2019-02-03
Prima tolgono i soldi al governo. Poi piangono perché non spende
Durante la trattativa con l'Ue sul 2,4%, Carlo Calenda parlava di «rischio enorme» e «manovra truffaldina». E Vincenzo Boccia chiedeva correttivi. Ora, con l'Europa in frenata, invocano più investimenti e spesa. Vergogna Ue: accusa i gialloblù della crisi, dopo aver tolto loro i soldi.Se non fosse che siamo già a febbraio, le dichiarazioni a intermittenza sulla manovra economica da parte di opposizioni e corpi intermedi si potrebbero paragonare alle luci che decorano l'albero di Natale. Come dimenticare, infatti, la levata pressoché unanime di scudi nei confronti della legge di Bilancio, giudicata da subito troppo espansiva? Sul tavolo, l'accusa al governo gialloblù di avere osato fissare al 2,4% il rapporto deficit/Pil nella Bozza programmatica di bilancio inviata a Bruxelles lo scorso ottobre. Un affronto imperdonabile, seguito da una lunga trattativa con la Commissione europea a suon di minacce, che ha portato infine a ridurre il tetto di spesa al 2,04%. Totalmente inutili gli sforzi del governo per convincere gli interlocutori della necessità di strappare sul deficit per riaccendere la miccia della crescita. Ospite di Confindustria lo scorso ottobre, il ministro degli Affari europei, Paolo Savona, provava a convincere la platea spiegando che il debito pubblico italiano è «assolutamente solvibile» e che l'unica strada per evitare una nuova contrazione sarebbe stata la «riattivazione degli investimenti». Parole al vento: secondo i detrattori, infatti, il nostro Paese non si poteva permettere un deficit così alto. All'indomani della diffusione delle stime da parte dell'Istat sull'andamento del Pil nel quarto trimestre, con l'ingresso dell'Italia nella recessione tecnica, il discorso è mutato radicalmente. Prendiamo, ad esempio, Carlo Calenda, oggi leader del contenitore «Siamo europei». Nel corso di un'intervista rilasciata ad Avvenire, l'ex attore bambino parlava di «gigantesco rischio di natura istituzionale e finanziaria», ricordando come «l'Europa ci aveva concesso di spingerci all'1,6% nonostante il nostro impegno di fermarci allo 0,8. E invece il rapporto deficit/Pil è volato al 2,4. E non è finita. Il governo deve trovare altri 13 miliardi e alla fine si sfiorerà il tetto del 3%». In sintesi, per usare un'espressione usata dall'ex ministro dello Sviluppo economico, «questo governo sta forzando i limiti». Parlando al Foglio, Calenda rincarava la dose, definendo la manovra «truffaldina e ingiusta», oltre che «iniqua e vagamente immorale». Basta fare un salto temporale di appena tre mesi e la musica cambia del tutto. Giovedì scorso, a seguito della diffusione dei numeri sulla crescita, Calenda scrive su Twitter: «Siamo in recessione. L'opposizione deve rifuggire dalla tentazione dei “pop corn". La recessione la pagano i più deboli. Prepariamo una proposta unitaria delle opposizioni per una correzione espansiva della manovra. Chiediamo un incontro al governo. L'Italia non è in sicurezza». Ma come? Prima dell'inverno il pericolo era rappresentato dallo sforamento del deficit, e ora uno dei possibili leader del centrosinistra auspica di schiacciare l'acceleratore sulla spesa pubblica? Viene da chiedersi, ma forse è solo una nostra fantasia, se il voltafaccia abbia a che fare con le imminenti elezioni europee. Che dire poi di Confindustria e del suo numero uno, Vincenzo Boccia? Dopo il declassamento da parte di Moody's e la minaccia dell'apertura della procedura d'infrazione, Boccia esortava il governo a «correggere la manovra» e ridurre la percentuale del deficit, di fatto strizzando l'occhio a Juncker e soci, impegnati in un incessante pressing nei confronti del governo. Critiche che provocarono la stizzita reazione da parte di Matteo Salvini: «C'è qualcuno che è stato zitto per anni quando gli italiani, gli imprenditori e gli artigiani venivano massacrati. Ora ci lasciassero lavorare e l'Italia sarà molto migliore di come l'abbiamo trovata». Più moderato, ma non per questo meno incisivo il ministro dell'Economia, Giovanni Tria, che a ottobre rassicurava Confindustria sul fatto che quella messa in atto dal governo non fosse «finanza allegra». Ebbene, venerdì lo stesso Boccia parlava di «reagire subito», invitando a «prendere atto della nuova fase e costruire delle dimensioni compensative della manovra economica». La soluzione? Secondo il leader degli industriali il governo deve «fare propria l'idea di aprire i cantieri» delle grandi opere. La stessa posizione di Tria («bisogna muoversi per investire di più»), peccato che tutta la dialettica di questi mesi si sia basata proprio sull'opposto versante, puntando a legare mani e piedi al governo sul versante della spesa. Un altro che invoca l'apertura dei cantieri è l'ex premier Matteo Renzi, che sbraitando dalle stanze del Senato nella sua striscia «60 secondi», ha chiesto di sbloccare «i cantieri della Tav, delle infrastrutture, degli aeroporti, del passante di Bologna», concludendo che «servono i cantieri per far salire il Pil!». Si tratterà dello stesso Renzi che qualche mese fa diceva peste e corna della manovra del governo? Un atteggiamento «scarsamente credibile», a detta di un altro ex premier, Mario Monti, dal momento che «Renzi aveva proposto per i successivi tre anni il 2,9% di disavanzo». La perla più bella è del vicepresidente della Commissione europea, il lettone Valdis Dombrovskis. Intervistato da Repubblica, l'euroburocrate ha dato la colpa della recessione al governo. «Come temevamo», ha spiegato, «l'impatto dell'incertezza delle politiche economiche sulla fiducia delle imprese e sulle condizioni finanziarie sta diventando rapidamente visibile». Dopo aver obbligato l'esecutivo a castrare la manovra, oggi Bruxelles scarica sul governo Conte la responsabilità della mancata crescita. Insomma, cornuti e mazziati.