
Gli investimenti esteri diretti scendono complessivamente da 242 a 136 miliardi nel primo trimestre di quest'anno. Il dato è quasi tutto dovuto al fatto che le corporation ricominciano a scommettere in patria.Nel primo trimestre del 2018 gli investimenti diretti esteri (Ide) globali sono diminuiti di 106 miliardi di dollari, rispetto ad un anno fa. Si è dunque passi da 242 a 136 miliardi di dollari. Il calo è dovuto in gran parte agli Stati Uniti d'America che hanno registrato, nel primo trimestre del 2018, per la prima volta dopo il 2005 un risultato negativo. Secondo i dati pubblicati dall'Ocse gli Usa hanno infatti segnato un -145 miliardi di dollari in investimenti diretti esteri. Significa dunque che non solo non hanno investito all'estero, ma hanno anche riportato in patria della ricchezza che fino ad ora era stata lasciata fuori dagli Usa, per evitare di pagare le tasse. La conseguenza di questa decisione è stato il calo degli investimenti diretti esteri da parte degli Stati Uniti d'America. Tendenzialmente infatti una grande parte degli Ide viene finanziata proprio dai guadagni che le multinazionali fanno durante l'anno. Se però questi vengono dirottati tutti verso gli Usa, all'estero non arriva nulla. La mossa delle multinazionali americane è legata alla nuova riforma fiscale di Donald Trump approvata a dicembre del 2017. A fine 2017 nel testo della Tax reform è stato infatti inserita la rempatriation tax con l'obiettivo di spingere le multinazionali a riportare in patria i soldi depositati all'estero (in paradisi fiscali). La rempatriation tax prevede una tassazione agevolata al 15,5% per il cash mentre al 7,5% per le attività non liquide rimpatriate. Rispetto al passato quando le aliquote erano più del doppio, conviene dunque riportare negli Usa parte delle risorse. È difficile prevedere se le multinazionali decideranno sempre più frequentemente di reimportare in patria i ricavi, oppure se si tratta di una situazione transitoria. Ci sono però diversi aspetti da tenere in considerazione. Il primo riguarda i paradisi fiscali. È utopistico pensare che le multinazionali decideranno di abbandonare del tutto i paradisi fiscali, dove sono depositati la maggior parte dei loro ricavi. Si parla infatti di giurisdizioni dove sono presenti aliquote fiscali molto vicino allo zero. Per quanto la riforma fiscale di Trump abbia abbassato le tasse, il confronto con questi è perso in partenza. Dall'altra parte c'è però da considerare l'introduzione, nella riforma fiscale di Trump, del sistema di tassazione territoriale. Questo fa sì che ai dividendi, provenienti da società partecipate estere residenti fuori dagli Stati Uniti d'America, non siano applicate nessun genere di tassazione. Inoltre, zero tasse anche per le plusvalenze derivate da cessioni di partecipazione in società controllate non residenti. Il sistema territoriale potrebbe dunque spingere le multinazionali americane a rimpatriare ricavi maggiori negli Usa. Ma non solo, perché la detassazione dei dividenti e delle plusvalenze potrebbe spingere anche società non americane a spostarsi negli Usa perché fiscalmente più vantaggioso. In questo caso l'equilibrio si sposterebbe a favore degli Stati Uniti d'America. Da maggiore investitore estero, potrebbe diventare un catalizzatore di investimenti dall'estero. Nel 2005 è vero che c'è stata una situazione simile, ma non è del tutto paragonabile a quella attuale. Nel quarto trimestre del 2005 si è infatti verificato un saldo negativo degli Usa rispetto agli Investimenti diretti esteri, a causa dell'American jobs creation act (riforma del lavoro). Era stato concesso alle multinazionali di rimpatriare i guadagni esteri ad un tasso agevolato fino alle fine del 2005. Non si sono però registrati dati negativi in merito all'occupazione delle filiali estere. Già nel 2006 le multinazionali americane avevano infatti ripreso a pieno regime gli investimenti diretti esteri. La situazione attuale è diversa perché la riforma fiscale ha messo in campo non solo un taglio alle tasse ma anche un sistema territoriale che potrebbe incentivare le multinazionali e non a scegliere gli Usa come base operativa. Riprova ne è il fatto che questa volta c'è stato un forte impatto sugli investimenti esteri accompagnato anche da un rimpatrio di risorse. È presto osservare degli effetti sulle filiali estere, in termini di occupazione, ma se dovesse continuare questo trend gli effetti negativi non tarderanno ad arrivare.
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