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2020-04-04
Conte giura di no. Ma l’Italia ha già dato l’ok all’uso del Mes
Giuseppe Conte (Ansa)
Ci risiamo. In occasione dell'Eurogruppo del 16 marzo avevamo ripreso per primi le indiscrezioni del Financial Times che riferiva di «alti funzionari del ministero dell'Economia» italiano al lavoro per rendere accettabile il Mes sia da parte dei Paesi beneficiari dei prestiti sia dai mercati. Ieri abbiamo nuovamente appreso che l'azione di tecnici privi di responsabilità politica, in preparazione dell'Eurogruppo di martedì 7, non è del tutto in linea con i desiderata del governo, almeno apparenti, e del Parlamento.
Da qualche giorno si è definitivamente chiarita la posizione politica del nostro esecutivo, con Giuseppe Conte che ieri, nella risposta alla lettera della presidente Ursula von der Leyen, ha ribadito che «alcune anticipazioni dei lavori tecnici che ho potuto visionare non sembrano affatto all'altezza del compito che la storia ci ha assegnato. Si continua a insistere nel ricorso a strumenti come il Mes che appaiono totalmente inadeguati rispetto agli scopi da perseguire».
In precedenza, il ministro Roberto Gualtieri aveva ribadito che era «illusorio pensare che il governo avrebbe ceduto e accettato alcuna condizionalità». Anche Luigi Di Maio era da tempo sulla stessa lunghezza d'onda, e perfino Massimo D'Alema ieri si è unito al coro di cui faceva parte da tempo anche Stefano Fassina.
Il tutto in stridente contrasto con quanto trapela da Bruxelles e dalle capitali europee. Il sempre ben introdotto Financial Times ieri mattina ha riferito che ci sono diverse proposte sul tavolo per sfruttare la capacità di prestito del Mes e della Bei, e che l'emissione di coronabond, tuttora avanzata dai Paesi del Sud, non è tra gli strumenti attivabili nel breve termine. Il presidente della Banca centrale finlandese ed ex Commissario Ue, Olli Rehn, ha confermato che «si andrà verso una soluzione di compromesso, che includerà prestiti e bilancio Ue».
Se tutto questo è vero, allora c'è un problema nella linea di comando che da Conte e Gualtieri scende fino ai funzionari del Tesoro che in queste ore stanno trattando per conto dell'Italia. E che ci fosse qualcosa che non quadrava lo si poteva già intuire dallo scontro verbale avvenuto qualche giorno fa al tavolo della cabina di regia per la crisi, tra il senatore Alberto Bagnai e Gualtieri stesso, quando il senatore aveva attaccato i «funzionari del Tesoro che vanno in Europa a svendere il popolo italiano» e il ministro aveva perso la pazienza: «Attacca me, attacca il governo, ma lascia stare i funzionari dello Stato». La veemente risposta aveva rivelato più di un nervo scoperto.
Ma la conferma di un inspiegabile scarto tra la linea politica asserita ai massimi livelli e la condotta concretamente messa in atto dai nostri funzionari è arrivata ieri con il quotidiano La Stampa, che riferiva come l'Eurogroup working group (organo che prepara le riunioni dell'Eurogruppo a cui partecipano alti funzionari dei ministeri economici) avesse redatto un documento per l'utilizzo dei prestiti del Mes in cui però non c'era traccia della sospensione della condizionalità e, tantomeno, dell'eliminazione della firma del protocollo d'intesa. Un Mes in purezza, insomma: e l'indice era puntato verso il direttore generale del Mef, Alessandro Rivera, incidentalmente anche membro del Board of directors del Mes stesso. Come se non bastasse, lungo l'intero pomeriggio di ieri fonti di agenzia riportavano che il «lavoro tecnico all'Euro working group sulla linea di credito a condizioni rafforzate (Eccl) del Mes ha fatto passi avanti sostanziali. Nessuno Stato membro si è opposto».
La reazione della politica non si è fatta attendere. Il deputato leghista Claudio Borghi ha scritto una durissima lettera all'indirizzo del presidente della Camera Roberto Fico, in cui rappresenta la «sincera preoccupazione per la grave condotta che il ministro dell'Economia, unitamente ai propri rappresentanti tecnici, sta perseguendo nelle sedi europee dove è in corso una fondamentale discussione circa [...] l'eventuale impiego di meccanismi di stabilizzazione finanziaria». Borghi invocava il rispetto dell'articolo 5 legge 234 del 2012, che impone lo svolgimento di procedure di consultazione e informazione delle Camere e richiede che la posizione negoziale dell'Italia in casi come questo debba tenere conto degli atti di indirizzo preventivamente adottati dalle Camere. Borghi concludeva invitando Fico a rappresentare a Conte tale esigenza di partecipazione parlamentare al «delicato processo e conformarsi al vincolo fiduciario con le Camere».
Si apre un enorme problema di metodo democratico, con Matteo Salvini che parla in serata di «crimine» con riferimento all'utilizzo del Mes. Un quadro in cui un organo tecnico del Mef, politicamente non responsabile, sta agendo in palese difformità rispetto alle indicazioni del governo, organo politico di riferimento. Inoltre, se possibile cosa ancora più grave, ciò avviene in totale spregio delle prerogative del Parlamento. Previste da una legge concepita alcuni anni fa proprio all'indomani della crisi del 2012, con la finalità di non far trovare l'organo legislativo di fronte al fatto compiuto delle decisioni dell'esecutivo in materia finanziaria.
La rigidità del Mes è nota, ed esplicitamente prevista nel Trattato sul funzionamento della Ue, prima ancora che nello specifico Trattato istitutivo. Quello che non è noto è come sia possibile trascinare da settimane una trattativa sotterranea in cui il governo, a parole, dichiara una linea, e i fatti invece ne raccontano un'altra.
A questo punto delle due, l'una: o c'è un funzionario infedele o c'è un governo che mente e sta prendendo delle decisioni senza avere la fiducia del Parlamento.
Nuovo siluro da Berlino: a maggio i giudici decidono sulla legittimità del Qe
«Ci sarà pure un giudice a Berlino». Non si sa con certezza se fu Bertolt Brecht a coniare questa frase, ma di sicuro è diventata proverbiale. E potrebbe rivelarsi più che mai azzeccata per il destino dell'intera eurozona. Proprio con un giudice tedesco, dalla Corte costituzionale di Karlsruhe potrebbe arrivare un colpo fortissimo al «grande sogno» europeo. La cosa paradossale è che il tratto tipico della giurisprudenza tedesca, tesa a difendere le prerogative della democrazia e degli interessi nazionali, viene proprio dal Paese della Merkel, quello che, più di ogni altro si è giovato degli effetti di una moneta tagliata su misura e condivisa con altri paesi «deboli».
Quindi, da un lato l'Italia, uno degli Stati più danneggiati dai parametri di Maastricht e di Lisbona si genuflette davanti alla Commissione e - pare - si appresta a pietire un contributo del Mes. Dall'altro lato i tedeschi si lamentano per i rischi che correrebbe la loro democrazia. Si trattasse solo di una questione accademica, potremmo relegarla a una faccenda di «spread» tra le diverse intellighenzie europee. In realtà c'è di più. I tedeschi intendono passare dalle parole, pur autorevoli, di uno dei loro più insigni giuristi ai fatti concretissimi di una sentenza della loro Corte costituzionale. Il 5 maggio prossimo venturo la Corte di Karlsruhe dovrebbe pronunciarsi in modo definitivo sulla legittimità giuridica del quantitative easing di Mario Draghi e, per estensione, sul bazooka appena sfoderato dopo gravissimi tentennamenti da Christine Lagarde.
Il verdetto era atteso per il 24 marzo, ma il coronavirus ci ha messo lo zampino procrastinando l'esito del procedimento per evidenti ragioni superiori di salute pubblica. Tuttavia, se il Covid-19 dovesse attenuare la sua morsa nel mese di aprile, a maggio potremmo anche assistere alla detonazione di un'arma giuridica «nucleare» nel cuore stesso della Ue, con effetti in tutti i Paesi membri.
Il supremo consesso giurisdizionale teutonico potrebbe dichiarare illegittimo il Qe per omesso rispetto del criterio del cosiddetto «capital key». In buona sostanza, è una regola in base alla quale l'Eurotower può acquistare debiti sovrani degli Stati membri, sui mercati secondari, solo in proporzione alla quota detenuta da ogni Paese nell'azionariato della Bce stessa.
In effetti, il nuovo piano annunciato dalla Lagarde rischia di far saltare definitivamente le proporzioni nell'acquisto dei titoli tra i vari Paesi dell'eurozona, a favore degli Stati meno resilienti alla crisi Covid-19, come l'Italia. E questa anomalia i tedeschi non sono disposti ad accettarla. Del resto, già una volta (correva l'anno 2013) la Corte di Karlsruhe aveva sollevato - davanti alla Corte di giustizia dell'Unione europea -la legittimità del ventilato (e mai attuato) Omt (Outright monetary transaction), altrimenti detto «scudo anti spread»; con quest'ultimo strumento si ipotizzava l'acquisto senza limiti di titoli del debito pubblico di Paesi dell'area euro in eccessiva difficoltà sui mercati secondari a fronte di dovute «condizionalità». In quella circostanza, la decisione della Corte con sede in Lussemburgo arrise alla Bce. E la stessa Corte di Karlsruhe, che si era riservata comunque l'ultima parola in proposito, nel giugno 2016 aveva dichiarato anch'essa legittimo l'Omt.
Ora il problema si ripresenta. La Corte tedesca torna a imputare agli gnomi di Francoforte di violare, di fatto, le regole europee che proibiscono gli aiuti agli Stati. Regole consolidate negli articoli 123, 124, 125, e 126 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e che sanciscono l'egoismo istituzionalizzato su cui si regge l'intera impalcatura dell'Unione.
A prescindere da questo, ciò che più importa sono le conseguenze - sul piano giuridico e istituzionale, ma anche monetario in senso stretto - di una decisione della Corte di Karlsruhe contraria al quantitative easing. Ciò implicherebbe per il membro in quota Germania, all'interno del board della Bce il dovere di ritirare il proprio appoggio all'operazione di alleggerimento quantitativo sui mercati secondari. Ne discenderebbe, altresì, l'impossibilità per la Bce di procedere con quello che, fino a oggi, si è rivelato l'unico «scudo» (benché fragile e provvisorio) contro l'implosione dell'unione monetaria e, quindi, della Ue. Tolto l'ombrello della Bce, infatti, a uno Stato come il nostro non resterebbe che l'ultima spiaggia del Mes. Ovviamente, con l'applicazione di tutte le condizionalità che hanno già messo in ginocchio la Grecia. E che metterebbero, una volta per tutte, una pietra tombale sulla già precaria possibilità di considerare ancora la Repubblica italiana alla stregua di uno Stato sovrano e indipendente.
www.avvocatocarraro.it
L’asse francotedesco ha preparato il piano per imporci le condizionalità
È in corso di confezionamento il «pacco» (più che il pacchetto) francotedesco, con Emmanuel Macron protagonista di una prevedibilissima mossa del cavallo: solo in prima battuta è stato alleato dell'Italia, ma poi si è impegnato a intestarsi la cosiddetta mediazione alla pari con Berlino. Esito a questo punto probabile: passa il «pacco»; un lavoro di cosmesi attenuerà - inizialmente - le condizionalità, che però potranno inevitabilmente spuntare in una fase successiva; e intanto, nella commedia comune, si consentirà anche ai commissariati (o ai commissariandi) italiani di simulare esultanza, come certamente si prepara a fare Giuseppe Conte. Nel frattempo, ci prendiamo l'ennesima umiliazione dal tutor e supervisore di Paolo Gentiloni, il solito cerbero lettone Valdis Dombrovskis, che alterna verso l'Italia carota (piccola) e bastone (nodoso).
Ma procediamo con ordine. L'agenzia tedesca Dpa ieri pomeriggio ha anticipato i termini dell'accordo verso cui potrebbe andare l'Eurogruppo di martedì 7, sulla base di un «approccio proposto da Germania e Francia» - scrive Dpa - e basato «su tre pilastri».
Primo punto: un fondo di garanzia istituito dalla Bei e indirizzato ad «aiutare le Pmi in crisi di liquidità con prestiti fino a 50 miliardi». L'esiguità della somma, considerando i 27 Paesi e il numero di imprese potenzialmente coinvolte, è evidente. La beffa è completata dal fatto che «agli Stati membri (la Bei conferma tutti e 27, ndr) potrebbe essere chiesto di finanziare il fondo per la parte eccedente il budget Ue». Secondo punto: il famoso Sure, definito da Dpa «uno strumento proposto dalla Commissione, del valore di 100 miliardi», per la cassa integrazione. Anche qui si tratta di un fondo, gli Stati dovrebbero garantire per 25 miliardi, e l'esito sarebbe comunque un prestito.
E al terzo punto ricompare il Mes, superficialmente oggetto di maquillage: la Dpa si limita a dire «che dovrebbe estendere una linea di credito per un valore fino al 2% del Pil degli Stati che vi fanno ricorso». Morale: l'Italia rischierebbe di farsi ingabbiare per una somma contenuta, i 36-38 miliardi previsti, non un euro di più.
Naturalmente, se questo fosse l'esito, lo spin di Palazzo Chigi e della stampa compiacente tenterà di attenuare il fattore della condizionalità, in particolare adducendo il fatto che al pacchetto aderiranno tutti. Peccato che però, in base ai trattati, chi è in condizioni più fragili di finanza pubblica possa subire un rafforzamento dei controlli e un appesantimento delle condizionalità, anche in seconda battuta.
Intanto, come il postino (e il destino) del romanzo di James M. Cain, anche Dombrovskis suona sempre due volte. Ieri mattina, su Repubblica, ha evocato, a proposito del Mes, «una qualche forma di condizionalità», definendola «legalmente necessaria»; ieri pomeriggio ha rincarato la dose in una live chat, dapprima ribadendo che il Mes va usato («a condizioni favorevoli»), e poi aggiungendo che, dopo l'emergenza, i governi devono prepararsi a far rientrare il deficit, di fatto facendo intendere che il Patto di stabilità, per ora sospeso, tornerà in vigore.
A Stefania Craxi non è sfuggito un passaggio, quello in cui il lettone parla della pandemia come «un pretesto per minare la legalità». Durissima la Craxi: «Le parole di Dombrovskis denotano l'ottusità e la sfrontatezza di certo europeismo di maniera che non conosce né buonsenso, né decenza, né tantomeno ha preso contezza dell'emergenza sanitaria, ancor prima che economica, in cui versano alcuni Paesi europei».
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Giuseppi si dice contrario, però i tecnici avrebbero autorizzato il Salvastati senza informare il Parlamento. Matteo Salvini: «Crimine»Sentenza attesa il 5. Se la Corte si pronuncerà contro il bazooka di Mario Draghi, salterà pure lo scudo appena lanciato da Christine LagardeVerrà discusso all'Eurogruppo di martedì. Valdis Dombrovskis: «Clausole necessarie» Catenaccio variabile 16 punti su cinque righe sbandierato a sinistraLo speciale contiene tre articoliCi risiamo. In occasione dell'Eurogruppo del 16 marzo avevamo ripreso per primi le indiscrezioni del Financial Times che riferiva di «alti funzionari del ministero dell'Economia» italiano al lavoro per rendere accettabile il Mes sia da parte dei Paesi beneficiari dei prestiti sia dai mercati. Ieri abbiamo nuovamente appreso che l'azione di tecnici privi di responsabilità politica, in preparazione dell'Eurogruppo di martedì 7, non è del tutto in linea con i desiderata del governo, almeno apparenti, e del Parlamento.Da qualche giorno si è definitivamente chiarita la posizione politica del nostro esecutivo, con Giuseppe Conte che ieri, nella risposta alla lettera della presidente Ursula von der Leyen, ha ribadito che «alcune anticipazioni dei lavori tecnici che ho potuto visionare non sembrano affatto all'altezza del compito che la storia ci ha assegnato. Si continua a insistere nel ricorso a strumenti come il Mes che appaiono totalmente inadeguati rispetto agli scopi da perseguire».In precedenza, il ministro Roberto Gualtieri aveva ribadito che era «illusorio pensare che il governo avrebbe ceduto e accettato alcuna condizionalità». Anche Luigi Di Maio era da tempo sulla stessa lunghezza d'onda, e perfino Massimo D'Alema ieri si è unito al coro di cui faceva parte da tempo anche Stefano Fassina.Il tutto in stridente contrasto con quanto trapela da Bruxelles e dalle capitali europee. Il sempre ben introdotto Financial Times ieri mattina ha riferito che ci sono diverse proposte sul tavolo per sfruttare la capacità di prestito del Mes e della Bei, e che l'emissione di coronabond, tuttora avanzata dai Paesi del Sud, non è tra gli strumenti attivabili nel breve termine. Il presidente della Banca centrale finlandese ed ex Commissario Ue, Olli Rehn, ha confermato che «si andrà verso una soluzione di compromesso, che includerà prestiti e bilancio Ue».Se tutto questo è vero, allora c'è un problema nella linea di comando che da Conte e Gualtieri scende fino ai funzionari del Tesoro che in queste ore stanno trattando per conto dell'Italia. E che ci fosse qualcosa che non quadrava lo si poteva già intuire dallo scontro verbale avvenuto qualche giorno fa al tavolo della cabina di regia per la crisi, tra il senatore Alberto Bagnai e Gualtieri stesso, quando il senatore aveva attaccato i «funzionari del Tesoro che vanno in Europa a svendere il popolo italiano» e il ministro aveva perso la pazienza: «Attacca me, attacca il governo, ma lascia stare i funzionari dello Stato». La veemente risposta aveva rivelato più di un nervo scoperto.Ma la conferma di un inspiegabile scarto tra la linea politica asserita ai massimi livelli e la condotta concretamente messa in atto dai nostri funzionari è arrivata ieri con il quotidiano La Stampa, che riferiva come l'Eurogroup working group (organo che prepara le riunioni dell'Eurogruppo a cui partecipano alti funzionari dei ministeri economici) avesse redatto un documento per l'utilizzo dei prestiti del Mes in cui però non c'era traccia della sospensione della condizionalità e, tantomeno, dell'eliminazione della firma del protocollo d'intesa. Un Mes in purezza, insomma: e l'indice era puntato verso il direttore generale del Mef, Alessandro Rivera, incidentalmente anche membro del Board of directors del Mes stesso. Come se non bastasse, lungo l'intero pomeriggio di ieri fonti di agenzia riportavano che il «lavoro tecnico all'Euro working group sulla linea di credito a condizioni rafforzate (Eccl) del Mes ha fatto passi avanti sostanziali. Nessuno Stato membro si è opposto».La reazione della politica non si è fatta attendere. Il deputato leghista Claudio Borghi ha scritto una durissima lettera all'indirizzo del presidente della Camera Roberto Fico, in cui rappresenta la «sincera preoccupazione per la grave condotta che il ministro dell'Economia, unitamente ai propri rappresentanti tecnici, sta perseguendo nelle sedi europee dove è in corso una fondamentale discussione circa [...] l'eventuale impiego di meccanismi di stabilizzazione finanziaria». Borghi invocava il rispetto dell'articolo 5 legge 234 del 2012, che impone lo svolgimento di procedure di consultazione e informazione delle Camere e richiede che la posizione negoziale dell'Italia in casi come questo debba tenere conto degli atti di indirizzo preventivamente adottati dalle Camere. Borghi concludeva invitando Fico a rappresentare a Conte tale esigenza di partecipazione parlamentare al «delicato processo e conformarsi al vincolo fiduciario con le Camere».Si apre un enorme problema di metodo democratico, con Matteo Salvini che parla in serata di «crimine» con riferimento all'utilizzo del Mes. Un quadro in cui un organo tecnico del Mef, politicamente non responsabile, sta agendo in palese difformità rispetto alle indicazioni del governo, organo politico di riferimento. Inoltre, se possibile cosa ancora più grave, ciò avviene in totale spregio delle prerogative del Parlamento. Previste da una legge concepita alcuni anni fa proprio all'indomani della crisi del 2012, con la finalità di non far trovare l'organo legislativo di fronte al fatto compiuto delle decisioni dell'esecutivo in materia finanziaria.La rigidità del Mes è nota, ed esplicitamente prevista nel Trattato sul funzionamento della Ue, prima ancora che nello specifico Trattato istitutivo. Quello che non è noto è come sia possibile trascinare da settimane una trattativa sotterranea in cui il governo, a parole, dichiara una linea, e i fatti invece ne raccontano un'altra.A questo punto delle due, l'una: o c'è un funzionario infedele o c'è un governo che mente e sta prendendo delle decisioni senza avere la fiducia del Parlamento.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/conte-giura-di-no-ma-litalia-ha-gia-dato-lok-alluso-del-mes-2645631047.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="nuovo-siluro-da-berlino-a-maggio-i-giudici-decidono-sulla-legittimita-del-qe" data-post-id="2645631047" data-published-at="1585943379" data-use-pagination="False"> Nuovo siluro da Berlino: a maggio i giudici decidono sulla legittimità del Qe «Ci sarà pure un giudice a Berlino». Non si sa con certezza se fu Bertolt Brecht a coniare questa frase, ma di sicuro è diventata proverbiale. E potrebbe rivelarsi più che mai azzeccata per il destino dell'intera eurozona. Proprio con un giudice tedesco, dalla Corte costituzionale di Karlsruhe potrebbe arrivare un colpo fortissimo al «grande sogno» europeo. La cosa paradossale è che il tratto tipico della giurisprudenza tedesca, tesa a difendere le prerogative della democrazia e degli interessi nazionali, viene proprio dal Paese della Merkel, quello che, più di ogni altro si è giovato degli effetti di una moneta tagliata su misura e condivisa con altri paesi «deboli». Quindi, da un lato l'Italia, uno degli Stati più danneggiati dai parametri di Maastricht e di Lisbona si genuflette davanti alla Commissione e - pare - si appresta a pietire un contributo del Mes. Dall'altro lato i tedeschi si lamentano per i rischi che correrebbe la loro democrazia. Si trattasse solo di una questione accademica, potremmo relegarla a una faccenda di «spread» tra le diverse intellighenzie europee. In realtà c'è di più. I tedeschi intendono passare dalle parole, pur autorevoli, di uno dei loro più insigni giuristi ai fatti concretissimi di una sentenza della loro Corte costituzionale. Il 5 maggio prossimo venturo la Corte di Karlsruhe dovrebbe pronunciarsi in modo definitivo sulla legittimità giuridica del quantitative easing di Mario Draghi e, per estensione, sul bazooka appena sfoderato dopo gravissimi tentennamenti da Christine Lagarde. Il verdetto era atteso per il 24 marzo, ma il coronavirus ci ha messo lo zampino procrastinando l'esito del procedimento per evidenti ragioni superiori di salute pubblica. Tuttavia, se il Covid-19 dovesse attenuare la sua morsa nel mese di aprile, a maggio potremmo anche assistere alla detonazione di un'arma giuridica «nucleare» nel cuore stesso della Ue, con effetti in tutti i Paesi membri. Il supremo consesso giurisdizionale teutonico potrebbe dichiarare illegittimo il Qe per omesso rispetto del criterio del cosiddetto «capital key». In buona sostanza, è una regola in base alla quale l'Eurotower può acquistare debiti sovrani degli Stati membri, sui mercati secondari, solo in proporzione alla quota detenuta da ogni Paese nell'azionariato della Bce stessa. In effetti, il nuovo piano annunciato dalla Lagarde rischia di far saltare definitivamente le proporzioni nell'acquisto dei titoli tra i vari Paesi dell'eurozona, a favore degli Stati meno resilienti alla crisi Covid-19, come l'Italia. E questa anomalia i tedeschi non sono disposti ad accettarla. Del resto, già una volta (correva l'anno 2013) la Corte di Karlsruhe aveva sollevato - davanti alla Corte di giustizia dell'Unione europea -la legittimità del ventilato (e mai attuato) Omt (Outright monetary transaction), altrimenti detto «scudo anti spread»; con quest'ultimo strumento si ipotizzava l'acquisto senza limiti di titoli del debito pubblico di Paesi dell'area euro in eccessiva difficoltà sui mercati secondari a fronte di dovute «condizionalità». In quella circostanza, la decisione della Corte con sede in Lussemburgo arrise alla Bce. E la stessa Corte di Karlsruhe, che si era riservata comunque l'ultima parola in proposito, nel giugno 2016 aveva dichiarato anch'essa legittimo l'Omt. Ora il problema si ripresenta. La Corte tedesca torna a imputare agli gnomi di Francoforte di violare, di fatto, le regole europee che proibiscono gli aiuti agli Stati. Regole consolidate negli articoli 123, 124, 125, e 126 del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea e che sanciscono l'egoismo istituzionalizzato su cui si regge l'intera impalcatura dell'Unione. A prescindere da questo, ciò che più importa sono le conseguenze - sul piano giuridico e istituzionale, ma anche monetario in senso stretto - di una decisione della Corte di Karlsruhe contraria al quantitative easing. Ciò implicherebbe per il membro in quota Germania, all'interno del board della Bce il dovere di ritirare il proprio appoggio all'operazione di alleggerimento quantitativo sui mercati secondari. Ne discenderebbe, altresì, l'impossibilità per la Bce di procedere con quello che, fino a oggi, si è rivelato l'unico «scudo» (benché fragile e provvisorio) contro l'implosione dell'unione monetaria e, quindi, della Ue. Tolto l'ombrello della Bce, infatti, a uno Stato come il nostro non resterebbe che l'ultima spiaggia del Mes. Ovviamente, con l'applicazione di tutte le condizionalità che hanno già messo in ginocchio la Grecia. E che metterebbero, una volta per tutte, una pietra tombale sulla già precaria possibilità di considerare ancora la Repubblica italiana alla stregua di uno Stato sovrano e indipendente. www.avvocatocarraro.it <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/conte-giura-di-no-ma-litalia-ha-gia-dato-lok-alluso-del-mes-2645631047.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="lasse-francotedesco-ha-preparato-il-piano-per-imporci-le-condizionalita" data-post-id="2645631047" data-published-at="1585943379" data-use-pagination="False"> L’asse francotedesco ha preparato il piano per imporci le condizionalità È in corso di confezionamento il «pacco» (più che il pacchetto) francotedesco, con Emmanuel Macron protagonista di una prevedibilissima mossa del cavallo: solo in prima battuta è stato alleato dell'Italia, ma poi si è impegnato a intestarsi la cosiddetta mediazione alla pari con Berlino. Esito a questo punto probabile: passa il «pacco»; un lavoro di cosmesi attenuerà - inizialmente - le condizionalità, che però potranno inevitabilmente spuntare in una fase successiva; e intanto, nella commedia comune, si consentirà anche ai commissariati (o ai commissariandi) italiani di simulare esultanza, come certamente si prepara a fare Giuseppe Conte. Nel frattempo, ci prendiamo l'ennesima umiliazione dal tutor e supervisore di Paolo Gentiloni, il solito cerbero lettone Valdis Dombrovskis, che alterna verso l'Italia carota (piccola) e bastone (nodoso). Ma procediamo con ordine. L'agenzia tedesca Dpa ieri pomeriggio ha anticipato i termini dell'accordo verso cui potrebbe andare l'Eurogruppo di martedì 7, sulla base di un «approccio proposto da Germania e Francia» - scrive Dpa - e basato «su tre pilastri». Primo punto: un fondo di garanzia istituito dalla Bei e indirizzato ad «aiutare le Pmi in crisi di liquidità con prestiti fino a 50 miliardi». L'esiguità della somma, considerando i 27 Paesi e il numero di imprese potenzialmente coinvolte, è evidente. La beffa è completata dal fatto che «agli Stati membri (la Bei conferma tutti e 27, ndr) potrebbe essere chiesto di finanziare il fondo per la parte eccedente il budget Ue». Secondo punto: il famoso Sure, definito da Dpa «uno strumento proposto dalla Commissione, del valore di 100 miliardi», per la cassa integrazione. Anche qui si tratta di un fondo, gli Stati dovrebbero garantire per 25 miliardi, e l'esito sarebbe comunque un prestito. E al terzo punto ricompare il Mes, superficialmente oggetto di maquillage: la Dpa si limita a dire «che dovrebbe estendere una linea di credito per un valore fino al 2% del Pil degli Stati che vi fanno ricorso». Morale: l'Italia rischierebbe di farsi ingabbiare per una somma contenuta, i 36-38 miliardi previsti, non un euro di più. Naturalmente, se questo fosse l'esito, lo spin di Palazzo Chigi e della stampa compiacente tenterà di attenuare il fattore della condizionalità, in particolare adducendo il fatto che al pacchetto aderiranno tutti. Peccato che però, in base ai trattati, chi è in condizioni più fragili di finanza pubblica possa subire un rafforzamento dei controlli e un appesantimento delle condizionalità, anche in seconda battuta. Intanto, come il postino (e il destino) del romanzo di James M. Cain, anche Dombrovskis suona sempre due volte. Ieri mattina, su Repubblica, ha evocato, a proposito del Mes, «una qualche forma di condizionalità», definendola «legalmente necessaria»; ieri pomeriggio ha rincarato la dose in una live chat, dapprima ribadendo che il Mes va usato («a condizioni favorevoli»), e poi aggiungendo che, dopo l'emergenza, i governi devono prepararsi a far rientrare il deficit, di fatto facendo intendere che il Patto di stabilità, per ora sospeso, tornerà in vigore. A Stefania Craxi non è sfuggito un passaggio, quello in cui il lettone parla della pandemia come «un pretesto per minare la legalità». Durissima la Craxi: «Le parole di Dombrovskis denotano l'ottusità e la sfrontatezza di certo europeismo di maniera che non conosce né buonsenso, né decenza, né tantomeno ha preso contezza dell'emergenza sanitaria, ancor prima che economica, in cui versano alcuni Paesi europei».
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Prima di essere lapidati da musicofili inflessibili o da fanatici ammiratori di Beethoven (lo siamo anche noi) lasciamo allo stesso Ludwig Vchean l’ultima parola sull’argomento: «Solo i puri di cuore», affermò il genio tedesco, «possono cucinare una buona zuppa». Capito? Il sommo compositore a tavola amava i piatti semplici e disprezzava quelli troppo complicati. Adorava la zuppa, soprattutto quella di pane e uova: era il suo piatto preferito insieme ai maccheroni con il formaggio. Era sordo, ma le papille gustative gli funzionavano alla grande.
Una vera e propria zuppa di verdure musicale la serve al pubblico un gruppo austriaco formato da musicisti, designer, scenografi, autori. Si chiama The Vegetable Orchestra, che usa le verdure come strumenti musicali: una carota intagliata in una certa maniera diventa un flauto, la zucca uno strumento di percussione, le melanzane diventano dopo un sapiente lavoro di intaglio delle nacchere, le zucchine strumenti a fiato e così via. Con questi strumenti suonano pezzi di jazz o di dub, un genere musicale che deriva dal reggae giamaicano, e altra musica. Finito il concerto, dopo gli applausi del pubblico stupito da tanta musica «verde», i musicisti si trasformano in cuochi, gettano gli strumenti in pentoloni e preparano una bella zuppa per il pubblico dopo aver lavato gli strumenti, soprattutto quelli a fiato.
La zuppa vanta una storia vecchia come l’homo sapiens. Fu uno dei primi piatti elaborati dai nostri cavernicoli progenitori centinaia di migliaia di anni fa. Gli studiosi del periodo paleolitico ci documentano che la scoperta dell’acqua calda e il suo impiego per cuocere verdure e altri cibi avvenne nell’età della pietra antica, in incavi di roccia pieni d’acqua nella quale gli uomini primitivi tuffavano pietre roventi per farla bollire. Fu così che nacquero i primi minestroni. La parola «zuppa» arriverà molti millenni dopo, ma sempre in tempi molto antichi rispetto a noi, mutuata dal termine germanico suppa che definiva la fetta di pane inzuppata. Il pane era nell’antichità il cucchiaio dei poveri, le dita della mano la forchetta. La «posateria» delle classi più umili era tutta lì. Una sorta di brodaglia nera molto spartana chiamata melas zomos, nera zuppa, fatta con sangue di porco, budella e vino era la zuppa dei duri soldati di Sparta. A loro, che non cercavano mollezze, piaceva così, brutta da vedere ma semplice e nutriente, adatta a sostenere il fisico durante le campagne militari. Spostandoci in altre parti dell’antica penisola ellenica troviamo una cucina meno rigorosa, ma sempre con un menu nel quale zuppe e piatti brodosi a base di verdure, cereali, erbe spontanee e legumi vari, abbondavano.
Cotture e metodi a parte, quelle preparazioni sono le bis-bis-bisnonne delle zuppe che mangiamo noi oggi fatte, come allora, con cereali tipo orzo e farro, o con legumi, ceci, lenticchie, fave. Borlotti e cannellini erano al di là dell’Atlantico che aspettavano di essere scoperti. Il Phaseolus vulgaris arriverà dopo i viaggi di Colombo e degli altri viaggiatori su caravelle dirette verso il Nuovo mondo. Dalla Grecia a Roma le zuppe sostanzialmente non cambiano: erano piatti che facevano parte della dieta quotidiana dei Romani. Fonti di proteine e nutrienti, erano il comfort food delle classi plebee e dei contadini. Tra le altre zuppe, i legionari amavano quella fatta con pane, aglio, olio e aceto. Furono loro a introdurla in Spagna dove si evolverà fino a diventare il moderno gazpacho, zuppa fredda che si arricchì dal Cinquecento in poi con il pomodoro e i peperoni venuti dall’America.
Una zuppa leggendaria è la soupe à la pavoise, la zuppa pavese, che ha trovato posto nei libri di storia gastronomica dove si racconta di Francesco I di Valois, re di Francia sconfitto e fatto prigioniero dagli spagnoli di Carlo V nella battaglia di Pavia del 24 febbraio 1525. L’accasciato François du grand nez, come lo chiamavano i suoi sudditi per via del nasone che gli troneggiava sopra la bocca, fu portato dai nemici vincitori in un cascinale di campagna dove trovò ristoro e consolazione nella povera zuppa preparatogli dalla contadina del casolare che mise in una rozza scodella due croste di pane raffermo sopra le quali scocciò un uovo versando poi sul tutto il brodo bollente di erbe spontanee che gorgogliava quotidianamente nella marmitta sul camino. Francesco I, con il morale a terra per la sconfitta («Tutto è perduto fuorché l’onore»), apprezzò talmente quella zuppa villana che quando ritornò sul trono convocò i cuochi di corte insegnando loro la ricetta della zuppa pavese che fu perfezionata dagli chef i quali aggiunsero altri ingredienti ricchi elevandola da contadina che era ad aristocratica.
C’è da dire che la zuppa in Francia troverà il successo che merita grazie a una figura più leggendaria che reale, tale Monsieur Boulanger marchand de bouillon, mercante di brodo. Siamo a Parigi 25 anni prima della presa della Bastiglia e dello scoppio della rivoluzione. Il mitico Boulanger vende zuppe restaurateurs, restauratrici, che sistemano lo stomaco dei clienti cagionevoli rimettendoli in salute in un ambiente tutto sommato comodo con i tavoli accoglienti. Nasce da queste zuppe il restaurant, il ristorante che prende il nome dal ristoro, il conforto, che regalano le zuppe. Dando ragione in questo all’antico e saggio proverbio italiano regalatoci dalla civiltà contadina fin dal Medioevo: «Sette cose fa la zuppa: cava la fame e la sete tutta, empie il ventre, netta il dente, fa dormire, fa smaltire e la guancia fa arrossire».
Il più alto riconoscimento a questo piatto umile ma tanto utile alla sopravvivenza della povera umanità, lo firmano, tra gli altri, alcuni grandi artisti moderni: Paul Cézanne con la sua Natura morta con zuppiera (1884), Pablo Picasso che affronta il tema della povertà ne La zuppa, opera del periodo blu che mostra una vecchia paurosamente magra che porge una scodella di zuppa a una bambina, ma soprattutto Andy Warhol. Il re della Pop art che confessò di aver mangiato a pranzo per vent’anni i barattoloni di zuppa Campbell’s rivoluzionò i concetti di natura morta e di bellezza immortalando le stesse lattine zuppesche in una serie di opere seriali la più importante delle quali è la Campbell’s Soup Cans che presenta tutta la produzione di zuppe della Cambell’s: al pomodoro, agli asparagi, alla carne, al pollo, ai fagioli neri, e così via per 200 volte. Paradossalmente a dare importanza alla zuppa nell’arte sono stati anche le attiviste per il clima che il 28 gennaio dello scorso anno lanciarono la zuppa contro la Gioconda di Leonardo, ben protetta dal vetro antiguai, invocando un’agricoltura mondiale sana.
È profondamente ingiusto nei confronti della zuppa il detto «Se non è zuppa è pan bagnato». Come sopra detto la zuppa è salvifica, ristoratrice, ristoro e medicina attraverso i secoli dell’umanità misera. E poi la famiglia zuppesca è molto varia. Oltre alla zuppa-madre ci sono la minestra, il minestrone, la crema, la vellutata, il passato. Non sono sinonimi, ogni piatto ha la sua caratteristica che riguarda gli ingredienti e le tecniche di preparazione per le quali rimandiamo ai libri di cucina.
Concludiamo con la mistica zen. Un allievo chiede al maestro: «Cosa devo fare per raggiungere l’Illuminazione?». Gli risponde il maestro: «Hai mangiato la zuppa?» «Sì». «Allora lava la scodella».
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Gabriele D'Annunzio (Ansa)
Il patrimonio mondiale dell’umanità rappresentato dalla cucina italiana sarà pure «immateriale», come da definizione Unesco, ma è fatto di carne, ossa, talento e creatività. È il risultato delle centinaia di migliaia di persone che, nel corso dei secoli e dei millenni, hanno affinato tecniche, scoperto ingredienti, assemblato gusti, allevato animali con amore e coltivato la terra con altrettanta dedizione. Insomma, dietro la cucina italiana ci sono... gli italiani.
Ed è a tutti questi peones e protagonisti della nostra storia che il riconoscimento va intestato. Ma anche a chi assapora le pietanze in un ristorante, in un bistrot o in un agriturismo. Alla fine, se ci si pensa, la cucina italiana siamo tutti noi: sono i grandi chef come le mamme o le nonne che si danno da fare tra le padelle della cucina. Sono i clienti dei ristoranti, gli amanti dei formaggi come dei salumi. Sono i giornalisti che fanno divulgazione, sono i fotografi che immortalano i piatti, sono gli scrittori che dedicano pagine e pagine delle loro opere ai manicaretti preferiti dal protagonista di questo o quel romanzo. Insomma, la cucina è cultura, identità, passato e anche futuro.
Giancarlo Saran, gastropenna di questo giornale, ha dato alle stampe Peccatori di gola 2 (Bolis edizioni, 18 euro, seguito del fortunato libro uscito nel 2024 vincitore del Premio selezione Bancarella cucina), volume contenente 13 ritratti di personaggi di spicco del mondo dell’italica buona tavola («Un viaggio curioso e goloso tra tavola e dintorni, con illustri personaggi del Novecento compresi alcuni insospettabili», sentenzia l’autore sulla quarta di copertina). Ci sono il «fotografo» Bob Noto e l’attore Ugo Tognazzi, l’imprenditore Giancarlo Ligabue e gli scrittori Gabriele D’Annunzio, Leonardo Sciascia e Andrea Camilleri. E poi ancora Lella Fabrizi (la sora Lella), Luciano Pavarotti, Pietro Marzotto, Gianni Frasi, Alfredo Beltrame, Giuseppe Maffioli, Pellegrino Artusi.
Un giro d’Italia culinario, quello di Saran, che testimonia come il riconoscimento Unesco potrebbe dare ulteriore valore al nostro made in Italy, con risvolti di vario tipo: rispetto dell’ambiente e delle nostre tradizioni, volano per l’economia e per il turismo, salvaguardia delle radici dal pericolo di una appiattente omologazione sociale e culturale. Sfogliando Peccatori 2, si può possono scovare, praticamente a ogni pagina, delle chicche. Tipo, la passione di D’Annunzio per le uova e la frittata. Scrive Saran: «D’Annunzio aveva un’esperienza indelebile legata alle frittate, che ebbe occasione di esercitare in diretta nelle giornate di vacanza a Francavilla con i suoi giovani compagni di ventura in cui, a rotazione, erano chiamati “l’uno a sfamare tutti gli altri”. Lasciamogli la cronaca in diretta. Chi meglio di lui. “In un pomeriggio di luglio ci attardavamo nella delizia del bagno quando mi fu rammentato, con le voci della fame, toccare a me le cura della cucina”. La affronta come si deve. “Non mancai di avvolgermi in una veste di lino rapita a Ebe”, la dea della giovinezza, “e di correre verso la vasta dimora costruita di tufo e adornata di maioliche paesane”. Non c’è storia: “Ruppi trentatré uova e, dopo averle sbattute, le agguagliai (mischiai) nella padella dal manico di ferro lungo come quello di una chitarra”. La notte è illuminata dal chiaro di luna che si riflette sulle onde, silenziose in attesa, e fu così che “adunai la sapienza e il misurato vigore... e diedi il colpo attentissimo a ricevere la frittata riversa”. Ma nulla da fare, questa, volando nel cielo non ricadde a terra, ovvero sulla padella. E qui avviene il miracolo laico. “Nel volgere gli occhi al cielo scorsi nel bagliore del novilunio la tunica e l’ala di un angelo”. Il finale conseguente. “L’angelo, nel passaggio, aveva colta la frittata in aria, l’aveva rapita, la sosteneva con le dita” con la missione imperativa di recarla ai Beati, “offerta di perfezione terrestre...”, di cui lui era stato (seppur involontario) protagonista. “Io mi vanto maestro insuperabile nell’arte della frittata per riconoscimento celestiale”.
La buona e sana cucina, dunque, ha come traino produttori e ristoratori «ma ancor più valore aggiunto deriva da degni ambasciatori e, con questo, i Peccatori di gola credo meritino piena assoluzione», conclude l’autore.
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Dal primo luglio 2026, in tutta l’Unione europea entrerà in vigore un contributo fisso di tre euro per ciascun prodotto acquistato su internet e spedito da Paesi extra-Ue, quando il valore della spedizione è inferiore a 150 euro. L’orientamento politico era stato definito già il mese scorso; la riunione di ieri del Consiglio Ecofin (12 dicembre) ne ha reso operativa l’applicazione, stabilendone i criteri.
Il prelievo di 3 euro si applicherà alle merci in ingresso nell’Unione europea per le quali i venditori extra-Ue risultano registrati allo sportello unico per le importazioni (Ioss) ai fini Iva. Secondo fonti di Bruxelles, questo perimetro copre «il 93% di tutti i flussi di e-commerce verso l’Ue».
In realtà, la misura non viene presentata direttamente come un’iniziativa mirata contro la Cina, anche se è dalla Repubblica Popolare che proviene la quota maggiore di pacchi. Una delle preoccupazioni tra i ministri è che parte della merce venga immessa nel mercato unico a prezzi artificialmente bassi, anche attraverso pratiche di sottovalutazione, per aggirare le tariffe che si applicano invece alle spedizioni oltre i 150 euro. La Commissione europea stima che nel 2024 il 91% delle spedizioni e-commerce sotto i 150 euro sia arrivato dalla Cina; inoltre, valutazioni Ue indicano che fino al 65% dei piccoli pacchi in ingresso potrebbe essere dichiarato a un valore inferiore al reale per evitare i dazi doganali.
«La decisione sui dazi doganali per i piccoli pacchi in arrivo nell’Ue è importante per garantire una concorrenza leale ai nostri confini nell’era odierna dell’e-commerce», ha detto il commissario per il Commercio, Maroš Šefčovič. Secondo il politico slovacco, «con la rapida espansione dell’e-commerce, il mondo sta cambiando rapidamente e abbiamo bisogno degli strumenti giusti per stare al passo».
La decisione finale da parte di Bruxelles arriva dopo un iter normativo lungo cinque anni. La Commissione europea aveva messo sul tavolo, nel maggio 2023, la cancellazione dell’esenzione dai dazi doganali per i pacchi con valore inferiore a 150 euro, inserendola nel pacchetto di riforma doganale. Nella versione originaria, l’entrata in vigore era prevista non prima della metà del 2028. Successivamente, il Consiglio ha formalizzato l’abolizione dell’esenzione il 13 novembre 2025, chiedendo però di anticipare l’applicazione già al 2026.
C’è poi un secondo balzello messo a punto dall’esecutivo Meloni. Si tratta di un emendamento che prevede l’introduzione di un contributo fisso di due euro per ogni pacco spedito con valore dichiarato fino a 150 euro.
La misura, però, non sarebbe limitata ai soli invii provenienti da Paesi extra-Ue. Rispetto alle ipotesi circolate in precedenza, l’impostazione è stata ampliata: se approvata, la tassa finirebbe per applicarsi a tutte le spedizioni di piccoli pacchi, indipendentemente dall’origine, quindi anche a quelle spedite dall’Italia. In origine, l’idea sembrava mirata soprattutto a intercettare le micro-spedizioni generate da piattaforme come Shein o Temu. Il punto, però, è che colpire esclusivamente i pacchi extra-europei avrebbe reso la misura assimilabile a un dazio, materia che rientra nella competenza dell’Unione europea e non dei singoli Stati membri. Per evitare questo profilo di incompatibilità, l’emendamento alla manovra 2026 ha quindi «generalizzato» il prelievo, estendendolo all’intero perimetro delle spedizioni. L’effetto pratico è evidente: la tassa non impatterebbe solo sulle piattaforme asiatiche, ma anche sugli acquisti effettuati su Amazon, eBay e, in generale, su qualsiasi negozio online che spedisca pacchi entro quella soglia di valore dichiarato.
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Ansa
Insomma: il vento è cambiato. E non spinge più la solita, ingombrante, vela francese che negli ultimi anni si era abituata a intendere l’Italia come un’estensione naturale della Rive Gauche.
E invece no. Il pendolo torna indietro. E con esso tornano anche ricordi e fantasie: Piersilvio Berlusconi sogna la Francia. Non quella dei consessi istituzionali, ma quella di quando suo padre, l’unico che sia riuscito a esportare il varietà italiano oltre le Alpi, provò l’avventura di La Cinq.
Una televisione talmente avanti che il presidente socialista François Mitterrand, per non farla andare troppo lontano, decise di spegnerla. Letteralmente.
Erano gli anni in cui gli italiani facevano shopping nella grandeur: Gianni Agnelli prese una quota di Danone e Raul Gardini mise le mani sul più grande zuccherificio francese, giusto per far capire che il gusto per il raffinato non ci era mai mancato. Oggi al massimo compriamo qualche croissant a prezzo pieno.
Dunque, Berlusconi – quello junior, stavolta – può dirlo senza arrossire: «La Francia sarebbe un sogno». Si guarda intorno, valuta, misura il terreno: Tf1 e M6.
La prima, dice, «ha una storia imprenditoriale solida»: niente da dire, anche le fortezze hanno i loro punti deboli. Con la seconda, «una finta opportunità». Tradotto: l’affare che non c’è, ma che ti fa perdere lo stesso due settimane di telefonate.
Il vero punto, però, è che mentre noi guardiamo a Parigi, Parigi si deve rassegnare. Lo dimostra il clamoroso stop di Crédit Agricole su Bpm, piantato lì come un cartello stradale: «Fine delle ambizioni». Con Bank of America che conferma la raccomandazione «Buy» su Mps e alza il target price a 11 euro. E non c’è solo questo. Natixis ha dovuto rinunciare alla cassaforte di Generali dov’è conservata buona parte del risparmio degli italiani. Vivendi si è ritirata. Tim è tornata italiana.
Il pendolo, dicevamo, ha cambiato asse. E spinge ben più a Ovest. Certo Parigi rimane il più importante investitore estero in Italia. Ma il vento della geopolitica e cambiato. Il nuovo asse si snoda tra Washington e Roma Gli americani non stanno bussando alla porta: sono già entrati.
E non con due spicci.
Ieri le due sigle più «Miami style» che potessero atterrare nel dossier Ilva – Bedrock Industries e Flacks Group – hanno presentato le loro offerte. Americani entrambi. Dall’odore ancora fresco di oceano, baseball e investimenti senza fronzoli.
E non è un caso isolato.
In Italia operano oltre 2.700 imprese a partecipazione statunitense, che generano 400.000 posti di lavoro. Non esattamente compratori di souvenir. Sono radicati nei capannoni, nella logistica, nelle tecnologie, nei servizi, nella manifattura. Un pezzo intero di economia reale. Poi c’è il capitolo dei giganti della finanza globale: BlackRock, Vanguard, i soliti nomi che quando entrano in una stanza fanno più rumore del tuono. Hanno fiutato l’aria e annusato l’Italia come fosse un tartufo bianco d’Alba: raro, caro e conveniente.
Gli incontri istituzionali degli ultimi anni parlano chiaro: data center, infrastrutture, digitalizzazione, energia.
Gli americani non si accontentano. Puntano al core del futuro: tecnologia, energia, scienza della vita, space economy, agritech.
Dopo l’investimento di Kkr nella rete fissa Telecom - uno dei deal più massicci degli ultimi quindici anni - la direzione è segnata: Washington ha scoperto che l’Italia rende.
A ottobre 2025 la grande conferma: missione economica a Washington, con una pioggia di annunci per oltre 4 miliardi di euro di nuovi investimenti. Non bonus, non promesse, ma progetti veri: space economy, sostenibilità, energia, life sciences, agri-tech, turism. Tutti settori dove l’Italia è più forte di quanto creda, e più sottovalutata di quanto dovrebbe.
A questo punto il pendolo ha parlato: gli americani investono, i francesi frenano.
E chissà che, alla fine, non si chiuda il cerchio: gli Usa tornano in Italia come investitori netti, e Berlusconi torna in Francia come ai tempi dell’avventura di La Cinq.
Magari senza che un nuovo Mitterrand tolga la spina.
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