2019-02-23
«Con zappe e trattori insegno la legalità»
Roberto Rappuoli dirige nel Chianti la prima scuola per contadini in Italia: «Ai ragazzi under 18 che hanno interrotto gli studi offriamo un'occasione di riscatto e facciamo capire che la parola mafia non va mai associata ai prodotti italiani. L'agricoltura è la professione del futuro».È di pochi giorni fa l'ultimo Rapporto agromafie elaborato da Coldiretti sul volume d'affari della criminalità organizzata nel settore agroalimentare, salito nel 2018 a 24,5 miliardi di euro, con un balzo del 12,4 per cento rispetto al 2017. Un business che, evidentemente, non conosce recessione. Sono 399 gli allarmi alimentari diffusi nello scorso anno: più di uno al giorno. «Questo aspetto mi fa molta paura», commenta pensoso Roberto Rappuoli, 59 anni, presidente di Chiantiform. «Mi indigna vedere, all'estero, la parola “mafia" associata ai prodotti tipici italiani. Sono cadute di stile dei nostri amici europei. Nel nostro piccolo, ci facciamo portatori di legalità verso i giovani che frequentano i nostri corsi».Il riferimento è ai ragazzi iscritti alla Scuola per contadini, la prima in Italia, fondata tre anni fa dall'agenzia formativa presieduta dall'agronomo toscano e promossa dai cinque Comuni del Chianti: Barberino Val d'Elsa, Bagno a Ripoli, Tavernelle Val di Pesa, Greve in Chianti, San Casciano Val di Pesa (sede della scuola). Si tratta di un corso biennale gratuito, finanziato dal Fondo sociale europeo (che ogni anno versa a Chiantiform 113.000 euro), rivolto ai ragazzi dai 16 ai 18 anni inquadrabili nella cosiddetta fascia dropout, che racchiude coloro i quali hanno interrotto il proprio percorso di studi. «L'idea è nata da due emergenze», spiega Rappuoli, «Da un lato, la richiesta di personale qualificato da parte delle aziende del territorio. Dall'altro, il problema dell'abbandono scolastico salito, nella nostra zona, all'11 per cento». Per accedervi, oltre ai requisiti anagrafici, è sufficiente presentare un documento della scuola di provenienza che certifichi la rinuncia. «La gran parte dei nostri alunni arriva da istituti tecnici agrari».Viene da chiedersi perché ragazzi che hanno abbandonato l'istituto agrario si iscrivano a una scuola per contadini. Non è la stessa cosa?«Non proprio. Quando fanno domanda d'iscrizione, sottoponiamo i ragazzi a un'intervista chiedendo loro le motivazioni che li hanno spinti a lasciare la scuola. La risposta più frequente: troppa teoria. Questo aspetto scoraggia chi pensava di imparare la tecnica andando nei vigneti o negli oliveti e poi si ritrova chiuso in una classe».Da voi, invece, come funziona?«In totale le ore sono 2.100 (sei al giorno), di cui 1.300 divise tra aula e tour in aziende, e 800 impiegate in stage utili a prendere contatti coi datori di lavoro».Quali sono le materie insegnate?«A parte le propedeutiche (italiano, inglese, matematica, storia, scienze), il cui livello di preparazione è quello della terza media, le materie applicative sono: agronomia, fitopatologia, viticoltura, olivicoltura, potatura, imbottigliamento, gestione della cantina».È una scuola riservata esclusivamente ai giovani del territorio?«No, chiunque si trovi nella fascia dropout può iscriversi. Ovviamente, il nostro non è un campus, ma se qualcuno riesce a trovare ospitalità nel Chianti è il benvenuto».Alla fine del corso, con che titolo si presentano sul mercato i ragazzi?«Sono operatori agricoli a tutti gli effetti. Non si tratta di un diploma di scuola superiore, vale come un biennio, ma è un attestato riconosciuto dalla Comunità europea. Ciò significa che, una volta usciti da qui, possono trovare lavoro anche oltre i confini nazionali».Ad oggi, quanti sono i diplomati?«Una quarantina».Qualcuno ce l'ha fatta a espatriare?«Non ancora. Ma posso affermare con orgoglio che tutti hanno un impiego: il 90 per cento all'interno di aziende agricole, il restante 10 per cento in fabbriche».Con una condizione contrattuale stabile?«Il classico indeterminato, nel nostro settore, è raro. Non essendoci molto da fare in inverno, i contratti sono stagionali, della durata di 7-8 mesi. Ma stiamo provando, e con qualche alunno ci siamo già riusciti, a instaurare collaborazioni con frantoi attivi in ottobre, novembre e dicembre, in modo da impiegare i ragazzi tutto l'anno».C'è un caso che ricorda con particolare soddisfazione?«Un corsista albanese, diplomato nel 2018. Aveva i genitori separati, il padre era stato in carcere. Per lui, questa scuola rappresentava un'occasione di riscatto personale. Quando trovò lavoro, telefonò per ringraziarci e condividere la sua gioia. Solitamente, siamo noi a cercare i ragazzi per sapere cosa stanno facendo».Sono diversi i ragazzi con situazioni problematiche?«Diciamo un 20 per cento». Quante domande di iscrizione arrivano da adolescenti con una tradizione famigliare contadina?«Il 70 per cento. Il restante 10 si presenta perché ha sentito parlare del corso, ha appreso che c'è tanta pratica e che si trova anche lavoro».Gli insegnanti che formazione hanno?«A parte i docenti delle materie propedeutiche, provenienti da istituti tecnici, sono tutti agronomi. Tra questi c'è Nicola Menditto, direttore dell'azienda agricola Montepaldi, nostro partner, che ospita gli stage».Poco fa parlava di stagionalità: quali sono le attività del momento?«Questo è il periodo in cui si pota la vite, cosa che i ragazzi fanno durante gli stage. Ad aprile vanno a potare l'olivo, a settembre fanno la vendemmia e in ottobre c'è la raccolta delle olive. In questo modo maturano una visione completa del processo stagionale».Secondo un Rapporto sulla competitività presentato da Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare), nel 2017 l'agroalimentare italiano ha impiegato 1.385.000 persone, di cui 900.000 assorbite dall'agricoltura. È la professione del futuro?«Sicuramente. E le dico anche in quale ramo: la produzione olivicola. Dopo il crollo del 2014, seguito ai danni da mosca dell'olivo, c'è stata una grande fioritura e sono tantissime le aziende che hanno ricominciato a prendersi cura dei propri alberi. Pur essendo ancora più trascinante la produzione vinicola, le assunzioni sono più nel mondo dell'olio. Quello del vino è un ambiente più saturo».Come si è evoluto, negli anni, il lavoro dell'agricoltore?«Rispetto a 60 anni fa, c'è stato un grosso cambiamento. L'evoluzione più sensibile è stata portata dalla meccanizzazione. Se confrontato con un impiego in fabbrica, l'intelligenza applicata al lavoro è maggiore e la fatica fisica inferiore. I ritmi di lavoro non sono più scanditi dall'alba e dal tramonto, com'era per i nostri nonni o bisnonni: oggi si fanno le 40 ore».Non è più un mestiere per uomini duri, insomma.«Direi di no. E, infatti, ci sono molte donne impiegate nell'agroalimentare. In una delle aziende agricole per le quali ho lavorato, il mio capo squadra era una signora che comandava ragazzi di colore e islamici. Se lo immagina un musulmano che prende ordini da una femmina? Eppure sapeva farsi rispettare. Hanno polso queste donne».Ce ne sono anche nella vostra scuola?«Per ogni classe, mediamente, su 15 alunni ci sono tre ragazze. Rispetto ai maschi, sono più meticolose e puntuali. Non è un luogo comune: quando si insegna loro a potare, vogliono sapere il punto esatto dove posizionare la forbice. Durante le vendemmie, mostrano una maggior precisione nello scartare i grappoli incerti e mettere nel paniere solo l'uva più matura».Tornando all'intelligenza: un tempo, era molto in voga l'espressione «braccia rubate all'agricoltura» per definire, in modo non proprio lusinghiero, la dotazione cerebrale di un individuo. Oggi il contadino è più intelligente?«Altroché. È molto più rintracciabile l'aspetto imprenditoriale, caratterizzato da persone con una formazione più elevata rispetto ai contadini di una volta. Quando si va a fare la potatura, si imposta il lavoro di un anno intero: sbagliare significa aumentare la probabilità che la pianta contragga delle malattie, riducendo la produzione in modo sensibile. Se pensiamo all'agricoltura biologica, dove la cura, una volta contratta una malattia, è quasi inesistente, si può capire quale sia il livello di competenza richiesto».Quanto ci si può fidare del biologico? Se ne parla spesso con scetticismo.«Giustamente. C'è chi fa le cose per bene, rispettando protocolli severissimi e mettendo in preventivo una percentuale maggiore di perdita; per questo i prodotti hanno un costo superiore. Poi c'è chi se ne approfitta. Le faccio un esempio».Prego.«Esiste una malattia chiamata peronospora, data da un fungo che colpisce la vite. Per prevenirla viene usato il rame. Esiste un limite totale annuale di 6 chilogrammi di rame utilizzabili su 1 ettaro di vigneto. Senza controlli assidui, però, nessuno può accorgersi se il limite viene oltrepassato. Il piccolo produttore che dice di fare agricoltura biologica mi lascia un po' perplesso; delle grandi aziende ci si può fidare».È vero che, ultimamente, nell'agroalimentare c'è un crescente utilizzo dei droni?«Certo. Si usa per individuare dall'alto i punti in cui ci sono carenze di sostanze minerali, le cosiddette zone gialle. Ciò permette di utilizzare le sostanze in maniera circostanziata».Ma la tecnologia, in un settore del genere, non rischia di ridurre drasticamente i posti di lavoro?«La mano buona, per fortuna, servirà sempre. Si potrà ridurre il numero dei trattoristi, magari, ma la potatura coi droni non la potremo mai fare». (sorride)Senta, il ritratto del giovane d'oggi è con lo smartphone incollato alla mano, lontanissimo dalla terra. Si sente di sfatare anche questo luogo comune?«Quando entrano nelle nostre aule, i ragazzi devono posare il cellulare sulla cattedra. Almeno durante l'ora di lezione riusciamo a contenere questa dipendenza. Diciamo che, se i primi mesi lo smartphone è incollato alla mano, alla fine del corso sta più tempo nella tasca».