2020-07-21
Cosa sono gli sconti fiscali che i Paesi frugali sfruttano per ricattarci sugli aiuti
Germania, Svezia e Paesi Bassi chiedono un aumento dei «rebate» di cui già godono e che erano invece destinati a ridursi, se non a scomparire, con il nuovo bilancio.Sconosciuti ai più e assenti dai trattati, i «rebate» - parola che nel vocabolario degli euroburocrati indica uno sconto sulla quota dovuta da un Paese membro per il bilancio Ue - rappresentano l'elefante nella stanza dell'estenuante negoziato in corso tra i leader europei. Un appuntamento volto a concretizzare, quasi sei mesi dopo la proclamazione da parte dell'Oms dello stato di emergenza globale, l'impegno economico dell'Ue in risposta alla pandemia. Nonostante facciano meno clamore mediatico rispetto al Recovery fund, i rebate sono altrettanto importanti perché assumono il ruolo di moneta di scambio tra il gruppo dei «frugali» - Paesi Bassi, Svezia, Danimarca e Austria - e quegli Stati, tra i quali l'Italia, interessati a garantirsi l'accesso agli aiuti. Prima di spiegare perché, vale la pena spendere due parole sul funzionamento di questo meccanismo. Ogni membro dell'Unione è tenuto a contribuire al bilancio settennale in proporzione al proprio prodotto interno lordo. Tuttavia, come stabilito nel corso del Consiglio europeo di Fontainebleau del giugno 1984, «ogni Stato che sostiene un peso eccessivo in termini di contributo al bilancio rispetto alla sua prosperità, potrà beneficiare di una correzione nei tempi stabiliti». Nonostante non siano regolamentati dai trattati, i rebate accompagnano ormai da decenni la storia dell'Unione. Essi nascono in risposta alle richieste dell'allora premier del Regno Unito, Margaret Thatcher, la quale si lamentava dell'eccessiva quota richiesta dal budget in relazione alle risorse destinate dall'Ue a favore del Regno Unito. La Lady di ferro puntò i piedi e proprio a seguito del Consiglio di Fontainebleau ottenne uno sconto pari al 66% del contributo netto annuale. Una mossa che valse a Londra, nel trentennio che va dal 1985 al 2014, un risparmio pari a 111 miliardi di euro. Tuttavia, accogliere le richieste della Thatcher significava generare un «buco» di bilancio che avrebbe dovuto essere ripianato. Gli altri Paesi furono chiamati così a farsi carico dell'ammanco di cassa provocato dallo sconto concesso al Regno Unito (cosiddetto «Uk rebate»). Non tutti, però, sono rimasti a guardare dalla finestra. Dal 1985 al 2001, infatti, la Germania ha pagato solo due terzi della quota del rebate del Regno Unito, mentre dal 2002 Austria, Svezia, Paesi Bassi e la stessa Germania hanno versato appena un quarto dell'Uk rebate. Finendo per dare vita letteralmente a uno «sconto sullo sconto». Non è tutto: nel budget 2007-2013, i quattro hanno beneficiato di aliquote ridotte (tra 0,1% e 0,225% rispetto al tasso standard dello 0,3%) sulla parte di bilancio da finanziare tramite l'Iva. Se dal 2014 l'Austria ha perso lo status privilegiato, dal canto loro Germania, Svezia e Paesi Bassi si sono assicurate per tutto il settennato in corso la metà dell'aliquota standard. Nel periodo che va dal 2014 al 2020, inoltre, Danimarca, Svezia e Paesi Bassi hanno goduto di un taglio forfetario sulla contribuzione al bilancio pari, rispettivamente, a 130, 695 e 185 milioni. Va annotata, infine, l'esistenza di un'ultima categoria di rebate, quella relativa all'esenzione dai costi amministrativi per le politiche di sicurezza e cittadinanza, della quale godono Danimarca e Irlanda (e Regno Unito, fino a quando faceva parte dell'Ue).Ovviamente, ogni euro risparmiato dagli Stati che beneficiano dei rebate è un euro buttato per tutti gli altri. Di conseguenza, a una combriccola di privilegiati corrisponde uno sfortunato drappello di Paesi cui tocca farsi carico delle mance concesse da Bruxelles. Secondo i calcoli di Zsolt Darvas, senior fellow presso il think tank economico Bruegel, ogni anno a pagare la parte più salata del conto sono Francia (2,1 miliardi di euro), Italia (1,54 miliardi), Spagna (1 miliardo), Polonia e Belgio (390 milioni ciascuno). Dall'altra parte della barricata, a leccarsi i baffi, nell'ordine: Regno Unito (5,1 miliardi), Paesi Bassi (919 milioni), Germania (747 milioni) e Svezia (321 milioni). E qua veniamo all'aspetto meramente politico della vicenda. Quando fu introdotto, il sistema degli sconti puntava a ridurre il dislivello tra percettori (cioè coloro che ricevono più di quanto versano) e, viceversa, contributori netti al bilancio dell'Unione europea. Per alcuni Paesi, tra cui il nostro, il rebate ha causato invece un allargamento di questa forbice. La relazione pubblicata nel 2018 dal gruppo di lavoro sulle risorse proprie dell'Ue, guidato da Mario Monti, ha inoltre messo in luce che le aliquote ridotte sull'Iva generano un effetto regressivo, cioè finiscono per avvantaggiare gli Stati ricchi e danneggiare quelli più poveri. «Se mi chiedessero quale Paese sopporti un onere di bilancio eccessivo in relazione alla sua prosperità», ha dichiarato Darvas, «probabilmente direi la Grecia o l'Italia, di certo non i sei che beneficiano degli sconti considerevoli». Veniamo ai giorni nostri. Nelle intenzioni espresse dalla Commissione lo scorso autunno, a seguito della Brexit, il nuovo bilancio 2021-27 avrebbe dovuto decretare la fine dell'intricato meccanismo dei rebate. Tuttavia, oggi più che mai, essi sono tornati ad animare il dibattito politico. Da un lato il novero dei Paesi interessati agli aiuti minaccia di mettere i bastoni tra le ruote al sistema degli sconti (la Francia avrebbe perfino chiesto di eliminarli), mentre d'altro canto i «frugali» si aspettano addirittura maggiori concessioni, in cambio dell'ok al Recovery fund. E così, anziché sparire, l'iniquo sistema dei rebate rischia di diventare l'ago della bilancia di una trattativa sulla quale si gioca il futuro dell'Ue.