2019-01-11
Così gli antagonisti si addestrano alla guerra
L'intelligence segue con attenzione il fenomeno dei foreign fighters italiani provenienti dai centri sociali che vanno a combattere sui fronti caldi, dalla Siria al Donbass. Il timore è che possano importare anche in patria le tecniche apprese nelle trincee.Allo Stato Imperialista delle Multinazionali degli anni Settanta si è sostituito lo Stato Neofascista di oggi, ma i metodi e la dottrina sono quelli di un tempo: la lotta armata di matrice marxista-leninista.I cinque antagonisti di Torino indagati dalla Procura per i loro trascorsi in Medioriente, il geologo bergamasco morto per difendere il popolo curdo dall'Isis, l'inchiesta dei pm di Roma sui rapporti tra eversione rossa e i movimenti di resistenza nel Donbass raccontano una storia scritta su fogli antichi ma con inchiostri moderni. Rivelatrice degli scenari attuali in cui il comunismo combattente ha trovato le occasioni per misurarsi sul campo. Militarmente. Perché i vasi della disobbedienza sono comunicanti, in Italia e all'estero. E i nuovi «brigatisti», anche se non hanno nulla in comune con quelli degli anni di piombo, che viaggiano dalla Mezzaluna fertile al bacino del Donec sono la preoccupazione più martellante delle agenzie di intelligence e degli investigatori. Che temono l'applicazione, in casa nostra, delle tecniche terroristiche acquisite negli scontri con lo Stato Islamico e con i vari eserciti (regolari e non) affrontati in giro per il mondo.Nella capitale non si sa che fine abbia fatto il fascicolo sul gruppo di italiani andati a combattere per le Repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk, nella regione dell'Ucraina orientale che si è staccata dal governo centrale, filo-occidentale, con l'aiuto della confinante Russia. In quel territorio di fede socialista sono almeno tre le formazioni paramilitari antifasciste in cui confluiscono i volontari stranieri, anche nostri connazionali: la Brigata fantasma del commissario Alexey Markov, l'«Unità 404 dei comunisti combattenti» e l'InterUnit. Per l'ordinamento italiano, anche costoro sono foreign fighter alla stessa stregua di chi ha deciso di abbracciare la follia dell'Isis, e rischiano condanne fino a otto anni di carcere al ritorno in Italia. Non importa il colore politico, né la causa: chi ha combattuto all'estero in strutture terroristiche o con finalità di terrorismo, è passibile di detenzione. A Torino, invece, gli arresti non sono scattati perché manca la prova che i cinque giovani dei centri sociali finiti sott'inchiesta abbiano effettivamente imbracciato le armi. Ma si sono comunque «addestrati alla guerra», sostengono i pubblici ministeri Emilio Gatti ed Emanuela Pedrotta che per questo, nell'udienza del 23 gennaio prossimo, chiederanno al giudice due anni di sorveglianza speciale e il divieto di dimora nel capoluogo piemontese. I cinque sono Davide Grasso, Jacopo Bindi e Maria Edgarda Marcucci (appartenenti al centro sociale Askatasuna, imputati nel processo per la guerriglia contro l'alta velocità Torino-Lione); Fabrizio Maniero (del centro sociale Barocchio, di orientamento anarchico); e Paolo Andolina, anche lui anarchico. Quest'ultimo si trova ai domiciliari per aver violato l'obbligo di firma, a cui era sottoposto nell'ambito di un diverso filone per gli scontri davanti al carcere delle Vallette, per partire per la terza volta in Siria e prendere parte, con i battaglioni dell'Ypg, l'unità di protezione popolare curda attiva nel nord del Paese, al conflitto contro i tagliagole di Al Baghdadi. Poco prima di rimettere piede in Italia, Andolina (soprannominato Pachino perché originario della cittadina siciliana in provincia di Siracusa) aveva affidato al sito «Soccorso Rosso Internazionale» le ragioni che lo avevano spinto ad abbandonare la carriera di cuoco per sfidare la sharia. «Si sa la rivoluzione è bella, ma portarla avanti e sopratutto difenderla è molto difficile, e lo capisci quando la pratichi, perché in un mondo patriarcale, sessista, autoritario e gerarchico non è facile uscire da questi schemi, trasformare una società e soprattutto sé stessi», ha scritto. Aggiungendo di credere «nella libertà» e «nella lotta quotidiana», perché la «rivoluzione in primis dobbiamo sentirla dentro di noi». «Personalmente non voglio restare a guardare mentre tutto va a rotoli e voglio cercare il meglio intorno a me» come «già fanno tantissimi compagni e compagne che da anni in Italia, come in Europa, portano avanti lotte e resistenze, contro questo sistema che cerca di dominarci». La conclusione è più di un auspicio, è una constatazione: «La rivoluzione non deve essere un sogno, la rivoluzione per me è la realtà. Bella, difficile, faticosa ma piena di amore e gioie».Gli stessi sentimenti che hanno probabilmente ispirato, il 24 luglio scorso, il geologo bergamasco Giovanni Francesco Asperti a volare in Siria e a unirsi, anche lui, all'Ypg. Asperti (una moglie e due figli adolescenti, il papà è stato tra i fondatori del Manifesto con Lucio Magri, lo zio materno era un deputato del Pci di rito berlingueriano) è morto il 7 dicembre scorso in uno «sfortunato incidente». I familiari lo hanno appreso dal bollettino delle unità combattenti, e ora stanno cercando di ottenere la restituzione del corpo. Forse un sinistro stradale, o un incendio. Poco prima di lasciare l'Italia, Asperti aveva lasciato una lettera ai fratelli in cui annunciava: «Faccio conto di non tornare mai più, e non nel senso che vivrò là il resto dei miei giorni: nel senso che cercherò attivamente la morte liberatrice sul campo». La Procura e la Digos di Brescia si sono subito messi sulle tracce dei reclutatori che potrebbero aver agganciato, forse sul web, il geologo laureato alla Bocconi. L'altroieri, il giornalista di Repubblica Paolo Berizzi, cacciatore di fascisti in servizio permanente (persino in braghette di orbace sulle spiagge), ci ha però informati che Asperti era un «guerriero» e non un terrorista. Il cui nome di battaglia era Hiwa Bosco, ovvero: «speranza».
Emmanuel Macron (Getty Images). Nel riquadro Virginie Joron
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L'evento organizzato dal quotidiano La Verità per fare il punto sulle prospettive della transizione energetica. Sul palco con il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin, il ministro dell'Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, il presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana, il presidente di Ascopiave Nicola Cecconato, il direttore Ingegneria e realizzazione di Progetto Terna Maria Rosaria Guarniere, l'Head of Esg Stakeholders & Just Transition Enel Maria Cristina Papetti, il Group Head of Soutainability Business Integration Generali Leonardo Meoli, il Project Engineering Director Barilla Nicola Perizzolo, il Group Quality & Soutainability Director BF Spa Marzia Ravanelli, il direttore generale di Renexia Riccardo Toto e il presidente di Generalfinance, Boconi University Professor of Corporate Finance Maurizio Dallocchio.
Kim Jong-un (Getty Images)