2025-02-15
D’Alema detta la linea alla sinistra: guai se spezziamo l’asse con Pechino
Massimo D'Alema (Imagoeconomica)
In compagnia di Romano Prodi, Max tifa Cina: suicida appoggiare guerre protezionistiche.Una volta Elly Schlein ha parlato della Cina. Di sfuggita. Era il 3 febbraio e il segretario del Pd si trovava a Bruxelles e ha detto una cosa così: «Oggi il settore dell’auto è in difficoltà, non va lasciato da solo, va accompagnato mano nella mano all’innovazione per non issare bandiera bianca rispetto alla competizione con la Cina o con altri grandi player». Da allora è calato il silenzio, ma a Pechino ancora tremano. Con il Pd affidato a un personaggio così frusciante, e con mezzo mondo che guarda con preoccupazione allo scontro commerciale tra Usa e Cina, poi è chiaro che i giornali vadano da Massimo D’Alema (75 anni) o da Romano Prodi (85) per sapere che cosa pensino a sinistra dei dazi. Anche perché i due ex premier, insieme a Sergio Mattarella (83 anni), sono una sorta di trimurti della politica estera del centrosinistra. Con una visione debole, quasi quanto quella dell’Unione europea, alla quale Donald Trump risponde con una politica che ha lo scopo neppure tanto nascosto di staccare l’Europa dalla Cina. Con cui può fare affari solo lui, ovviamente. Sulla Stampa, D’Alema, dopo essersi vantato di aver fatto togliere il prosciutto da una lista di dazi di Bill Clinton, faceva notare che quella di dividere i vari Paesi europei «è una vecchia furbizia gradita non solo agli americani, ma anche dai cinesi». Appunto, se uno fa togliere il prosciutto italiano e lascia lo champagne francese non è che ci voglia un numero speciale di Limes per interpretare la mossa. A un certo punto, però, all’ex premier arriva una domanda insidiosa: «Ma la natura autoritaria della variante cinese al capitalismo non presenta rischi?». D’Alema come sempre ha la soluzione in tasca: «Certo, dobbiamo negoziare, perché vogliamo parità di condizioni, un riequilibrio della bilancia commerciale, una maggiore apertura del mercato dei servizi». E poi arriva al punto di oggi: «Spezzare il rapporto con i cinesi sarebbe suicida. Se ci facciamo coinvolgere in una politica di tipo protezionistico, ci facciamo del male». Per un leader della sinistra, già solo affermare che è necessario «un riequilibrio» della bilancia commerciale con la Cina non è sforzo da poco. Chiunque abbia fatto politica sa che anche sui dazi ci sono parecchia trattativa e parecchia sceneggiata. Il presidente Trump, che per altro nella stessa intervista il giornale degli Agnelli Elkann definisce «narcisista patologico», sta usando i dazi come una clava anche per staccare l’Europa dalla Cina. Più che un ricatto, è un obiettivo coerente con la sua strategia di far tornare gli Stati Uniti il dominus mondiale delle tecnologie. Tecnologie Usa che vanno vendute anche alla pallida Europa e che non sono certo solo e unicamente i famosi satelliti di Elon Musk. Messa così alle strette, e con una Germania distratta dalla campagna elettorale ma storicamente filocinese, l’Unione europea balbetta e non sa come gestire i dazi che la riguardano. Un grande osservatore della politica economica cinese ha messo nero su bianco l’origine della battaglia odierna: «Il deficit della bilancia commerciale americana nei confronti della Cina ha raggiunto l’incredibile somma di 283 miliardi di dollari». E ha spiegato la strategia di Xi jinping di fronte alla minor crescita cinese («solo» 4,5% contro il 5% preventivato): «Non credo che voglia procedere a cambiamenti radicali, prima di vedere quali siano le concrete decisioni di Trump. Questa è però solo una parte di verità perché, nella realtà, il cambiamento radicale della politica cinese è già in atto». E sarebbe questo: «Moltiplicare il contenuto di scienza e di tecnologia di ogni prodotto, dalle automobili elettriche alle centrali nucleari, dai voli spaziali alle innumerevoli innovazioni che danno vita alle nuove fonti di energia». Sono parole di Romano Prodi, ex premier ed ex presidente della Commissione Ue, consegnate al Messaggero del 23 novembre scorso. Prodi era appena tornato dall’ennesimo viaggio in Cina, avvenuto a metà novembre, che aveva visto come protagonista assoluto Sergio Mattarella. Anche Giorgia Meloni era stata a Pechino, a fine luglio, ma il viaggio del capo dello Stato ha avuto il significato di una grande mano tesa, dopo che il governo di centrodestra aveva lasciato cadere la sciagurata adesione dell’Italia all’accordo-propaganda chiamato Via della Seta. A margine di quella missione del presidente della Repubblica, la Fondazione Agnelli, presente John Elkann, ha inaugurato all’università di Pechino la «Agnelli chair», cattedra che come primo titolare avrà Prodi. Il presidente di Stellantis, prima vittima della concorrenza cinese, che va in pellegrinaggio a Pechino con due leader ombra dell’opposizione italiana, già all’epoca aveva fatto uno strano effetto. Oggi che infuria la battaglia dei dazi, quel viaggetto è l’immagine di quanto sia complicato restare autonomi senza farsi schiacciare. Ci avevano detto che dovevamo sostenere l’Ue per non fare la fine dei vasi di coccio, ma a 25 anni dall’introduzione della moneta unica bisogna ammettere che bastano quattro dazi (annunciati) per lasciare l’Europa in mutande.
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