2019-07-01
Gian Ruggero Manzoni: «Dai “Promessi sposi” agli 007. Vi racconto la mia doppia vita»
Il pronipote di Alessandro parla degli anni da agente del Sismi: «Liquidavo i nemici dell'Italia. Uccidere? Fa sentire onnipotenti. In Libano e in Bosnia rischiai di morire».Pronipote di Alessandro Manzoni, imparentato con Piero Manzoni (l'autore della Merda d'artista), Gian Ruggero Manzoni, poeta, pittore e docente universitario, è una figura maestosa e inquietante. Romagnolo di Lugo, carattere segnato dai traumi infantili (i bulli a scuola, la madre autoritaria), una vita dissoluta (le droghe, l'alcol, le donne-oggetto). E, soprattutto, i decenni da agente dei Servizi segreti italiani. Le missioni in Bosnia. I nemici «liquidati». Tutto per una pistola P38 che la polizia gli trovò addosso durante il marzo bolognese del 1977, quando Ruggero voleva fare la rivoluzione comunista. La sua storia è diventata un libro, Il risolutore (Rizzoli), di Pier Paolo Giannubilo, escluso per un soffio dalla cinquina dei finalisti al premio Strega 2019.Parto con una domanda banale. Quanto ha pesato nella sua esistenza il cognome che porta?«All'inizio lo sentivo davvero come un peso. Poi ho capito l'importanza di onorarlo».Lei «nasce» come rivoluzionario comunista.«Mah… La tendenza, sì, era a sinistra. Mi avevano influenzato le posizioni politiche di mio padre, partigiano nella XXVIII Brigata Garibaldi. Negli anni, però, il Partito comunista mi ha deluso, con la sua resa al capitalismo e alla corruzione».La sua famiglia ha anche subito le violenze partigiane. Le pagine nere della Resistenza.«Esatto. I miei cugini, i Manzoni Ansidei, furono trucidati dai comunisti alla fine della guerra. Abitavano a 5-6 chilometri da casa mia».Fatto sta che, nel 1977, durante i disordini dei comunisti a Bologna, la polizia la sorprende armato.«Trovano me e un mio compagno con due P38. Le aveva fornite suo zio, ex partigiano, prendendole nei depositi clandestini del Pci».Cosa successe?«Qualcuno fece la spia. Quattro agenti delle squadre speciali ci arrestarono. Fummo processati per direttissima».I capi d'imputazione?«Detenzione abusiva di arma da fuoco e banda armata».Ma trovò un contatto che le fece un'offerta: commutare la pena in servizio militare permanente. «Esatto. Affiancato ai Servizi d'informazione militari, l'ex Sismi».L'addestramento fu duro?«Fin quando rimasi al Battaglione San Marco, era tutto un ciondolare. Poi andai a Vicenza, a Camp Ederle, nella base americana».C'erano altri «commutati»?«Una quarantina. Ma alla fine rimanemmo circa in venti».E i momenti peggiori?«Non tanto l'addestramento fisico, quanto l'aspetto psicologico».Cioè?«Volevano capire a quali mansioni potessi essere destinato. Ci furono molti dialoghi con psicologi, questionari… Fino a quando vennero fuori i miei problemi».Quali?«Il bullismo a scuola perché ero obeso. E la voglia di riscatto. Il livore nei confronti del mondo. Il rapporto contrastato con mia madre. Così definirono il mio profilo».In che senso?«Be', si doveva capire se il soggetto avrebbe avuto la determinazione per premere un grilletto».E lei ce l'aveva.«Dapprima mi inquadrarono come stalker, per via del mio senso dell'orientamento. Poi venne fuori la mia vera indole… E diventai un “risolutore"».Uno che faceva fuori il nemico.«Già».La prima missione?«A Roma, per “sistemare" un siriano».Chi era?«Si diceva fosse un fiancheggiatore dei palestinesi dell'Olp. Quelli dell'attentato a Fiumicino del 1973. Lì si sarebbe visto se avevo il coraggio di andare fino in fondo. Loro avevano messo in conto che potevo non farcela. Un mio superiore era pronto a intervenire al posto mio».Ma lei, fino in fondo ci arrivò.«Sì, ci arrivai».Quando premé il grilletto, cosa provò?«Lì per lì, niente».Niente?«In quel momento sei preso dal completare la missione, per poi alzare i tacchi prima possibile».E dopo?«Stava funzionando il “lavaggio del cervello": imparai a mettermi la coscienza a posto, mi dicevano che avevo eliminato un nemico dello Stato, un pericolo per la nazione».L'avevano trasformata da nemico dello Stato a «risolutore» dei nemici dello Stato?«In realtà, avevo sempre avuto in me una componente molto marziale. Mio padre aveva fiancheggiato i Servizi segreti occidentali durante la guerra. Una parte della mia famiglia era fascista. Il mio avo, Guidobaldo Manzoni, era stato con i Mas di Gabriele D'Annunzio a Buccari… Anche quando ero di sinistra mi sentivo nazionalista. Una sorta di nazionalbolscevico».A un certo punto si prova del compiacimento a uccidere?«Ah be', certamente. È il delirio di onnipotenza».Un giorno, in Libano, i miliziani islamici cominciarono a sparare contro il suo convoglio. Lì sperimentò la paura di essere ucciso?«Fu una bella scossa. Ma l'incubo che mi ha tenuto sveglio tante notti è stato rivivere i fatti di Zenica, in Bosnia, quando mi sono trovato in combattimento». Aveva gli incubi?«Detto fra noi… A non farmi dormire non sono stati i bersagli che ho fatto fuori. Quello che mi ha creato problemi è stato lo choc di Zenica, quando fui pure colpito da una scheggia nella pancia».Un'esperienza sconvolgente?«Chi non ha mai combattuto non può capire. In quelle situazioni il tempo si dilata, tutto viene ingigantito, hai scariche di adrenalina…».L'adrenalina non ti fa sentire il dolore, no?«E infatti, non mi ero accorto di essere stato colpito. Se ne accorse un mio compagno: “Ti hanno beccato". Nella ex Jugoslavia ho visto cose sconcertanti…».Ad esempio, una ragazza tra le grinfie di uno stupratore.«Un croato. Lei era serba».Come reagì?«L'ho fatto fuori. Tranquillamente. E non me ne pento».Quella ragazza le regalò una catenina con un'immagine sacra. «Io la ricercai. Sarebbe stato il mio sogno rivederla. Ma non so che fine abbia fatto».La catenina la conserva?«L'ho regalata a mia figlia, perché da quando è nata, l'immagine di quella ragazza tra le mani del suo violentatore m'è tornata spesso alla mente».Come poté un rivoluzionario anticapitalista e antiamericano mettersi al servizio delle forze Nato?«Anche ora vivo una forma di antiamericanismo viscerale. Nel tempo, in me dev'essere scattato qualcosa di simile a ciò che scattò nella testa di Nicola Bombacci».Il repubblichino?«Romagnolo anche lui, amico di Benito Mussolini. Fu estromesso dal Partito comunista, comprese che i regni del terrore erano sia a Est sia a Ovest. Alla fine si rispecchiò in una visione rossobruna».Oggi lei è un rossobruno?«Ma certamente. Ho un'indole totalitaria».Chi vota?«Nessuno. Ho avuto simpatie per Terza posizione (movimento neofascista eversivo degli anni Ottanta, ndr). Di sicuro non ho niente a che spartire con la gente dei centri sociali. Sottoscriverei le tesi del Congresso di Verona, sulla base delle quali fu fondata la Repubblica di Salò, non a caso scritte da Bombacci. Esclusa quella sull'antisemitismo».Lei passava dall'attività di glaciale «risolutore» a quella di poeta, pittore, professore all'Accademia di Belle arti di Urbino. Come ci riusciva?«Gli spazi tra missione e missione erano abbastanza lunghi. Quindi venivo facilmente riassorbito dalla vita comune. Ma indubbiamente in me c'era una componente schizoide».Non ha mai vacillato?«Durante la missione in Bosnia. Impiegammo 20 giorni per tornare alla base. Pensai: “Cazzo, sono qui con una scheggia in pancia e contemporaneamente sono professore a Urbino". Lì capii che c'era qualcosa che non andava».Lei crede in Dio?«Ci credo. Perché nel momento del bisogno, ho avuto una mano… E non era una mano umana».Gli omicidi li ha guidati la mano del diavolo?«No. La mano era quella di Gian Ruggero Manzoni».Quindi si assume tutta la responsabilità?«È inutile che stiamo qui a tirare in ballo il demonio».Confida nella redenzione?«È possibile, nella misura in cui si hanno il coraggio e la sincerità di raccontarsi per quello che si è».Cioè?«Ho ammazzato gente? Sì, non mi nascondo dietro a un dito. Quando andai a vuotare il sacco con i padri camaldolesi, la confessione verté su quanto fossi stato io a decidere di compiere certe azioni. Era troppo facile scaricare la colpa sul maligno. Quando ammisi che avevo voluto fare io quelle cose, che a volte ci avevo anche provato gusto, mi fu data l'assoluzione».Lei è un personaggio politicamente scorrettissimo. Quelle donne che usava e abbandonava…«Ma di questo sono pentito. Specie dopo aver “seccato" il tipo che stava stuprando quella ragazza nella ex Jugoslavia… Non ho mai abusato di una donna, chiaramente. Ma da allora ho compreso quanto fosse sbagliato usarle».Sua figlia conosce la sua storia?«Non ha ancora voluto leggere il libro di Giannubilo. Sa che sono stato in zone di guerra, le ho spiegato pure che ho ucciso persone a distanza ravvicinata».Quanti anni ha?«Ne compie 24 a ottobre».Sono costretto a chiederle una cosa.«Prego».Secondo un giornalista di Repubblica, i Servizi non hanno il suo nome in archivio…«A parte che non credo che lui li abbia interpellati veramente. Ma se anche fosse, è ovvio che la risposta dei Servizi sia sempre quella: “A noi non risulta"».Quindi mi assicura che è tutto vero.«Certo. Se ne parla da mesi. Se avessi raccontato balle, Giannubilo e io saremmo già morti…».