2024-10-20
La Convenzione di Ginevra non dice che i respingimenti sono illegali
Il testo del 1951, agitato come feticcio dai movimenti immigrazionisti, tutela esplicitamente i rifugiati reali. Ma non vieta a uno Stato di fermare le ondate di presunti richiedenti asilo (in assenza di reali presupposti).Presidente di sezione emerito della Corte di cassazione C’è un perno intorno al quale ruota tutta la retorica posta a sostegno dell’immigrazionismo incontrollato. Esso è costituito dal principio del «non refoulement» (non respingimento) contenuto nell’articolo 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 sullo «status» dei rifugiati, in base al quale nessuno Stato contraente «espellerà o respingerà in alcun modo un rifugiato verso frontiere o territori in cui la sua vita o la sua libertà possano essere minacciate per via della sua razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un particolare gruppo sociale od opinione politica». Ciò ad eccezione del caso che vi siano «ragionevoli fondamenti per farlo ritenere un pericolo per la sicurezza del Paese in cui si trova» ovvero, «essendo stato definitivamente condannato per un delitto particolarmente grave, costituisca un pericolo per la comunità di quel paese». Nella sua originaria e più rigorosa interpretazione era pacifico che la norma operasse soltanto in favore di quanti avessero ottenuto il formale riconoscimento dello «status» di «rifugiato», dandosi per scontato che, nella normalità dei casi - in un ’epoca in cui anche in Europa esistevano rigidi controlli alla frontiera di ogni singolo Stato - essi avessero legalmente fatto ingresso nel territorio dello Stato al quale veniva poi richiesto il riconoscimento in questione. La Convenzione prevede, tuttavia, all’articolo 31, anche l’eventualità di un ingresso che si scopra avvenuto illegalmente, limitandosi, in tal caso, a stabilire che i richiedenti asilo, se provenienti direttamente da uno Stato nel quale la loro vita o la loro libertà siano minacciate, possano essere assoggettati alle necessarie «restrizioni» fino a quando non abbiano ottenuto la regolarizzazione del loro «status» ovvero il permesso di ingresso in un altro paese. Né da quelle ora citate né da altre norme della Convenzione si sarebbe potuta, però, in alcun modo desumere l’esistenza un divieto di respingimento alla frontiera di quanti avessero preteso di entrare, quale che fosse la loro provenienza, senza essere muniti di passaporto o altro titolo equipollente, solo adducendo o lasciando intendere di voler chiedere lo «status» di rifugiati. Questa disciplina non ha mai subito, formalmente, alcuna modifica. Ciò non ha impedito, però, che, negli ultimi decenni, soprattutto ad opera della Corte europea dei diritti dell’uomo e, sulla sua scia, di gran parte della dottrina giuridica (seguite, poi, dagli organi giurisdizionali ed amministrativi del nostro e di altri Paesi europei), il principio del «non respingimento» fosse reinterpretato in modo tale da dar luogo a conseguenze che non appare esagerato definire aberranti. Si è infatti ritenuto, sulla scorta di una sua disinvolta «rilettura», suggerita da ben precisi orientamenti ideologico-politici, che talune norme della Convenzione europea sui diritti dell’uomo - in particolare quella che vieta la tortura ed i trattamenti inumani o degradanti e quella che vieta le espulsioni collettive - siano da interpretare nel senso che ogni Stato contraente abbia l’obbligo di consentire l’ingresso, anche in massa, nel proprio territorio di quanti, senza averne titolo, vogliano accedervi, non potendosi mai escludere che anche solo alcuni di essi, indipendentemente dalla loro provenienza, siano intenzionati ad avanzare domanda di protezione internazionale contro il vero o presunto pericolo di subire, nei loro Paesi, pratiche qualificabili come torture o trattamenti inumani o degradanti. È questo, ad esempio, l’orientamento espresso dalla famosa sentenza della Corte europea Hirsi c. Italia, dell’anno 2012, con la quale venne ritenuto illegittimo il respingimento verso la Libia, in conformità di un accordo intervenuto con il governo libico, di un folto gruppo di «migranti» che, provenienti da quel Paese, erano stati intercettati in mare da una nave militare italiana. Ed analogo orientamento, nonostante la diversa decisione, appare quello espresso dalla sentenza della stessa Corte ND c. Spagna del 2020, con la quale il respingimento, ad opera delle forze di sicurezza spagnole, di alcune centinaia di soggetti che cercavano di superare a forza il confine terrestre fra il territorio marocchino e l’«enclave» spagnola di Melilla fu ritenuto legittimo sol perché era stato dimostrato che gli stessi soggetti avrebbero potuto presentare domanda di ammissione presso un apposito ufficio di confine o presso una qualsiasi sede diplomatica o consolare della Spagna. Dal che si dovrebbe desumere che, in assenza di analoghe condizioni, un Paese non potrebbe legittimamente respingere neppure coloro che, in massa, volessero penetrarvi a forza ma dovrebbe lasciarli entrare per quindi verificare, con riguardo a ciascuno di essi, se intenda presentare domanda di protezione internazionale e se la stessa sia o meno fondata. La palese assurdità di una tale conclusione dovrebbe bastare a dimostrare, al lume del semplice buon senso, l’insostenibilità della linea interpretativa della quale essa, peraltro, costituisce logica ed ineluttabile conseguenza. A ciò può tuttavia aggiungersi che, in primo luogo, la norma della Convenzione europea che vieta la tortura ed i trattamenti inumani o degradanti è stata concepita in funzione della sola esigenza che tali pratiche non trovino attuazione all’interno di alcuno degli Stati aderenti. Da essa, quindi, non può in alcun modo desumersi che il respingimento alla frontiera di chi abbia cercato di superarla illegalmente sia subordinato alla previa verifica - come, invece, oggi si pretende - che non vi sia, per lui, il rischio, anche solo ipotetico, di essere vittima di quelle pratiche nel luogo di provenienza. In secondo luogo, la ritenuta equiparabilità - secondo la citata sentenza Hirsi c. Italia - dei «respingimenti collettivi» alle «espulsioni collettive», vietate dalla Convenzione europea, cozza contro la evidente, radicale differenza tra la nozione di «espulsione» e quella di «respingimento», presupponendosi, nella prima, una qualche forma di previo radicamento del soggetto nel luogo dal quale lo si vorrebbe allontanare mentre, nella seconda, un tale presupposto è del tutto assente. Inutile dire che le considerazioni finora esposte, il cui autore è soltanto un «povero untorello» (copyright Alessandro Manzoni, capitolo 34 dei Promessi sposi), non potranno certo intaccare minimamente l’attuale, dominante interpretazione della norma sul «non respingimento», graniticamente sostenuta da pressoché tutti coloro che, a vario titolo, possono ritenersi «addetti ai lavori» in materia di immigrazione. Ma se è ancora valido l’antico detto secondo cui «gutta cavat lapidem» (la goccia scava la roccia) bisognerà pure che quella goccia qualcuno cominci a farla cadere, nella folle speranza che, col tempo, anche altri lo seguano ed il granito ne subisca gli effetti.
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