2024-02-18
«Dare i migranti alla Libia è reato». La Cassazione lega le mani al governo
Secondo i giudici non si tratta di un porto sicuro. E il comandante che consegnò 101 stranieri al Paese africano è colpevole di «abbandono». La sentenza scatena le Ong, che annunciano una class action contro l’esecutivo.Rendendo definitiva la condanna del comandante del rimorchiatore italiano Asso 28, che il 30 luglio 2018 soccorse 101 persone nel Mediterraneo centrale e le riportò in Libia affidandole alla Guardia costiera, i giudici della quinta sezione della Corte di cassazione hanno stabilito che consegnare i migranti salvati in mare alle autorità di Tripoli configura un illecito. Anzi, due: abbandono in stato di pericolo di persone minori o incapaci, punito dall’articolo 591 del codice penale, e sbarco e abbandono arbitrario di persone, punito dall’articolo 1.155 del codice della navigazione. Pur trattandosi di reati che i giuristi definirebbero bagatellari - il primo punito con pene tra i sei mesi e i cinque anni e il secondo con pene da sei mesi a tre anni, tant’è che il comandante, Giuseppe Sotgiu (assolto per il reato più grave, l’abuso d’ufficio) se l’è cavata con un anno di reclusione con sospensione condizionale della pena - la decisione potrebbe creare un incaglio sul fronte politico, perché potenzialmente mette in discussione l’accordo con la Libia, ma anche le relazioni che il governo italiano ha avviato con altri Paesi africani (peraltro avallate e riconosciute dall’Unione europea), e potrebbe avere riverberi anche sui procedimenti giudiziari in corso. Secondo i giudici del Palazzaccio la Libia non sarebbe da considerare come un porto sicuro. Tant’è che la contestazione è di «abbandono in stato di pericolo di persone minori o incapaci e di sbarco e abbandono arbitrario di persone». Stando all’accusa, il comandante avrebbe procurando ai passeggeri «un danno grave, consistente nel loro respingimento collettivo, quale condotta vietata dalle convenzioni internazionali». Lo sbarco, inoltre, sarebbe avvenuto «in un porto non sicuro, atteso l’elevato rischio che i migranti fossero sottoposti a trattamenti inumani o degradanti nei centri di detenzione per stranieri presenti sul territorio libico». Le valutazioni della Cassazione derivano dalle decisioni del giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Napoli, che emise la prima sentenza, e della Corte d’appello partenopea, che già stabilirono lo stesso principio quando esaminarono l’intervento del rimorchiatore, nave d’appoggio di una piattaforma. Per gli inquirenti, dalla piattaforma sarebbe arrivata al comandante la richiesta di imbarcare un soggetto di nazionalità libica indicato come «ufficiale di dogana» che avrebbe suggerito al comandante di dirigersi verso le coste di Tripoli e di far sbarcare i migranti tirati a bordo. In tutti e tre i gradi di giudizio i giudici affermano che l’imputato ha «omesso di comunicare nell’immediatezza, prima di iniziare le attività di soccorso e dopo averle effettuate, al Centri di coordinamento di Tripoli e a quello di Roma, in assenza di risposta del primo, l’avvistamento e l’avvenuta presa in carico dei migranti». Operando in questo modo, per la Cassazione, il comandante ha violato «le procedure previste» da una convenzione internazionale e «dalle direttive dell’Organizzazione marittima internazionale», mettendo in atto «un respingimento collettivo in un porto considerato non sicuro come quello libico». La Cassazione, inoltre, ribadisce che, nel caso specifico, il comandante «avrebbe dovuto operare accertamenti necessari sui migranti, verificare se volessero o meno chiedere asilo, effettuare accertamenti necessari sui minori per verificare se fossero accompagnati o meno». Tutto ruota attorno a questo perno: il comandante non accertandosi del luogo in cui i 101 migranti sarebbero stati trasferiti, della struttura nella quale sarebbero stati alloggiati e delle reali condizioni di accoglienza, non avrebbe verificato le garanzie per i diritti umani, cosa che gli avrebbe consentito di escludere il pericolo per la vita e l’incolumità dei naufraghi e in particolare delle donne in stato di gravidanza e dei minorenni. I giudici hanno quindi ritenuto accertata la sussistenza del «dolo» almeno «eventuale». Anche perché i 101 passeggeri, neppure identificati dal comandante, sono poi diventati dei fantasmi. Tant’è che il giudice di primo grado evidenziò che «dei minori e delle donne in stato di gravidanza, delle quali non è dato sapere neanche il mese di gestazione, purtroppo si sono perse le tracce». E ora le Ong annunciano una class action «contro il governo, il ministro dell’Interno e il memorandum Italia-Libia». Per Luca Casarini, commodoro della Mare Jonio, la pronuncia dei giudici «ha chiarito in maniera definitiva che la cosiddetta Guardia costiera libica non può coordinare nessun soccorso, perché non è in grado di garantire il rispetto dei diritti umani dei naufraghi». Una sua vecchia battaglia, quella contro la Guardia costiera libica, finita anche nelle intercettazioni dell’inchiesta di Ragusa svelate dalla Verità. La stessa linea contro il governo l’hanno annunciata Sea Watch, Sos Mediterranée e Open Arms. Quest’ultima, in particolare, ora chiede spiegazioni: «Dovranno dirci perché la nostra nave è stata fermata per aver «intralciato un presunto soccorso da parte dei libici». Mentre il segretario di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni, rivendica di essere stato tra i primi a denunciare l’accaduto.