
Negli ultimi anni la Consulta si è arrogata sempre più poteri che non le appartenevano, grazie a una lettura tendenziosa della Carta. Basterebbe inserire due nuovi commi, tuttavia, per poter tornare alla normalità.Inutile nascondersi dietro un dito. Il coltello dalla parte del manico, in generale e con specifico riferimento, nell’attualità, al decreto legge Sicurezza, ce l’ha la Corte costituzionale, grazie soprattutto alle tre armi delle quali essa si serve, costituite dagli artt. 3, 27 e 77 della Costituzione, non in forza, peraltro, di quanto tali articoli dicono effettivamente ma della particolare «lettura» che, ormai da lungo tempo, ne viene data dalla stessa Corte. In base, infatti, all’art. 3 - che, di per sé, per quanto qui interessa, si limita ad affermare il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge - la Corte si è arrogata il potere di sindacare, a sua totale discrezione, la «ragionevolezza» o meno, sotto i più svariati profili, delle norme di legge di volta in volta sottoposte al suo giudizio. In base al principio della finalità rieducativa della pena, affermato nel terzo comma dell’art. 27, la stessa Corte si è ritenuta legittimata a sindacare, sempre a sua totale discrezione, la sussistenza o meno del requisito della «proporzionalità» delle pene previste dalla legge per fatti costituenti reato, fino al punto di «inventarsi» letteralmente specifiche attenuanti per reati quali la rapina, l’estorsione, il sequestro di persona a scopo di estorsione e, da ultimo, la deturpazione o lo sfregio permanente, a correzione di quella che, a suo giudizio, sarebbe stata una eccessiva severità delle pene che per tali reati erano state stabilite dal legislatore. In base, infine, al secondo comma dell’art. 77, che subordina l’emanazione di decreti legge alla esistenza di condizioni di «straordinaria necessità ed urgenza», la Corte si è attribuita il potere, in caso di ritenuta assenza di tali condizioni, di dichiararne l’incostituzionalità pur quando siano stati ritualmente convertiti in legge dal Parlamento; organo, quest’ultimo, al quale, in realtà, dovrebbe ritenersi rimessa, in via esclusiva, la valutazione non solo della sussistenza o meno delle condizioni in questione, ma anche della rilevanza o meno della loro eventuale assenza, a fronte, in ipotesi, della riconosciuta preponderanza dell’interesse pubblico che, con l’intervento normativo, il governo abbia inteso perseguire. Facendo un uso sempre più disinvolto e ardito di tali armi, la Corte è progressivamente riuscita a occupare spazi che, in realtà le sarebbero dovuti rimanere del tutto preclusi, in quanto riservati esclusivamente al potere legislativo. E ciò in barba all’art. 28 della legge 11 marzo 1953 n. 87, recante «Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale», nel quale è testualmente stabilito che: «Il controllo di legittimità della Corte costituzionale su una legge o un atto avente forza di legge esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento». Ma questa norma è del tutto priva di sanzione, per cui la Corte ha tranquillamente potuto ignorarla ogni qual volta ha ritenuto conveniente farlo, superando, progressivamente, anche i limiti che essa stessa, in passato, si era autoimposta. Tra essi, in particolare, quello della cosiddetta «soluzione costituzionalmente obbligata», essendo la Corte giunta ad affermare, con la sentenza n. 99/2019 e numerose altre successive, che, qualora dalla ritenuta incostituzionalità di una norma di legge derivi un «vuoto normativo» che debba essere necessariamente riempito, essa stessa abbia il potere di creare, a tal fine, una nuova norma, operando a sua discrezione - cosa considerata, in precedenza, inammissibile - una scelta fra le varie soluzioni possibili, alla sola condizione (assai vaga e generica) che esse siano «costituzionalmente adeguate» e «si inseriscano nel tessuto normativo coerentemente con la logica perseguita dal legislatore». Il che equivale, in buona sostanza, a dire che la Corte può, qualora lo voglia, esercitare, in luogo del Parlamento, lo stesso potere discrezionale che, in linea di principio, dovrebbe essere proprio ed esclusivo di quest’ultimo. Si è, quindi, in presenza, ormai, di una grave alterazione degli equilibri costituzionali, conseguente, paradossalmente, dallo straripamento dai suoi poteri proprio da parte dell’organo - la Corte costituzionale - che era stato concepito per garantire quegli equilibri, come dimostrato dal fatto che, non a caso, ad esso è stato demandato, dall’art. 134 della Costituzione, anche il compito di risolvere i conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato. Essendo del tutto vano sperare che quello straripamento possa rientrare per effetto di un’autonoma decisione della Corte, occorre dunque porsi seriamente il problema di come ottenere il risultato in altro modo. E il modo, con ogni evidenza, non potrebbe trovarsi se non mettendo in conto la possibilità di interventi normativi a livello costituzionale (assai meno radicali, peraltro, di quelli già avviati dal governo con i progetti volti all’istituzione del «premierato» ed alla separazione delle carriere dei magistrati). Tali interventi potrebbero limitarsi, a ben vedere, a due soltanto. Il primo dovrebbe consistere nell’aggiunta, all’art. 77 della Costituzione, di un comma in cui si stabilisse che, una volta intervenuta la conversione in legge del decreto legge, fosse esclusa la possibilità di un qualsivoglia sindacato della Corte costituzionale circa l’originaria sussistenza, o meno, delle condizioni di straordinaria necessità ed urgenza; cosa che, del resto, fino ai primi anni ’90 del secolo scorso, era universalmente data per pacifica. Il secondo intervento dovrebbe consistere nel far seguire, all’ultimo comma dell’art. 137 della Costituzione, che stabilisce l’inoppugnabilità delle decisioni della Corte costituzionale, un ulteriore comma che preveda però la possibilità della loro sottoposizione a referendum popolare, previa deliberazione in tal senso da parte del Parlamento in seduta congiunta. Inutile dire che la proposta di tali modifiche incontrerebbe un’opposizione del tutto analoga, se non anche maggiore, di quella già incontrata dalle altre proposte di modifiche costituzionali avanzate in questa legislatura dall’attuale governo. Opposizione che, peraltro, si scioglierebbe come neve al sole a fronte dell’eventuale insorgere, nella sinistra, del timore che nella Corte costituzionale si formasse una maggioranza di giudici tendenzialmente favorevoli alla destra. Lo stesso timore che, nel corso dei lavori della Costituente, indusse Palmiro Togliatti (senza che egli, ovviamente, lo confessasse) ad opporsi decisamente alla creazione dell’istituto in discorso. Si tratta, però, di un’ipotesi, allo stato, del tutto irrealistica. La battaglia, quindi, se si decide di intraprenderla, dovrà essere combattuta e non è detto che la vittoria sarebbe impossibile.
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Mauro Micillo: «Le iniziative avviate dall’amministrazione americana in ambiti strategici come infrastrutture e intelligenza artificiale offrono nuove opportunità di investimento». Un ponte anche per il made in Italy.
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