2024-10-09
Bene i conti pubblici ma l’economia vivacchia
I dati contrastanti diffusi negli ultimi giorni sono lo specchio di Italie diverse: in positivo banche e aziende d’eccellenza che puntano sull’export. In crisi le Pmi, anche per i bassi consumi interni. La strategia del governo: tagliare la spesa e attirare investimenti esteri. Ma alla fine l’economia italiana va bene o va male? È di fatto una delle domande più frequenti che molti contribuenti, lavoratori e pure pensionati si fanno di fronte al caffè espresso mattutino dopo aver letto o ascoltato le dichiarazioni dei ministri e gli articoli che riportano i dati contrastanti sul Pil, deficit, debito, export e consumi. Basti pensare che l’ultimo report di Bankitalia ha rivisto in negativo l’andamento del Pil di quest’anno. Così come l’Istat, l’istituto di statistica, poco tempo fa aveva rivisto i dati del Pil del 2022 e del 2023 evidenziando però al tempo stesso un miglioramento del rapporto tra Prodotto interno lordo e deficit. La risposta è che esistono tante Italie che si muovono in modo contrastante. Alcuni settori vanno molto bene, altri male o malino.Le Borse restano al top, il gettito cresce e i conti pubblici registrano costanti miglioramenti. Aumenta il surplus commerciale e cala il debito pubblico. Aumenta l’occupazione di lavoratori a tempo indeterminato (ottimo segno) ma non riesce a calare in modo sensibile la richiesta di cassa integrazione. Tutti trend contrastanti che confermano un po’ il ruolo dell’Italia all’interno dell’Europa come fosse la Cina di dieci anni fa. Poche aziende spingono l’export con prodotti di qualità, mentre lungo la Penisola i consumi non decollano in modo proporzionale per via degli stipendi bassi. Questa discrasia permette al Pil di salire trainato dal saldo netto della bilancia commerciale e dal calo delle importazioni. Il turismo continua a crescere e i servizi se la cavano benino. Al contrario la domanda interna non riesce a decollare, così le aziende quando possono bussano allo Stato e chiedono la cassa integrazione. Così aumenta sia il dato degli occupati sia quello di chi è messo in cassa (al di là dei numeri di agosto che sono contingenti). Si chiama, in gergo tecnico, frenata dell’input di lavoro. Tradotto? Quando c’era contrazione ed esisteva la lira Roma svalutava. Con l’euro le aziende si sono trovate a un bivio. Investire in macchinari iper innovativi (con costi ammortamento certi ma non più scansabili) o puntare su manodopera a basso costo e facilmente manovrabile mettendola in panchina. Ovviamente il discorso non vale per i campioni dell’export, ma per tutti coloro che hanno solo mercato interno. Non dimentichiamo che i tassi alti hanno contribuito a migliorare i rendimenti delle quotate in Borsa, in particolar modo delle banche, ma hanno anche imposto alle famiglie italiane l’erosione dei risparmi. Aprendo un circolo vizioso che rende gli italiani un po’ più poveri e le casse dello Stato più ricche. Si discute di tassare gli extraprofitti. Al di là del fatto che è un concetto che non esiste nel Codice civile, ma i risultati positivi del mondo finanziario hanno già garantito al governo notevoli entrate che spingono (assieme ai dati complessivamente positivi dell’occupazione) maggiori entrate. La sommatoria porta di fatto alla realtà duplice di questi momenti e al tentativo di spiegare la domanda di base. L’economia va male o va bene? Insomma, la finanza pubblica va bene, l’economia «lavicchia», parafrasando Totò in un celebre film. Non significa che galleggi, ma che si barcamena in mezzo all’evoluzione della società europea, all’invecchiamento della popolazione, alla concorrenza di Usa e Asia, a due guerre che si sommano agli scontri tra blocchi (Occidente ed ex Paesi emergenti) sul possesso o dominio delle materie prime. Non dimentichiamo che anche dopo il picco del 2022 i prezzi delle bollette italiane sono rimasti doppi rispetto al periodo pre Covid. Il che rende competitive solo le aziende eccellenti e le altre restano nel limbo. È chiaro che la strategia del governo è quella di mantenere la legge di bilancio 2025 nell’alveo di questo percorso. Conti sempre più in ordine, riduzione del deficit e del debito (i dati di luglio sono interessanti) sfruttando l’aumento del surplus. Ieri, il ministro Giancarlo Giorgetti è tornato sul tema. Ha spiegato che il piano strutturale è ambizioso ma realistico, rispondendo così a Bankitalia. Ha detto: «Gli interventi del piano sono finalizzati a migliorare la crescita del Paese». Per poi aggiungere che la trattativa con l’Ue per l’aggiustamento dei conti lungo il settennio è ancora in corso. Un chiaro esempio di spiegazione valida e buona per tutti. Sia per gli elettori sia per Bruxelles che alla fine avrà l’ultima parola sulla messa a terra del Patto di stabilità. Inutile dire che di fronte a un’Italia a due velocità ci sono problemi ma anche opportunità. Non a caso il governo punta ai mercati esteri. Punta a dimostrare di essere il più stabile del Vecchio continente (e questo è molto semplice, basta stare fermi e osservare i problemi francesi e tedeschi) e a mantenere i parametri fiscali più ottimali. In cambio chiede investimenti ai grandi fondi. Non è un caso la creazione della cabina di regia con il mega fondo Usa Blackrock. D’altronde gli asset, come si chiamano in gergo, italiani sono a prezzi scontati e i ritorni si presentano come importanti. Qui si tratta di una scommessa vera e propria. Far arrivare i grandi fondi per rinnovare la tecnologia dovrebbe portare nel medio termine quelle innovazioni che forse possono rialzare l’economia interna. E da lì colmare i vuoti dovuti al doppio binario di crescita. E quindi rialzare i consumi e il potere d’acquisto. Ovviamente tifiamo che avvenga. Sarebbe un beneficio per tutti. Consapevoli però che cambierebbe un po’ gli equilibri della finanza. Come la prenderebbe il mondo bancario del Nord? Si troverebbe ancora più distante da Roma e lontano dal governo. Ma questo è un altro tema. Soprattutto qualcosa che non interessa all’economia da bar, quella di chi si sveglia tutte le mattine per andare a timbrare il cartellino.