Csm. La Cassazione a una toga di sinistra
La decisione finale del consigliere laico di Italia viva spiana la strada alla nomina come capo del Palazzaccio di Pasquale D’Ascola, candidato delle correnti progressiste. Il «parlamentino» dei giudici ritorna al passato.Per la nomina del primo presidente della Cassazione, la poltrona più prestigiosa per le toghe, i membri del Consiglio superiore della magistratura hanno discusso giorni e notti. E l’altro ieri sera sembrava che l’ala conservatrice fosse in grado di far prevalere il candidato su cui aveva puntato, Stefano Mogini, sebbene questi fosse un centrista che in passato era stato distaccato al ministero della Giustizia durante il secondo governo Prodi. Nell’importante corsa i laici del centro-destra e Magistratura indipendente, per giorni impegnati in riunioni e conciliaboli, erano convinti di avere trovato la quadra, ma soprattutto i voti. Ma alla fine, a un passo dalla vittoria, avrebbe «disertato» Ernesto Carbone, laico in quota Italia viva, o meglio, in quota Matteo Renzi. Il quale, a furia di mosse del cavallo, è riuscito a riportare l’asse del Csm a sinistra e soprattutto sotto l’ala confortevole del Quirinale, che sosteneva, a quanto risulta alla Verità, Pasquale D’Ascola, il vincitore di giornata. Il presidente Sergio Mattarella, nella sua veste di presidente del Csm, ha guidato i lavori del plenum straordinario di ieri e ha proceduto alla proclamazione del nuovo primo presidente. I cosiddetti indipendenti Roberto Fontana (area di sinistra) e Andrea Mirenda, con la loro astensione, sono stati decisivi per il trionfo del candidato del Colle. In pochi altri casi c’era stata tanta incertezza per l’assegnazione di una poltrona così importante. Alla fine le preferenze sono state così distribuite: per Mogini si sono schierati compatti i sei laici di centrodestra e i sette togati di Mi; per D’Ascola i sei togati di Area, i quattro di Unicost, quella di Magistratura democratica, rinforzati dai laici Roberto Romboli (in quota Pd) e Michele Papa (5 stelle). Cinque, infine, gli astenuti: non si sono espressi il Comitato di presidenza al gran completo (composto dal vicepresidente Fabio Pinelli, dalla prima presidente uscente Margherita Cassano e dal procuratore generale del Palazzaccio Piero Gaeta) e i due indipendenti citati sopra. Come nel gioco dell’oca, la nomina di D’Ascola riporta gli equilibri interni della magistratura al punto di inizio, caratterizzato dagli accordi tra le correnti di Area (più Md) e i centristi di Unicost (la vecchia corrente di Luca Palamara) con l’appoggio esterno della politica centro sinistra nel cui alveo è rientrato in pompa magna il fu Rottamatore. L’ obiettivo della nuova gioiosa macchina da guerra è quello di consolidare l’«autonomia» della magistratura, unico vero blocco anti-governo rimasto nel Paese. Sono oramai lontani i tempi in cui per la prima volta nella storia le due cariche apicali della magistratura (primo presidente e procuratore generale del Palazzaccio) non erano espressione del mondo progressista.Nel dicembre del 2017 le nomine di Giovanni Mammone e Riccardo Fuzio avevano spostato la magistratura su un asse inedito che aveva tolto alle correnti di sinistra le due poltrone più importanti. La famosa notte dell’hotel Champagne ha riportato l’orologio a prima del 2017, quando l’Associazione nazionale magistrati faceva il bello e il cattivo tempo e si opponeva (come ha ammesso Palamara) con tutte le sue forze ai governi Berlusconi. Adesso la nomina sancisce il ritorno alle origini del parlamentino dei giudici. Chi riteneva che il nuovo Csm, votato all’inizio del 2023, avesse i numeri e la forza per cambiare le cose è stato clamorosamente smentito. Il primo errore è stato quello di concedere un laico a Renzi, pensando che avrebbe remato insieme con il centro-destra nella direzione delle riforme; il secondo è stato quello di lasciar defenestrare da Palazzo Bachelet il membro laico in quota Fdi Rosanna Natoli, mai sostituita. Un autogol di cui è in parte responsabile il vicepresidente Pinelli, entrato al Csm in quota Lega, ma conquistato alla causa del Colle, come era già successo a David Ermini, anche grazie, si mormora, alla tela tessuta dall’influente Luciano Violante e dallo stesso Renzi (Pinelli è stato legale del Giglio magico). Una fortunata combinazione di fattori che ha ricollocato il Csm a sinistra nel momento in cui le toghe hanno ripreso a fare la voce grossa contro il governo, in questo caso quello di Giorgia Meloni. Ma vediamo chi ha conquistato l’ambito incarico. D’Ascola, giudice civile, ha sempre esercitato funzioni giurisdizionali (per oltre 42 anni). È nato e cresciuto a Reggio Calabria, come l’attuale pg della Cassazione Gaeta (progressista pure lui) del quale è coetaneo. Entrambi hanno frequentato il liceo classico Tommaso Campanella e l’università di Messina e hanno vinto lo stesso concorso in magistratura. Il nuovo primo presidente ha esordito come pretore a Verona, città nella quale è rimasto per oltre 18 anni prima di trasferirsi a Roma nel 2001 per iniziare il suo cursus honorum dentro al Palazzaccio. Nell’aprile del 2018 è stato promosso presidente di sezione della Cassazione dal Csm del quale faceva parte lo stesso Palamara. Il 3 ottobre 2023 ha avuto un altro avanzamento, assumendo le funzioni di presidente aggiunto della Cassazione, nomina che prelude a quella di primo presidente. D’Ascola, al contrario di Mogini, si è contraddistinto come esponente di punta prima della corrente dei Verdi (storici alleati di Md) e poi del cartello progressista di Area, in cui i cosiddetti Movimenti sono confluiti. Mogini, al contrario del proprio avversario, non è mai stato particolarmente attivo nella vita correntizia, anche se era considerato vicino a Unicost, raggruppamento che, dal centro, consentiva di guardare sia a destra che a sinistra. Mogini, con alle spalle una carriera di giudice penale, aveva quattro anni in meno di anzianità di servizio di D’Ascola e per 16 anni e mezzo è stato fuori ruolo. Nel 2006 è stato scelto come capo di gabinetto dall’allora Guardasigilli Clemente Mastella. Ha svolto anche il ruolo di magistrato di collegamento presso l’ambasciata italiana a Parigi e quello di esperto giuridico alla Rappresentanza permanente d’Italia all’Onu. Ma questo curriculum non è bastato a fare pendere l’ago della bilancia della Giustizia dalla sua parte. Secondo i ben informati sulla sua mancata nomina potrebbe avere pesato anche la testimonianza da lui resa nell’inchiesta sulla cosiddetta Loggia Ungheria. Il 5 ottobre 2021 è stato sentito dalla Procura di Perugia, allora alla ricerca di prove da utilizzare contro Palamara. Secondo il faccendiere Piero Amara l’ex presidente dell’Anm si sarebbe rivolto a Mogini per salvare da una sentenza di condanna il magistrato Maurizio Musco. Mogini ha, però, fatto mettere a verbale considerazioni del tutto anodine, non offrendo riscontri alle dichiarazioni di Amara. Nonostante questo gli inquirenti perugini, nella richiesta di archiviazione per Ungheria, hanno lodato Mogini per la sua «schiena dritta», dal momento che, a loro dire, non avrebbe accolto la raccomandazione a favore di Musco. Un encomio che gli valse qualche citazione sui giornali di sinistra. In realtà Mogini si era limitato a riferire di aver chiamato lui Palamara e che nel corso di quell’incontro vi era stato un accenno allo stato di salute precario del magistrato in quel momento sotto processo. In sostanza una non conferma alle accuse di Amara, anche perché che Musco stesse male era un fatto noto all’interno del Csm e ai piani alti della magistratura. La scoperta del reale contenuto del verbale potrebbe aver fatto perdere a Mogini il favore guadagnato in certi salotti progressisti grazie alla vulgata dei giornaloni. Un cambio di vento che non poteva non essere intercettato dal più grande fiutatore di tendenze del nostro Paese, Renzi. Che, è bene ricordarlo, è l’ideatore di «Mattarella for president».
(Guardia di Finanza)
I Comandi Provinciali della Guardia di finanza e dell’Arma dei Carabinieri di Torino hanno sviluppato, con il coordinamento della Procura della Repubblica, una vasta e articolata operazione congiunta, chiamata «Chain smoking», nel settore del contrasto al contrabbando dei tabacchi lavorati e della contraffazione, della riduzione in schiavitù, della tratta di persone e dell’intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.
Le sinergie operative hanno consentito al Nucleo di polizia economico-finanziaria Torino e alla Compagnia Carabinieri di Venaria Reale di individuare sul territorio della città di Torino ed hinterland 5 opifici nascosti, dediti alla produzione illegale di sigarette, e 2 depositi per lo stoccaggio del materiale illecito.
La grande capacità produttiva degli stabilimenti clandestini è dimostrata dai quantitativi di materiali di contrabbando rinvenuti e sottoposti a sequestro: nel complesso più di 230 tonnellate di tabacco lavorato di provenienza extra Ue e circa 22 tonnellate di sigarette, in gran parte già confezionate in pacchetti con i marchi contraffatti di noti brand del settore.
In particolare, i siti produttivi (completi di linee con costosi macchinari, apparati e strumenti tecnologici) e i depositi sequestrati sono stati localizzati nell’area settentrionale del territorio del capoluogo piemontese, nei quartieri di Madonna di Campagna, Barca e Rebaudengo, olre che nei comuni di Caselle Torinese e Venaria Reale.
I siti erano mimetizzati in aree industriali per dissimulare una normale attività d’impresa, ma con l’adozione di molti accorgimenti per svolgere nel massimo riserbo l’illecita produzione di sigarette che avveniva al loro interno.
I militari hanno rilevato la presenza di sofisticate linee produttive, perfettamente funzionanti, con processi automatizzati ad alta velocità per l’assemblaggio delle sigarette e il confezionamento finale dei pacchetti, partendo dal tabacco trinciato e dal materiale accessorio necessario (filtri, cartine, cartoncini per il packaging, ecc.), anch’esso riportante il marchio contraffatto di noti produttori internazionali autorizzati e presente in grandissime quantità presso i siti (sono stati infatti rinvenuti circa 538 milioni di componenti per la realizzazione e il confezionamento delle sigarette recanti marchi contraffatti).
Gli impianti venivano alimentati con gruppi elettrogeni, allo scopo di non rendere rilevabile, dai picchi di consumo dell’energia elettrica, la presenza di macchinari funzionanti a pieno ritmo.
Le finestre che davano verso l’esterno erano state oscurate mentre negli ambienti più interni, illuminati solo artificialmente, erano stati allestiti alloggiamenti per il personale addetto, proveniente da Paesi dell’Est europeo e impiegato in condizioni di sfruttamento e in spregio alle norme di sicurezza.
Si trattava, in tutta evidenza, di un ambiente lavorativo degradante e vessatorio: i lavoratori venivano di fatto rinchiusi nelle fabbriche senza poter avere alcun contatto con l’esterno e costretti a turni massacranti, senza possibilità di riposo e deprivati di ogni forma di tutela.
Dalle perizie disposte su alcune delle linee di assemblaggio e confezionamento dei pacchetti di sigarette è emersa l’intensa attività produttiva realizzata durante il periodo di operatività clandestina. È stato stimato, infatti, che ognuna di esse abbia potuto agevolmente produrre 48 mila pacchetti di sigarette al giorno, da cui un volume immesso sul mercato illegale valutabile (in via del tutto prudenziale) in almeno 35 milioni di pacchetti (corrispondenti a 700 tonnellate di prodotto). Un quantitativo, questo, che può aver fruttato agli organizzatori dell’illecito traffico guadagni stimati in non meno di € 175 milioni. Ciò con una correlativa evasione di accisa sui tabacchi quantificabile in € 112 milioni circa, oltre a IVA per € 28 milioni.
Va inoltre sottolineato come la sinergia istituzionale, dopo l’effettuazione dei sequestri, si sia estesa all’Agenzia delle dogane e dei monopoli (Ufficio dei Monopoli di Torino) nonché al Comando Provinciale del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco di Torino nella fase della gestione del materiale cautelato che, anche grazie alla collaborazione della Città Metropolitana di Torino, è stato già avviato a completa distruzione.
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