Nel giorno dedicato alle vittime della pandemia, altre rivelazioni dall’inchiesta. La linea dura dei lockdown «disperati» è arrivata dopo intere settimane (da fine 2019) in cui gli ospedali, soprattutto lombardi, segnalavano polmoniti anomale. Ma finché non è stato «ufficializzato» il Covid, non si è fatto nulla. Al ministero non erano neppure in grado di raccogliere i dati dei ricoveri.
Nel giorno dedicato alle vittime della pandemia, altre rivelazioni dall’inchiesta. La linea dura dei lockdown «disperati» è arrivata dopo intere settimane (da fine 2019) in cui gli ospedali, soprattutto lombardi, segnalavano polmoniti anomale. Ma finché non è stato «ufficializzato» il Covid, non si è fatto nulla. Al ministero non erano neppure in grado di raccogliere i dati dei ricoveri.Altro che zona rossa. Altro che più chiusure. Per salvare vite, prima che il Covid diventasse un’emergenza ingestibile, sarebbe bastato che al ministero drizzassero le antenne, osservassero i dati e magari leggessero qualche giornale. I funzionari che circondavano Roberto Speranza si sarebbero accorti, ad esempio, che mentre dalla Cina arrivavano ancora notizie frammentarie su una malattia respiratoria sconosciuta e molto contagiosa, in Italia, specialmente in Lombardia, già negli ultimi mesi del 2019 stava succedendo qualcosa di strano: gli ospedali si riempivano di pazienti colpiti da polmoniti. L’anomalia avrebbe dovuto far suonare un campanellino: si sarebbe dovuto attivare il piano pandemico (benché non aggiornato), si sarebbe dovuto fare una cernita dei dispositivi di protezione, dei respiratori, del personale e dei posti letto disponibili e ci si sarebbe dovuti attivare per procurare ciò che mancava. Invece, in Lungotevere Ripa hanno dormito tutti. E quando l’onda ha travolto l’Italia, era troppo tardi. Roberto Speranza, Giuseppe Conte e compagnia si sono rifugiati nella mossa di «cieca disperazione»: i lockdown. Sono le dichiarazioni rilasciate ai magistrati di Bergamo dall’ex viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri - e le carte dell’inchiesta - a gettare una luce sinistra sulla superficialità e le sottovalutazioni tra i dirigenti del dicastero. Il 26 febbraio 2020, l’esponente pentastellato, che è stato due volte a Wuhan, tramite la sua segreteria, fa pervenire all’Ufficio prevenzione di Francesco Maraglino una richiesta precisa: quella «di poter disporre dei dati relativi al numero di ricoveri a seguito di polmoniti nelle regioni indicate per i mesi di gennaio e febbraio 2020». A Roma cincischiano. Intanto, Sileri - come da lui raccontato alla Verità - già da fine gennaio aveva cominciato «a insistere per l’aumento del personale e per l’acquisto delle apparecchiature necessarie». Senza alcuna risposta. Il 9 marzo 2020, quando la serrata nazionale è già iniziata, il viceministro scrive al segretario generale del ministero, Giuseppe Ruocco, chiedendo i dati sulle polmoniti del 2019. Costui sollecita Maraglino con una mail a caratteri cubitali: «MANDATE QUEI DATI A SILERI!!!!!». Il 19 marzo, però, con il Paese ormai in ginocchio, Sileri e il suo staff scoprono che quei numeri non ci sono. Arriveranno soltanto il 23 maggio, quando si apprende che, comunque, mancava una panoramica completa per l’anno precedente «a causa», precisa Ruocco, «di ritardi dipendenti dai cambiamenti infrastrutturali dell’apparato di gestione dei flussi Nsis (Nuovo sistema informativo sanitario, la banca dati nazionale, ndr)».Al ministero, insomma, si sono fatti una bella dormita. Eppure, come emerge dalle carte dell’inchiesta, sui territori hanno già ben presente il problema delle infezioni sospette. La «Cronistoria» contenuta nell’informativa bergamasca parla di un «boom, non inosservato, di influenze e polmoniti» nel Basso Lodigiano, risalente a gennaio 2020. Certo, neppure le Regioni brillano per solerzia nelle segnalazioni. Quando ascoltano Pietro Imbrogno, ex dirigente dell’Ats Bergamo, gli inquirenti sottolineano che «nel solo Comune di Alzano - tra novembre 2019 e febbraio 2020», l’agenzia aveva rilevato «un aumento del 30% di polmoniti causate da “agente non specificato”». Imbrogno ribatte: «Come dipartimento non abbiamo saputo nulla di questo incremento, né dai medici di base e ospedalieri, né dal servizio epidemiologico di Ats». Il problema, secondo un altro funzionario, Alberto Zucchi, è che fino a maggio 2020 il servizio statistico può «esaminare i dati» solo con due mesi di ritardo. Ad ogni modo, per i solerti uomini di Speranza sarebbe stato sufficiente andare in edicola. Nel libro La grande inchiesta di «Report» sulla pandemia, Cataldo Ciccolella e Giulio Valesini raccolgono una serie di articoli dedicati alle anomalie nell’epidemia influenzale a cavallo tra 2019 e 2020. Il 4 dicembre 2019, la Fondazione Veronesi parla di «influenza in anticipo», con «quasi 800.000 italiani» colpiti. Il 30 dicembre, La Libertà, quotidiano piacentino, annota: «Pronto soccorso: oltre 40 casi di polmonite nell’ultima settimana». A gennaio, si sveglia persino il Corriere della Sera: «Polmonite, picco di casi a Milano: può derivare», ipotizza il giornale di via Solferino, ancora ignaro del Covid, «da un’influenza trascurata». Milano Today, il 7 gennaio, informa dei «pronto soccorso in allerta a Milano». Il Corriere di Como, il 14, segnala proprio «ospedali super affollati» per «polmoniti e complicanze respiratorie». Dunque, non è vero che il personale sanitario non si sta accorgendo di nulla. Sono i burocrati, semmai, quelli in letargo. Ed è chiaro che il rapporto causa-effetto, nella pandemia di Covid, è l’opposto di quello di cui il governo Conte prova a convincerci: l’intasamento delle corsie non è causato dai «furbetti» che provano a sottrarsi alle restrizioni. I nosocomi sono già strapieni da settimane. A Roma non se n’è reso conto nessuno: la raccolta e l’elaborazione delle statistiche è lenta, l’allarme non scatta, il piano pandemico, menzionato en passant nella task force di Speranza da Giuseppe Ippolito, dello Spallanzani, rimane nel cassetto. I numeri, però, parlano chiaro. Solo le dimissioni per polmonite, bronchite e insufficienza polmonare o respiratoria, in Lombardia, passano dalle 52.767 del 2018 alle 54.764 del 2019, con un aumento marcato a dicembre. Per l’ennesima volta, ciò che emerge dalle carte della Procura di Bergamo (purtroppo) conferma ciò che da tempo sosteniamo. E cioè che la vera emergenza abbia sempre riguardato la tenuta del sistema sanitario. La contraddizione, del resto, è evidente. I reparti erano già in difficoltà nel 2019, gli allarmi dei medici arrivavano già in quei giorni, eppure nessuno se li filava, come del resto i politici non hanno mai considerato più di tanto le segnalazioni che arrivavano negli anni precedenti, quando a causare problemi era addirittura l’influenza. Quando è esplosa la psicosi sanitaria - e la politica ha trovato il modo di utilizzarla a suo vantaggio - ecco che ogni fiato proveniente dalla classe medica si trasformava in una ottima motivazione per invocare più chiusure. Di più: si incolpava la popolazione (accusata di tenere comportamenti sbagliati) di provocare il collasso delle strutture ospedaliere. Le stesse che i dirigenti ministeriali e regionali avrebbero dovuto preoccuparsi di ampliare e rafforzare prima, e che invece sono state vittima di continue sforbiciate. I risultati li abbiamo potuti sperimentare tutti: i malati non hanno ricevuto cure e assistenze adeguate. Per limitare il numero dei decessi non serviva impedire alle persone di passeggiare all’aperto o mettere in campo l’apartheid vaccinale. Sarebbe stato indispensabile avere terapie intensive più fornite e più efficienti, disporre di più medici specializzati, cominciare prima a concentrarsi sulle terapie. Tutto questo non è stato fatto. Peggio: il ministero era talmente impreparato da non riuscire nemmeno a fornire dati credibili e tempestivi sul numero dei malati. E per coprire le proprie mancanze i responsabili hanno pensato bene di scaricare il pesante fardello sulle spalle della cittadinanza. E mentre il sistema affrontava un crollo più che annunciato, Speranza e la sua corte se ne andavano in giro a dichiarare di essere preparatissimi. Oddio, preparati in fondo lo erano: al fallimento totale.
Nel riquadro il console e direttore generale dell'ufficio di rappresentanza di Taipei in Italia, Riccardo Tsan-Nan Lin. Sullo sfondo l'edificio dell'Onu a New York (iStock)
Alla vigilia dell’Assemblea Onu, torna il tema dell’esclusione di Taiwan dalle Nazioni Unite e dalle agenzie specializzate. L’isola, attiva in economia, sanità e tecnologia, rivendica un ruolo nella comunità internazionale nonostante le pressioni cinesi. Pubblichiamo l'intervento di Riccardo Tsan-Nan Lin, console e direttore generale dell'ufficio di rappresentanza di Taipei in Italia.
Sapete che Taiwan, un Paese democratico e indipendente, una potenza economica mondiale, leader nella produzione di semiconduttori, nonché snodo fondamentale per l’aviazione civile e grande donatore di mascherine agli Stati in difficoltà durante l’emergenza Covid, è ancora esclusa dall’Onu e dalle sue agenzie specializzate come l’Icao e l’Oms?
L’80ª sessione annuale dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (UNGA 80) si aprirà a New York il 9 settembre 2025. Eppure, nonostante Taiwan abbia sempre avuto un ruolo attivo, contribuendo in modo significativo alla comunità internazionale con eccellenti risultati in diversi campi, la sua partecipazione agli incontri ufficiali dell’Organizzazione non è consentita per ragioni puramente politiche.
Il tema dell’imminente edizione dell’Assemblea Generale, «Insieme è meglio: 80 anni e oltre per la pace, lo sviluppo e i diritti umani», suona vuoto quando 23 milioni di taiwanesi vengono esclusi dall’ONU e dalle sue agenzie. Poiché il 2025 segna l’inizio del decisivo conto alla rovescia per la scadenza degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs), prevista per il 2030, l’inclusione di Taiwan è necessaria. La sua esclusione, infatti, contraddice lo spirito e mina i principi dell’Agenda 2030.
Questo isolamento forzato è parte di un problema più vasto, legato a una grave e dannosa distorsione della Risoluzione 2758 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite (UNGA). Tale travisamento non solo sottopone Taiwan alla coercizione cinese, che vuole affermare il proprio controllo sull’Isola, ma è anche diventato una seria minaccia allo status quo tra le due sponde dello Stretto e alla stabilità nella regione indo-pacifica.
La Risoluzione 2758 (XXVI) dell’UNGA, adottata nel 1971, affronta esclusivamente la questione della rappresentanza della Cina alle Nazioni Unite, ma non stabilisce che Taiwan sia parte della Repubblica Popolare Cinese (RPC), né conferisce a quest’ultima il diritto di rappresentarla. La Risoluzione non fa alcuna menzione di Taiwan e non costituisce quindi una posizione ufficiale delle Nazioni Unite sullo status politico del Paese. Pertanto, non riflette un consenso internazionale sul “principio di una sola Cina” sostenuto dalla RPC. Solo il governo di Taiwan, democraticamente eletto, può rappresentare i suoi abitanti nel sistema delle Nazioni Unite e sulla scena internazionale.
L’ONU dovrebbe permettere ai rappresentanti, ai giornalisti e ai cittadini taiwanesi l’accesso alle sue sedi e la partecipazione ai suoi incontri e conferenze. Essere membri delle Nazioni Unite è un diritto per tutte le nazioni amanti della pace, non un privilegio appannaggio di poche. Per tali ragioni, a nome del Governo di Taiwan, chiediamo con urgenza di porre fine alla distorsione della Risoluzione 2758.
Taiwan possiede un efficiente sistema sanitario e una tecnologia all’avanguardia, come dimostrato dalla sua leadership nell’intelligenza artificiale e nella produzione di chip, che possono dare un contributo concreto allo sviluppo e alla pace nel mondo. Perché, allora, persistere in questa esclusione, che non beneficia nessuno tranne Pechino?
Negli ultimi anni, il sostegno internazionale a favore di Taiwan è aumentato. In Italia, la Camera dei Deputati ha approvato diverse risoluzioni, auspicando la sua inclusione nelle organizzazioni internazionali e, nel marzo 2025, ha approvato il documento finale dell’indagine conoscitiva sull’Indo-Pacifico, ribadendo l’importanza dell’Isola per la stabilità nella regione indo-pacifica. Un simile orientamento è evidente in altri parlamenti e Paesi, tra cui l’Unione Europea, gli Stati Uniti, la Svezia, i Paesi Bassi, il Regno Unito, il Canada, il Belgio e la Repubblica Ceca, che hanno adottato risoluzioni affini, condannando le provocazioni militari della Cina e il suo abuso nell’interpretazione errata della Risoluzione.
Adesso, più che mai, lanciamo un appello all’Italia affinché appoggi con maggiore decisione l’ammissione di Taiwan alle Nazioni Unite e alle sue agenzie specializzate, in nome della pace, dello sviluppo e della prosperità globale, valori che accomunano entrambi i Paesi. Allo stesso tempo, invitiamo la comunità internazionale ad agire attivamente da contrappeso alle azioni coercitive della RPC e a unirsi per difendere l’ordine mondiale basato sulle regole, opponendosi alle dinamiche di un Paese non democratico e alle sue richieste irragionevoli.
Riccardo Tsan-Nan Lin, console e direttore generale ufficio di rappresentanza di Taipei in Italia
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