2022-10-15
I sapori padani conquistarono anche Cesare
Gianni Brera (Getty Images)
Il libro «La pacciada» (l’abbuffata), scritto con Veronelli, è la guida in una terra, quella lombarda, che ha avuto in Gianni Brera un cantore. Perché «due millenni dopo non vi è traccia dei piatti di Lucullo e Trimalcione, ma gli asparagi sono ancora buon cibo».Accingersi a raccontare di Giuanbrerafucarlo è una sfida che porta ad intrecciare sostantivi e congiuntivi con rinnovata (e divertente) attenzione. Di lui ognuno può ricordarne qualcosa, ma a spicchi, posta la vulcanica ecletticità, di cui ha lasciato segni importanti in settori diversi. Orgoglioso padano dai natali pavesi in quel di San Zenone Po, divenuto milanese per adozione. Era destino che si occupasse di giornalismo sportivo, con aneddotica relativa. Il padre Carlo, sarto e barbiere, intuitene le doti lo manda al liceo in quel de Milan. Più che approfondire le consecutio di Cicerone frequenta le giovanili del Milan, dove si fa notare come promettente centromediano. Cartellino giallo in famiglia, con trasferimento, per non andare ai supplementari di maturità, a Pavia. Sarà forse per quello che il Gianni si avvicinerà ai colori nerazzurri, pur dichiarandosi genoano senza se e senza ma. Vuoi mai il conflitto d’interessi visto che, dopo una precoce milizia nel Guerin sportivo, era stato chiamato a Milano, redazione della Gazzetta rosa. Gli inizi alla Brera. Per consolarsi del Meazza mancato si era dedicato al tennis, ma alla vocazione non corrispose talento conseguente. Fu per questo che, in vista del primo incontro, quando il direttore gli chiese «come faccio a riconoscerla?», la risposta conseguente «sono con racchetta tennistica». A trentanni diventa il più giovane direttore di sempre. Uno stile ben descritto da Ferdinando Giannelli «correva di metafora in metafora come su una giostra impazzita», cui fa da spalla Massimo Raffaelli «uno stile che porta alla pienezza tridimensionale del racconto». Inizia a seguire Giri e Tour a pedali, oltre a campionati e coppe europee. Il narrare a nove colonne riesce meglio dopo aver esplorato tavole e ricette locali. Si sviluppa e consolida così anche l’altro Gianni Brera, quello che ha riassunto le sue epiche gesta caloriche nella sua bibbia golosa, La Pacciada, in combriccola con Luigi Veronelli. Pacciada sinonimo di lieta scorpacciata tra amici. Era inevitabile che i due si incrociassero, padani entrambi, seppur di latitudini diverse, come sottolinea quello che forse è stato il suo miglior allievo, Gianni Mura. «Due apripista che, col machete di una cultura enorme al servizio di uno stile personalissimo, disboscavano luoghi comuni e servaggi antichi». Dalle memorie rimosse dei forzati digiuni della povertà rurale, il Paese avviato al boom economico si dilettava di piacione esibizioni in cui vi portavano al tavolo tris di incerta virtù, confondendo così storie e tradizioni che rappresentano il vero valore aggiunto di un Bel Paese che può cambiare sfumature di ricette da campanile a campanile. L’invasione foresta di yankee burger e di turbantosi kebabbi era di là da venire, ma Brera aveva già le idee molto chiare. Era lombardo l’imprinting di molti piatti nordisti. D’ora in poi il racconto procederà idealmente a quattro mani, viste le numerose (e inevitabili) citazioni del Giuan nostro. Con una premessa che, seppur «il mio espanso addome di buon mangiatore e bevitore ricordi i panciuti e paciosi etruschi», quando Cesare tornò dalle Gallie con le sue esauste truppe trovò conforto negli sconosciuti (per loro) asparagi al burro che le generose famiglie lombarde offrivano loro. «Due millenni dopo non vi è traccia dei piatti di Lucullo e Trimalcione», ma gli asparagi sono buon cibo quotidiano che accompagna la primavera. Terre lombarde mai romanizzate perché dopo le scorribande dei barbari arrivò Alboino alla testa delle truppe longobarde. Anticipatore di un rinascimento anche a tavola. E così che nasce la bistecca, quella vera, «trancio di animale appena macellato come fanno i nomadi che si portano dietro la mandria o la catturano» posto che, per i locali, la dieta vaccina era di pura sopravvivenza. «Il bue lo si ammazzava quando l’aratro, per errore del bifolco, ne danneggiava inguaribilmente un garretto» e «la vaccina veniva macellata quando nessun toro avrebbe più avuto il coraggio di condividerne la discendenza». Passano i secoli, l’imprinting longobardo si assopisce ma non demorde, va oltre la pellagra e la polenta della culinaria trincea quotidiana, amorevolmente tenuto in vita e rinnovato secondo necessità dalle madri di famiglia. In questo Brera si differenzia da Pellegrino Artusi, testimone e notaio diligente della cucina borghese. Per chi aveva tacciato di abatino un mito quale Gianni Rivera ed esaltato rombo di tuono Gigi Riva la realtà era diversa «in Italia si compiono prodigi unicamente nella cucina modesta» perché «è qui che si riscoprono meraviglie del nostro rustico passato». Si parte, coerentemente, da Casa Brera con la zuppa alla pavese, una storia nella storia. Tradizione vuole che sia nata per necessità nel 1525 con il transalpino Francesco I sonoramente sconfitto dall’ispanico Carlo V. Vagabondando per la campagna bussò ad una rustica porta. Venne accolto con tutti gli onori e con quanto si aveva in casa. Brodo di carne, pane raffermo, un uovo a decorare il tutto con umile semplicità. Talmente conquistato che, anni dopo, ne fu lui stesso ambasciatore, nelle cucine di Versailles, facendo adottare a futura memoria questo piatto. Giuan rende onore con una piccola ode da lui stesso composta osservando con gli occhi di bimbo mamma Marietta. «Le mani di mia madre contadina commoventi. Un uovo appena cantato dal pollaio. I pollici affondano lievi a dividere il guscio. Cade una gran gemma d’oro fragile e pur compatta che l’albume difende. Sul pane si adagia come su un trono ad attutire la caduta una soffice coltre di formaggio artigliato dalla grattugia. La segue subito il brodo costellato di occhi discreti». Roba da far sedare l’acquolina conseguente passando subito ad altra ricetta. Ma poiché nemo profeta in patria, la cosa curiosa è che questo piatto era entrato nell’archeologia culinaria pavese, tanto da essere sparito dalla carta della ristorazione. Solo nel 2015, grazie alla meritoria opera di Gigi Rognoni, è stato inserito nell’elenco Pat (prodotti agroalimentari tradizionali) della regione lumbard. Dalla cascina alla risaia il passo è breve. E qui si aprono scenari senza confini. Testimone Carlo Passera. «Brera puntava i risotti come un bracco». Ne sa qualcosa Alfredo Valli, mitico mestolo del fu Gran San Bernardo. Qui Brera si rifugiava («vado da Fredei quando mi duole lo stomaco») con degni compagni di pacciada, da Peppino Prisco (il simbolo dell’Inter a trazione Helenio Herrera) a Beppe Viola. Una sera, sul fare della mezzanotte, dopo ripetute sfide a suon di scope di bastoni o denari, Brera lancia un accorato appello alle cucine, oramai chiuse. Era rimasto un tegame di risotto alla pavese (barbera, borlotti e salsiccia). L’aiuto Valli, Maurizio Ghiringhelli, gli dona nuova vita saltandolo in padella con un pò di burro. Ne esce una creatura croccante e saporita che passerà alla storia, assieme al nome del suo involontario padre putativo. Il bracco risaiolo aveva alcuni punti fermi, tra questi Marzia Orlandi, la regina dei risotti, in quel di Valle Lomellina «sacerdotessa scrupolosa di norme e principi». Poche regole, ma chiare. Il rito del risotto esige un tegame esclusivo, che non va usato neppure per le minestre. Va rugato con costanza. Tradotto: il cucchiaio di legno lo deve rimestare come un orologio, sicchè i chicchi abbiano tostatura omogenea e lo stesso dicasi per l’aggiunta del brodo (un mestolo alla volta), perché il riso non anneghi. Il formaggio va messo a metà cottura. È qui scatta il passo in più. Il formaggio tende a colare tra i chicchi e quindi a far crostone sul fondo. Quindi bisogna rugare più di prima. Cala il sipario a fuoco spento, con il coperchio a far frollare il tutto per qualche istante. Il resto è pacciada paradisiaca. E così sia.
Il valico di Rafah (Getty Images)
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