2021-02-26
«Con “Il commissario Ricciardi” vendico i generi snobbati dai critici»
Alessandro D'Alatri (Ansa)
Il regista della serie di successo su Rai 1, Alessandro D'Alatri: «Il nostro cinema negli anni Settanta è fiorito specializzandosi: commedia sexy, fantascienza, spaghetti western. Agli intellettuali non piacevano, ma il pubblico li amava».La nuova stella del firmamento televisivo è lo scrittore Maurizio de Giovanni, i cui personaggi stanno ispirando varie serie. In particolare Il commissario Ricciardi, che sta colmando il vuoto lasciato dal suo collega Montalbano. Uno degli artefici dello straordinario successo della serie dedicata a questo personaggio così singolare è il regista Alessandro D'Alatri, che dopo aver lasciato il segno sul grande schermo con Senza pelle, Casomai e Commediasexi, si è imposto anche in televisione.Prima di girare la serie I bastardi di Pizzofalcone aveva letto i romanzi di Maurizio de Giovanni?«Avevo già letto alcuni romanzi del commissario Ricciardi, tant'è che quando i produttori - Massimo Martino e Gabriella Buontempo della Clemart - mi hanno chiesto se mi interessava De Giovanni, pensavo stessero parlando di Ricciardi, anche perché c'era già stata una stagione de I bastardi di Pizzofalcone».Era stata diretta da Carlo Carlei.«Mi hanno spiegato che lui doveva girare un film e mi hanno offerto Bastardi. Ho accettato con piacere e successivamente mi è stato proposto di fare Il commissario Ricciardi e a quel punto ho letto tutta la serie». Cosa l'aveva colpito da lettore?«I romanzi contenevano degli elementi fortemente appetibili dal punto di vista cinematografico: la Napoli degli anni Trenta durante il fascismo, un commissario anomalo, un barone che fa questo lavoro non per vivere, ma per riempire la propria vita e dare un senso a un dolore pazzesco. C'è poi l'aspetto esoterico: Ricciardi vede delle cose che gli altri non vedono e questo lo rende un supereroe, con dei poteri paranormali... che poi questi poteri siano una maledizione, anziché essere solo un privilegio, cambia le carte in tavola. Era un progetto molto difficile, soprattutto considerando che era destinato a Rai 1: una serie così dark, con il paranormale, le visioni, il sangue, non era un progetto tipicamente da prima rete, quindi era una grande scommessa affrontarlo. Il primo giorno di riprese ho detto che sarebbe stato il lavoro più complicato della mia carriera e avevo perfettamente ragione, anzi è stato molto più complicato di quanto avessimo potuto immaginare. È stata una lavorazione lunga, faticosa, piena di difficoltà organizzative, con molti stop».Con l'ulteriore difficoltà di far vedere una Napoli differente da quella che si vede sul piccolo e sul grande schermo.«Mi sono avvicinato alla televisione negli ultimi quattri anni e ho sempre girato a Napoli: il tv-movie In punta di piedi, le sei puntate de I bastardi e poi Ricciardi. È una città che amo profondamente, con la quale ho avuto uno scambio di reciproco affetto e che ho esplorato a fondo. Ho vissuto questi quattro anni a Napoli in giro con la moto: ho conosciuto i suoi vicoli, le sue viscere, la sua capacità di essere una fucina di cultura e di colori. È una città che mi ha aperto le porte: sono stato accolto come fossi un napoletano e ora mi sento un po' tale dopo questa lunga esperienza. Conoscere la città mi è stato di utilità straordinaria per raccontarla negli anni Trenta. Il nostro cinema si è occupato di Napoli dalle quattro giornate in poi, la guerra, i tedeschi, la Liberazione, gli americani... Ho fatto un lavoro di indagine per ricostruire un mondo che non ha quasi più testimoni, senza avere dei modelli a cui far riferimento, se non un po' di cinegiornali e di materiale fotografico. Qual era la mia grande scommessa? Riproporre un afflato di quell'epoca non soltanto ai napoletani, ma agli italiani». Nella serie si sente il respiro della cultura partenopea.«Napoli è la capitale culturale del Paese: è una città così intrisa di teatralità, di drammaturgia, di voglia di mettersi in scena, di spettacolarità. In più ho avuto la possibilità di attingere a quel patrimonio culturale che è il teatro. Avevo più di trecento ruoli da coprire in sei puntate e ho scelto gli attori personalmente insieme ai casting director, basandomi su un database di quasi duemila nominativi: sono andato nelle cantine, nelle scuole, nei piccoli e grandi teatri. È stato per me un privilegio enorme perché mi ha consentito di avere un livello attoriale altissimo, dal protagonista fino all'interprete che pronuncia una sola battuta. È una tradizione drammaturgica unica in Italia, così come la poesia, la canzone, la filosofia. Il mio primo film a Napoli, In punta di piedi, parlava di una bambina che studiava danza in un territorio disagiato: non hai idea di quante scuole di danza ci siano a Napoli! Il cinema ha sempre raccontato il colera, il terremoto, la camorra, la corruzione... per me vivere quattro anni a Napoli è stata una scoperta straordinaria. La città è diventata anche una capitale cinematografica, grazie a una Film Commission molto collaborativa, così come quella pugliese. Abbiamo girato molte scene a Taranto, città borbonica, dove abbiamo ritrovato i quartieri spagnoli e la Sanità nei vicoli della città antica, perfettamente conservati. I veri quartieri spagnoli e la Sanità hanno elementi di modernità che è difficile da gestire per una serie sugli anni Trenta».Lino Guanciale lo ha scelto lei?«Ho fatto dei provini a tutti gli attori, a cominciare dal protagonista. Lino è un attore straordinario che ha un background culturale molto forte, conosce il teatro, conosce il cinema, si è cimentato in più ruoli. Ha fatto un provino straordinario: è un attore che sa mettersi in gioco. Mi piaceva l'idea di manipolarlo, in senso buono, perché il personaggio era completamente diverso da tutti quelli che aveva interpretato precedentemente».È una recitazione in sottrazione...«Questo personaggio è scritto così. Molte persone se la sono presa con il personaggio di Ricciardi: è scritto ed è disegnato nei fumetti in questo modo. Abbiamo rispettato le caratteristiche di questa figura, anzi nella fiction si muove un po' di più, fa più cose, mentre all'interno del romanzo è molto più sofferente. È un uomo che soffre la sua dannazione e si esclude dai piaceri della vita: non va a teatro e al cinema, non sente la musica, non frequenta le donne, vive alla finestra e fa il suo lavoro. Era complicato rendere accattivante un personaggio così. Il fatto che la serie stia avendo dei riscontri positivi mi affascina perché vuol dire che siamo riusciti a fare un lavoro che sulla carta era quasi impossibile. Onore e merito a chi mi ha dato fiducia».È impressionante che una serie ambientata negli anni Trenta faccia questi ascolti: apre nuovi orizzonti alla serialità Rai.«Di questo posso essere solo felice. Sto riscontrando in questi giorni sui social un riconoscimento totale da parte di tutti sulla bellezza del prodotto. Questo significa aver alzato un po' l'asticella della qualità».Oltre alle storie, al personaggio e alla qualità del prodotto, quali sono le ragioni del successo?«In Italia si sta riscoprendo con grave ritardo quella che era stata una delle fortune del cinema italiano: lo sviluppo dei generi. Il nostro cinema negli anni Settanta faceva lo spaghetti-western, la commedia sexy, il poliziesco, la fantascienza, l'animazione, i film storici. Una certa critica bombardò pesantemente i generi, privilegiando l'autorialità, e così si è distrutta tutta l'industria cinematografica. La televisione in passato ha puntato quasi esclusivamente su un certo tipo di prodotto di intrattenimento più leggero, che, per carità, è giusto che esista, invece adesso sta riscoprendo i generi, anche perché c'è la concorrenza delle piattaforme che in qualche modo impone di diversificare l'offerta». Lei da giovane aveva fatto l'attore in alcuni sceneggiati televisivi...«Ho cominciato da bambino, a teatro con Visconti, poi sono passato con Strehler e ho fatto televisione con Bolchi, Cottafavi, Schivazappa, Ugo Sciascia. Al cinema ho recitato ne Il giardino dei Finzi Contini di De Sica».Come ha iniziato?«Casualmente. Una recita fatta a scuola, alla quale mia madre mi aveva iscritto per farmi vincere la mia timidezza. Una signora che faceva casting per Visconti cercava dei bambini, sapeva che c'era questa recita, è venuta a vederla e sono stato scelto. Il giorno dopo stavo sul palcoscenico del Teatro Valle a fare il provino con Visconti. È stata una serie di casualità che sono state straordinarie e che in qualche modo mi hanno cambiato la vita. Sono cresciuto nello spettacolo e a vent'anni ho cominciato a fare l'assistente costumi, l'assistente al montaggio, il producer, l'aiuto regista, fino a quando sono passato alla regia di spot, poi al cinema e al teatro».Ha fatto tutto nel mondo dello spettacolo!«Conosco tutta la filiera produttiva e quindi quando ho bisogno di qualcosa so esattamente cosa chiedere. Questo sicuramente è un vantaggio. Molti registi hanno fatto un corso di regia, a volte neanche quello. Oggi un film non si nega a nessuno: tutti fanno cinema! Io ho faticato in tutte le cose che ho fatto, dalla pubblicità al cinema, dal teatro alla televisione. Sono un battitore libero, un indipendente: questa è una cosa che mi fa molto piacere. Riesco ancora a fare il mio lavoro amore e passione».Ha altri progetti per il cinema?«In questo momento sto girando una nuova serie, che finirà alla fine di maggio e andrà in onda a ottobre, Un professore, con Alessandro Gassman. Tratta non solo della scuola, ma di tutte le relazioni interpersonali. È un bellissimo progetto, completamente diverso da Ricciardi. Tutta la mia filmografia è all'insegna della non ripetizione, mettermi in discussione, non offrire al pubblico una minestra riscaldata. Quello che mi manca adesso è il teatro».
Charlie Kirk (Getty Images). Nel riquadro Tyler Robinson