2021-12-18
La gricia e le sorelle: quando «du’ spaghi» non sono il solito cibo
La cacio e pepe vede il proprio albero genealogico evolversi con l’aggiunta del guanciale. Poi amatriciana e carbonara...La tradizione dei classici «du’ spaghi» alla romana è solo apparentemente minimalista, in realtà è un percorso da peccatori di gola impenitenti, con adeguata cilindrata gastrica. Tanto da far digerire … anche i rimbrotti della bilancia. Ci eravamo lasciati con la cacio e pepe, nonna di una triade (poco) virtuosa e (molto) golosa che vede il suo albero genealogico evolversi con la gricia e poi la nipote amatriciana. Qui la marcia in più viene data dal guanciale che va ad aggiungersi ai classici pepe e pecorino. Piatto della tradizione legata alla pastorizia, anche se all’inizio veniva usata la più semplice ricotta salata, in quanto il pecorino era pregiata fonte di reddito venduto ai mercati. Il guanciale, una volta ritagliato dal norcino, veniva appeso ad una pertica di legno e affinato al camino con legna di quercia, aromatizzato con salvia e rosmarino, poi lasciato asciugare alla brezza dei colli romani per qualche settimana. Una preparazione semplice ma da gestire nel rispetto della tradizione. Guanciale rosolato e poi tolto dalla padella (rigorosamente di ferro). Sul suo grasso vanno posti i rigatoni estratti dalla pentola con la schiumarola (una sorta di grande cucchiaio forato), senza scolarli. La mantecatura finale, con guanciale e pecorino, va rigorosamente eseguita lontano dalla fiamma. Sull’etimologia varie teorie. Nel rinascimento grici erano i panettieri originari dei Grigioni, come griscium era il grembiule da lavoro (di colore grigio) che identificava la corporazione dei panettieri. Forse perché regolarmente caratterizzata da spolverate bianche di farina per griscio si etichettava anche persona un po’ trasandata nell’abbigliamento posto che la vita di questi artigiani era confinata entro le loro botteghe. Successiva evoluzione alla triade golosa a base di pecorino arriva poi il pomodoro, ed ecco nascere i bucatini all’amatriciana. Qui si sono protratte, per generazioni, le battaglie di campanile. È vero che gli abitanti di Amatrice, sugli Appennini, rivendicano la primogenitura dei loro avi nella evoluzione ed assemblaggio dei vari ingredienti, come è vero che se loro l’amatriciana se la pappano con gli spaghetti, a Roma preferiscono i bucatini e i puristi di papilla preferiscono ordinare nelle osterie di Trastevere la matriciana. L’evoluzione legata all’uso del pomodoro. Non uno qualsiasi, ma il ghiotto casalino che si coltivava tra le vigne. Di maturazione precoce non interferiva con i tempi della vendemmia e quindi era un’ulteriore e preziosa fonte di introiti per le famiglie. A dire il vero, in queste curiose battaglie identitarie, la verità sta nel mezzo. Numerosi trattori romani, dopo l’unificazione, provenivano proprio da Amatrice e all’ombra del Colosseo avevano portato le loro tradizioni migliori tanto che, attorno alla centralissima piazza Navona, esisteva il vicolo dei Matriciani. Tradizione ricorda una madrina, ambasciatrice dell’amatriciana nella capitale, Anna De Angelis, giunta con la sua mappatella (una sorta di zainetto) nei pressi della stazione ferroviaria. Questo suo piatto prese presto piede e gradimento crescente, tanto da diffondersi nelle varie trattorie dei quartieri. Rimane agli atti una lettera scritta da Luigi Carnacina a Luigi Veronelli. «Qui abbiamo un piatto ricco di sostanza inventato dai pastori di Amatrice e importato nell’urbe». Dove aveva il suo banco da asporto la De Angelis è sorta una trattoria, ovviamente «la Matriciana», ora Locale Storico d’Italia, gestito dalla famiglia Crisciotti, che mantiene la tradizione. Qualcuno l’aveva definita il piatto delle 5P (pasta, pancetta, pomodoro, peperoncino, pecorino) cui lestamente Aldo Fabrizi aggiunse la sesta P, ovvero panza. Ma è Luigi Carnacina a stabilire le regole finali nella diatriba tra pancetta e guanciale. «Il guanciale ha carne soda, sotto i denti sfrigola e si spezzetta. La pancetta è molle, si stira e quindi è gommosa». A buon intenditor. Con una ulteriore postilla, tanto per marcare la differenza. Mentre ad Amatrice si accontentano del guanciale a fare un quarto del condimento a Roma si raddoppia. Metà è guanciale. Piatto evoluto con la modernità, tanto che la prima a descrivere la cucina romana, Ada Boni, nel 1927, inserisce nel ricettario la cipolla, regola diligentemente applicata da sempre da una delle storiche testimonial della cucina romana, Sora Lella, alias Elena Fabrizi, sorella di Aldo e resa famosa da Maurizio Costanzo nei suoi salotti televisivi. Il notaio poeta Mauro Marè rende l’onore artistico con «melodia der bucatino», esaltato dal goloso abbinamento. «Si la succhiata è giusta, er bucatino va in bocca e te dà gioia, drento er petto, e la forchetta diventa ’n archetto e li spaghetti corde di violino». Robe da commuovere Nicolò Paganini. Amatriciana cui rende l’onore della settima arte Alberto Sordi in Un tassinaro a New York. Quando i doganieri arricciano il naso vedendo quanto si è messo in valigia, alla spiegazione che vuole festeggiare la laurea del figlio nella Grande Mela con una bella matriciana, semaforo verde con acquolina conseguente. Nel dopoguerra è la volta della carbonara. Frutto di una contaminazione yankee su cui ha ben indagato Igles Corelli, cuoco di talento e ricercatore instancabile delle radici legate alla tradizione. Renato Gualandi era un giovane cuoco di origine romagnola. Prestò servizio sotto le armi a Roma, al tempo dell’arrivo dei liberatori made in Usa. Chiamato a gestire la cena di due generali alleati, americano e inglese, che gli chiesero di inventarsi qualcosa, fece un pdf della dispensa (nel linguaggio pretecnologico equivalente a pulizia del frigorifero, senza se e senza ma). Aggiunse a quanto recuperato gli ingredienti forniti dai due militari, bacon e uova in polvere. Nasce così il primo prototipo della carbonara che poi si affinerà di una evoluzione intrigante, tanto da risultare il piatto italiano più taroccato all’estero. A conferma il fatto che la prima traccia scritta è firmata da Patricia Bronte Vittles, nel 1952, recensendo per la Guida ai Ristoranti di Chicago un piatto che la conquistò da Armando’s, ovviamente gestito da italoamericani. Carbonara su cui si sono sprecate le diverse interpretazioni, tanto da spingere Marco Mascioli a mettere nero su bianco dieci regole ben chiare, a prova di tarocco. «Usa sempre er guanciale. Si volevamo er bacon annavamo in America. Niente parmigiano, solo pecorino. Chi dice metà e metà c’ha quarcosa da nasconne. Niente ajo e niente cipolla, Nun stai a fa er ragù. Né ojo, né buro, né struto. Hai da fa spurgà er guanciale. Niente peperoncino. In Calabria ce vai st’estate». Più chiaro di così. Ma la Roma in pasta non si ferma certo qui. Che dire della pajata? Piccole ciambelline di intestino tenue di vitello rigorosamente alimentato dal latte materno, spadellate con i rigatoni. Nato dall’esigenza degli scortichini (i lavoranti dei mattatoi al Testaccio) che, pagati anche in natura, ovviamente povera, le frattaglie, dovevano far di necessità virtù. Negli anni del boom economico prendono piede gli spaghetti all’arrabbiata, detti così unicamente perché l’abbondante uso di peperoncino faceva arrossire i volti dei palati golosi. E dato che siamo sui titoli di coda come non citare gli spaghetti ajo e ojo, il classico piatto di mezzanotte. Gli dedica l’omaggio della staffa Aldo Fabrizi che, tornato con la consorte da una cena dove il birignao era prevalso sulla sostanza, la guarda negli occhi e le sussurra «dù avvolgibbili… a la lesta!», mimando con due dita l’infilarsi nella chiave della serratura, a imitare forchetta e spaghi complici. «Un piatto che te fa tornà er soriso, ch’è mejo si magnato co l’amici, venuti a mezzanotte o a l’improviso».