2024-12-23
«Con i nostri risparmi Draghi vuol finanziare l’industria tedesca»
Il leghista Alberto Bagnai: «Criticando in ritardo l’austerità, punta a un mercato unico dei capitali. È il solito schema: più Europa. Non ci conviene».Alberto Bagnai, lei era critico dell’Ue molto prima di entrare nella Lega. Ora pare cambiato il mondo: anche Mario Draghi dice che i salari sono troppo bassi. Che succede? «Le parole pronunciate da Draghi al Cepr sono sorprendenti. Lo è soprattutto l’affermazione che dopo la grande crisi tutti gli Stati membri dell’Eurozona avevano spazio fiscale ma hanno “deliberatamente deciso di non usarlo”, cioè di non fare politiche espansive. Suona come una amara beffa, o come uno scarico di responsabilità, da parte di chi firmò nell’agosto del 2011 la lettera con cui la Bce dettò l’agenda dell’austerità».Sembra che ora si possano dire delle cose che prima erano tabù.«Non è la prima volta che succede. Il 7 settembre 2015 Francesco Giavazzi ammise sul blog del Cepr che la crisi da cui venivamo non era causata dal debito pubblico ma dal debito estero. Era la tesi con cui avevo aperto il mio blog il 16 novembre 2011, l’atto fondativo di un movimento di consapevolezza culturale liquidato dai media come “no euro”, le cui analisi sono state proposte a tutti i leader politici, ma capite solo da Salvini (è tutto pubblico, tutto documentato), e oggi parzialmente sdoganate perfino da Draghi! Quello è stato il vero rovesciamento di paradigma, ma la resistenza culturale è ancora forte. Nei salotti buoni (in senso accademico) questa narrazione della crisi è unanime, ma sui media si continua a ragionare in termini ottocenteschi! Ciò rende sospetto questo appello contro l’austerità e contro le politiche mercantiliste. Proprio perché è vecchia, questa “nuova” analisi del problema va letta in funzione di quello serve a proporci».Che cosa ci viene proposto, esattamente?«Nel suo documento Draghi è in visibile difficoltà, perché deve ammettere il fallimento di un modello che finora pochi avevano contestato. Basarsi sulle esportazioni, abbattendo i salari per promuoverle, svuota di significato il mercato unico europeo, perché svuota il portafoglio dei suoi consumatori. Insomma, impedisce al mercato unico di compensare le recessioni dell’economia globale. Questa è la contraddizione fondamentale. La proposta, naturalmente, è quella di insistere sulla strada sbagliata, secondo uno schema familiare (più Europa, più dosi, ecc.). Secondo Draghi ci vuole più mercato, nel senso di rimozione delle barriere interne, e di unione del mercato dei capitali. Quest’ultima servirebbe a raccordare i risparmi di chi ce li ha, cioè dell’Italia, con i bisogni di chi non ce li ha, cioè i Paesi del Nord, per rianimare la loro domanda con i nostri soldi privati anziché con i loro soldi pubblici. Ma perché mai un risparmiatore italiano dovrebbe convogliare i propri risparmi verso economie in visibile sofferenza, come quella tedesca?».Quanto ha pesato il conflitto in Ucraina sulla sofferenza tedesca e quanto è stato funzionale a provocarla?«La sofferenza ha origini più antiche: è stata provocata dalla reazione degli Usa all’immenso surplus estero tedesco, causato dalla svalutazione competitiva dell’euro di quasi il 40% dal 2011 al 2015. Questa svalutazione serviva alla Germania per conquistare mercati esteri, dopo che il mercato unico era stato distrutto dall’austerità. La reazione Usa inizia appunto nel 2015 con il Dieselgate. La Germania ha poi ribattuto spingendo l’agenda green, un disperato tentativo di riconvertire la sua impresa automotive a spese nostre. L’indice della produzione industriale tedesco era su un trend discendente dalla metà del 2017. La guerra non ha aiutato, il Covid non ha aiutato, ma il trend era negativo già da tre anni. È proprio il modello tedesco che non funziona: se ti affidi solo alle esportazioni, non dovresti distruggere o indispettire i tuoi mercati di sbocco». Adesso che si fa, come le recepiamo queste parole di Draghi?«Il problema era chiaro da tempo, ma non solo a me. I resoconti parlamentari chiariscono che la natura recessiva del progetto europeo era chiara ai miei colleghi della Lega nel 2011, o ai parlamentari del Pci nel 1978. Dopo aver cercato di tenere i cocci insieme svalutando l’euro, Draghi ora, come dicevo, vorrebbe compensare gli squilibri interni all’Eurozona coi flussi di capitale: vuole sostanzialmente che i risparmi degli italiani vadano a rifinanziare l’industria del Nord. Il mantra da cui stare in guardia è che “per ripartire non ci vuole debito - sottinteso: pubblico - ma equity”, cioè capitale di rischio, dove il capitale nostro sarebbe per loro e il rischio loro ricadrebbe su di noi. Ora, noi abbiamo una necessità vitale di infrastrutturare le nostre economie, ce l’ha in particolare la Germania, ma continuiamo a raccontarci che non possiamo farlo con debito pubblico, nonostante che l’austerità abbia avuto il risultato di mandare l’economia in recessione e quindi far crescere il rapporto debito/Pil. A partire dall’eticizzazione del debito fatta da Draghi, parlando di debito buono e debito cattivo, il discorso si è arricchito di un’altra, inquietante sfumatura: il keynesismo bellico, ovvero il fatto che il debito pubblico si può fare, ma è buono solo se serve a riarmarsi».Insomma: ancora austerità tranne quando si spende per cose giudicate buone dall’establishment.«Bisogna riflettere sullo scopo dell’austerità. Dietro l’austerità non c’è tanto il desiderio di risanare la finanza pubblica, quanto il desiderio di riorientare la distribuzione del reddito a favore del capitale. Se si tiene presente questo elemento, tutte le cose che via via vengono dette si ricompongono in un quadro coerente».Questo approccio quanto ha condizionato la manovra«La manovra è ispirata a un atteggiamento di prudenza, ma non è regressiva: quasi 18 miliardi vengono dedicati ai redditi medio-bassi. Ricordo che la vera zavorra sulla manovra è la necessità di smaltire in rate annuali da 40 miliardi il buco creato dal Superbonus».Il Superbonus non era spesa pubblica buona?«Il Superbonus, come lo stop al motore a scoppio nel 2035, hanno in comune l’irrazionalità ideologica a trazione “green”. Il Superbonus, in particolare, eliminando il contrasto di interessi, ha causato un’esplosione di domanda nel settore delle costruzioni che ha innescato qui da noi la crisi delle materie prime. L’ottimismo della volontà “verde” trascura sempre lo studio delle filiere produttive coinvolte. Lo si vede anche coi pannelli fotovoltaici: sono fatti tutti in Cina, e quindi aumentano, anziché diminuire, le emissioni di CO2, perché vengono prodotti bruciando carbone. La risposta breve è: no, non è stata una buona spesa pubblica».Si continua a parlare dei problemi del modello europeo. Ma esiste una alternativa credibile?«Tra il mondo che Draghi voleva nel 2011 e quello che sembra volere nel 2024 c’è un ostacolo: l’euro. È l’unione monetaria che costringe ad abbattere i salari per promuovere le esportazioni. Questo ostacolo l’Italia ha dimostrato di poterlo scavalcare, Germania e Francia no. Sta a loro quindi proporre soluzioni. Queste non vanno cercate in direzione di “più Europa”, cioè di più debito comune, più burocrazia e più vincoli, ma di “meno Europa”. Del resto, Draghi confessa che nel 2011 gli Stati nazionali potevano evitare la crisi usando il proprio spazio fiscale! Senza rendersene conto, Draghi dice che non c’è bisogno di strumenti comuni. L’unione monetaria sarà anche irreversibile, ma per essere sostenibile deve tornare al suo disegno originale, quello espresso nel position paper «One Market One Money» del 1990, dove si attribuiva ai bilanci pubblici nazionali il compito di correggere gli squilibri che l’unione monetaria avrebbe creato. Questa capacità di correzione, di cui Draghi lamenta la mancanza, si è persa con il Patto di stabilità e crescita voluto dalla diffidente Germania nel 1997».Il nuovo patto non sembra molto meglio...«Concordo, non è tanto meglio, ma un po’ sì, se non altro perché lo stavamo studiando da quando nel 2018 il Cepr lo discuteva nel suo blog. Il fatto è che l’idea stessa di governare applicando regole è irrazionale, ma il rimedio è proprio in questa assurdità: quando abbiamo avuto bisogno di crescita, abbiamo dovuto sospendere il Patto di stabilità e crescita! Il vantaggio è che adesso l’incentivo a disapplicare le regole lo hanno Germania e Francia. A dicembre 2023 è stata fatta una scelta strategica ben precisa: non potendo dire di no a tutto, si è detto di no alla riforma del Mes, sapendo che alle nuove regole avrebbero dovuto rimettere mano loro. Dobbiamo accompagnare questa evoluzione».Insomma siamo sempre appesi ad altri.«Certo, siamo dipendenti e interdipendenti, e anche per questo non dobbiamo rallegrarci del fatto che gli altri siano in difficoltà. Peraltro, che la Germania stesse segando il ramo su cui era seduta, e che questo esponesse tutti gli altri a rischi, era scritto nel Tramonto dell’euro (2012). La visione di chi pensava a un futuro agganciato alla “locomotiva tedesca” è stata sconfitta prima dalla logica e poi dalla storia. Ne esce vincitrice la visione nazionale: promuovere un mercato italiano florido come strumento essenziale per assorbire gli shock che provengono dall’economia globale. Resta il fatto che, a causa della natura competitiva e non cooperativa dell’attuale progetto europeo, le difficoltà altrui ci conferiscono un vantaggio relativo». Concretamente che cosa dovrebbe fare il governo per sfruttare questa fase e coglierne le opportunità?«Quello che sta facendo: presentarsi nelle sedi europee forte del suo consenso in patria e chiamare gli altri a un’operazione di verità, esercitando massima cautela su tutto quello che viene proposto come “comune”. I fatti hanno dimostrato che gli indirizzi politici europei non si sono sempre rivelati migliori di quelli dei governi nazionali. Ci vuole meno Europa».
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