2025-08-23
Concerti e disco senza Siae. Al Leonka erano fuorilegge anche gli affari (milionari)
22 agosto, via San Dionigi, Milano (crediti La Verità)
Gli abusivi, secondo le stime, hanno mosso un giro di denaro simile al fatturato di un locale tradizionale. Nuova sede, forse, in via San Dionigi: chi paga i lavori?Di certo non sarà ricordata come un’accoglienza calorosa. Nella notte successiva allo sgombero di via Watteau qualcuno ha pensato bene di appendere un lenzuolo davanti al capannone di via San Dionigi a Milano, la potenziale nuova sede del Leoncavallo. La scritta è secca: «No Leoncavallo». È un segnale che racconta bene le tensioni di quartiere attorno a un trasferimento che promette di dividere: da un lato chi vede la possibilità di rigenerare uno spazio vuoto, dall’altro chi teme che 40 anni di ambiguità e illegalità vengano traslocati pari pari qualche chilometro più in là.Nel frattempo, in via Watteau le operazioni si sono chiuse con un atto definitivo. Dopo 31 anni, i legittimi proprietari - la famiglia Cabassi - hanno ripreso possesso dell’ex cartiera: cambiate le serrature, riattivato l’allarme, demoliti i servizi igienici per evitare rioccupazioni. L’ufficiale giudiziario, delegato dal Tribunale, ha le chiavi: entro 30 giorni gli occupanti potranno tornare solo per recuperare i beni rimasti all’interno, scortati caso per caso. L’area resta sotto controllo delle forze dell’ordine.Ma la partita politica è appena iniziata. Perché Palazzo Marino guarda a Sud, verso via San Dionigi 117/A, complesso di proprietà comunale al confine tra il Corvetto e Porto di Mare. Per cinquant’anni, lì, ha operato la Comes, azienda di esche da pesca, fino allo sfratto del gennaio 2024. Un’area di 5.000 metri quadrati, di cui 2.000 di capannone, che oggi si candida a ospitare la «nuova casa» del Leoncavallo. Prima, però, servono milioni: il tetto in eternit va bonificato, con un cantiere stimato in circa 4 milioni di euro. E poi ci sono da rimettere a posto i locali, riallacciare acqua e gas. Chi paga? Solo dopo la messa in sicurezza, infatti, potrà ospitare nuove attività. Il Comune, dunque, non potrà limitarsi a consegnare le chiavi: dovrà bandire una gara pubblica, con criteri trasparenti e vincolati alla legge, pena il rischio di trasformare un’operazione di rigenerazione in un pasticcio giuridico. È qui che si apre il nodo politico. Perché se davvero via San Dionigi diventerà la nuova sede del Leoncavallo, il Comune dovrà scrivere un bando «su misura»: né troppo generico, né troppo selettivo, ma comunque tale da consentire al centro sociale di partecipare e vincere. Un’operazione complicata, che rischia di essere letta come una sanatoria mascherata. Soprattutto dopo l’inchiesta sull’urbanistica. Non a caso, l’ex vicesindaco Riccardo De Corato di Fratelli d’Italia annuncia ricorsi e segnalazioni qualora l’affidamento non seguisse procedure competitive e requisiti stringenti: regolarità fiscale e contributiva, certificazioni di sicurezza, canoni congrui, tracciabilità dei pagamenti, responsabilità civile e progetti verificabili.Il contesto non aiuta. Lungo via San Dionigi altre realtà sono sotto sfratto. Accanto al complesso ex Comes ci sono un’officina meccanica e un ex laboratorio di marmi per cimiteri, anche questi in fase di dismissione. Siamo in una delle aree industriali di confine, tra capannoni dismessi e degrado diffuso. Un quadrante che il Comune dovrebbe presidiare e rigenerare, non semplicemente «riempire con una nuova occupazione regolarizzata. Per 30 anni il Leoncavallo si è presentato come centro sociale autogestito, ma i numeri raccontano una realtà economica di ben altra scala. Secondo le stime (non è possibile fare un calcolo esatto perché mancano dati certi), i soli diritti Siae non versati per i concerti ammontavano a circa 40.000 euro l’anno, quindi almeno 1,2 milioni di euro nell’arco di tre decenni: è un calcolo semplice, basato su un migliaio di soci, un concerto ogni giovedì e un ballo ogni sabato. In un locale tradizionale questa cifra corrisponde al 5-10% degli incassi da biglietti, il che significa che il giro d’affari complessivo delle serate avrebbe potuto oscillare tra 800.000 e 1,2 milioni di euro l’anno, a cui sommare bar e ristorazione interna.In altre parole, il Leoncavallo potrebbe aver generato entrate paragonabili a quelle di una media discoteca milanese. I dati camerali confermano che club come Fenice Srl o Volt Srl fatturano ogni anno tra i 4 e i 5 milioni di euro, mentre realtà più piccole come Super Club Srl restano attorno ai 600.000 euro. Dentro questa forbice, una stima di poco inferiore a un milione di euro annuo per il Leoncavallo (negli anni d’oro) appare credibile, di sicuro superiore alla cifra di 500.000 euro che circola da tempo, contenuta in un dossier di Fratelli d’Italia. Dal palco del Leoncavallo sono passati artisti che hanno segnato la musica di almeno tre generazioni: dai Public Enemy che incendiarono la scena hip-hop nel ’99 a Goldie, icona della drum’n’bass londinese, fino alla techno berlinese di Ellen Allien e alle serate affollatissime di Manu Chao, Subsonica, Afterhours, Africa Unite, Verdena e Marlene Kuntz. Eppure, per 15 anni, Palazzo Marino ha evitato di intervenire, preferendo il dialogo e il rinvio. Anche quando le giunte di centrosinistra hanno immaginato percorsi di regolarizzazione, tutto si è arenato: asservimenti urbanistici, permute, ricollocazioni. Nulla è mai diventato atto deliberativo. C’è poi un aspetto che va oltre la politica. La Corte dei Conti ha il compito di vigilare sull’uso corretto delle risorse pubbliche e può intervenire in caso di danno erariale: quando un comportamento illecito o negligente di un pubblico ufficiale causa un danno alle finanze pubbliche. L’assegnazione di un nuovo spazio al Leoncavallo senza un adeguato processo di selezione pubblica potrebbe essere oggetto di indagine da parte della Corte, in quanto rappresenterebbe un uso improprio di beni pubblici e una violazione dei principi di trasparenza e concorrenza.
Eugenia Roccella (Getty Images)
Carlotta Vagnoli (Getty Images)