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2021-06-27
Con i criteri utilizzati contro Orbàn l’Ue dovrebbe bandire il bavaglio arcobaleno
Viktor Orban (Ansa)
Europa e Ungheria continuano a darsi botte da Orbán per la legge «anti Lgbt» di Budapest.
Ieri, al ministro della Giustizia magiaro, Judit Varga, è arrivata una missiva del commissario Ue per la Giustizia, Didier Reynders, e di quello per il Mercato interno e i servizi, Thierry Breton. Gli emissari di Bruxelles chiedono al governo ungherese «chiarimenti, spiegazioni e informazioni», sollevando obiezioni alla norma sul gender. I firmatari esigono una replica entro fine mese e ricordano che, «se la legge entrerà in vigore, la Commissione non esiterà a prendere provvedimenti».
Riaffiora un paradosso già messo in luce dalla Verità: proprio come ha fatto il Vaticano con l'Italia, rispetto al ddl Zan, l'Europa contesta una legge in virtù di un trattato siglato dal Paese di Viktor Orbán (il Trattato sul funzionamento dell'Ue), della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione e di due direttive sui servizi audiovisivi e l'e-commerce. La logica è la medesima: si rimprovera a uno Stato di aver sottoscritto obbligazioni giuridiche, ma di averle violate con una legge nazionale successiva. Perché ci si stracciano le vesti per l'ingerenza della Chiesa, ma non per quella di Ursula von der Leyen? In questo caso, anzi, c'è un'aggravante che manca nella Nota verbale vaticana: un ultimatum ai recalcitranti magiari, con tanto di minaccia di sanzioni.
Ma anche le critiche avanzate nel documento lasciano perplessi, senza che si debba per forza imbastire una crociata in difesa di una legge sicuramente discutibile e di difficile applicazione.
Quanto alle lamentate limitazioni dei diritti, si fatica a comprendere per quale motivo l'idea di tenere i minori lontani da «un contenuto che sia pornografico o ritragga la sessualità in modo gratuito o che diffonda o ritragga la divergenza dall'autoidentità corrispondente al sesso alla nascita, il cambio di sesso o l'omosessualità», debba essere in contrasto con gli articoli 7 e 9 della Carta Ue dei diritti. L'articolo 7 dispone: «Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle proprie comunicazioni». Il 9 recita: «Il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l'esercizio». Il che, peraltro, non esclude che un Paese possa negare matrimoni e adozioni alle coppie gay. A ogni modo, cosa c'entra la rappresentazione dell'omosessualità con il diritto alla vita privata e familiare, o con quello a contrarre matrimonio? A meno che - ma ciò giustificherebbe le preoccupazioni degli ungheresi - non si tratti esattamente di fare «propaganda gay», ossia di convincere i giovanissimi ad abbracciare l'ideologia gender e ad adottare la filosofia della «fluidità».
Davanti ai continui richiami a mercato e libertà d'impresa, si può solo constatare che abbiamo di fronte due mondi separati da una radicale incomunicabilità. Da un lato, chi appiccica qualche frettolosa considerazione sui diritti a un'argomentazione in cui l'economia diventa il grimaldello della politica; dall'altro, chi privilegia la salvaguardia delle fondamenta etiche della propria comunità. I detrattori hanno sempre avuto buon gioco a rievocare la formula «democrazia illiberale», coniata da Orbán, dimenticandosi che egli, forte di un solido consenso nel Paese, la intende anzitutto come «democrazia cristiana». È davvero un modello meno legittimo e inclusivo dell'eurocrazia, incentrata su regole di bilancio e diktat delle minoranze più chiassose e aggressive?
Un'altra contestazione della missiva si riferisce all'articolo 11 della Carta dei diritti, che tutela libertà d'espressione e informazione senza «ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera». A questo punto si collegano le ansie per le sorti della libera d'impresa (articolo 16) e, più specificamente, per la facoltà di diffondere oltreconfine materiali audiovisivi. I commissari assicurano che le fattispecie bandite dalla normativa ungherese non «danneggiano manifestamente, seriamente e gravemente lo sviluppo fisico, mentale o morale dei minori» e che non posso essere considerate «un'autentica, sufficientemente seria minaccia che riguardi uno degli interessi fondamentali della società». Ma non spiegano perché. Siamo, insomma, alla parola di Burxelles contro quella di Budapest. Con un'ulteriore bizzarria: se chi produce film o spot a sfondo Lgbt ha il diritto di trasmetterli in tutta l'Unione, i ragazzi hanno il diritto di guardarli. Ergo, l'impianto valoriale dell'Europa, che ha appena inserito quello all'aborto tra i diritti umani essenziali, contempla un controsenso: il minore non ha diritto di nascere, ma ha diritto di guardare scene omoerotiche.
Senza contare - e sta qui la contraddizione principale - che le stesse obiezioni mosse alla legge ungherese andrebbero indirizzate al ddl Zan. Precludere la divulgazione di immagini che ritraggono l'omosessualità o la transessualità mina la libertà d'espressione? Bene: e non è ugualmente in pericolo la libertà d'espressione di chi critica l'antropologia gender, gli usi della comunità Lgbt, o le sue rivendicazioni politiche, ma rischia che certe opinioni subiscano uno scrutino giudiziario? È normale che un deputato (Alessandro Zan) illustri ai sacerdoti, dalle colonne di un quotidiano, cosa possono o non possono dire in un'omelia? Il fatto che si consideri, sic et simplicter, un omofobo chi promuove la famiglia naturale, non viola gli articoli 7 e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Ue? Qualora il ddl Zan fosse approvato, anche il nostro Guardasigilli, Marta Cartabia, dovrà aspettarsi una letterina di Reynders e Breton?
Il Pride torna a sfilare in sei città. A Roma apre un Gesù Cristo Lgbt
«Per uno Stato laico aboliamo il Concordato. Scendiamo in piazza con i nostri corpi. Con tutte le sfumature del nostro arcobaleno». È stato lo slogan più ripetuto ieri pomeriggio a Roma durante l'evento dell'orgoglio e ostentazione Lgbtqia+ (lesbico, gay, bisessuale, transessuale, intersessuale), che doveva essere stanziale e che invece tra cortei e sit in ha provocato diversi disagi alla circolazione. Dopo lo stop dello scorso anno agli eventi in presenza, causa Covid, ieri ad Ancora, L'Aquila, Faenza, Martina Franca, Milano e Roma è arrivata la cosiddetta «onda pride» ossia i 6 pride organizzati dal movimento a conclusione del Pride month, occasione per riaffermare che sul ddl Zan non si arretra e non verrà accettato alcun compromesso: «Lo vogliamo così come è». Dopo l'intervento della Santa Sede che, nei giorni scorsi, aveva chiesto modifiche al disegno di legge perché in contrasto con il Concordato, anche il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, dal palco all'Arco della Pace ha detto: «Il messaggio è: approviamo in fretta il ddl Zan. Milano ha fatto una serie di cose in questo decennio ma c'è altro da fare: sarebbe utile una delegata contro le discriminazioni e bisogna riprendere la battaglia sulla genitorialità. La sinistra deve tenere una posizione ferma e in tal senso credo che si debba dialogare, ma se iniziamo a buttare in là la cosa non la facciamo, credo si debba accelerare». Poi ha chiamato sul palco il deputato Pd primo firmatario del dl contro l'omotransfobia ed esponente della comunità Lgbtq, Alessandro Zan e gli ha regalato il suo orologio arcobaleno, che sfoggiava da qualche giorno: «Scandisca il tuo tempo per raggiungere l'obiettivo finale della legge». Zan, molto compiaciuto per la piazza piena di giovani, «che chiedono finalmente all'Italia che venga riconosciuta la libertà di tutti i cittadini», ha ribadito che «noi siamo un Paese dell'Ue che ancora non si è dotato di una legge contro i crimini d'odio e questo è molto grave. Stiamo parlando di violenza, di discriminazione, di bullismo, abbiamo un problema di violazione dei principi di uguaglianza». E ha definito l'intervento del Vaticano «un'invasione di campo che mi ha sorpreso. Il testo che abbiamo approvato alla Camera a larghissima maggioranza va incontro a tantissime diverse sensibilità in particolare a quelle del mondo cattolico». Poi non ha evitato un attacco al leader della Lega: «Il problema non è personale, è politico. Salvini sostiene Orbàn, dice di aver letto la sua legge e di non trovarci nulla di strano. Come possiamo noi sederci a un tavolo delle trattative con chi, come Salvini e Meloni, sostiene quei Paesi che stanno facendo delle leggi discriminatorie, inaccettabili, e che ci stanno portando nel momento più buio del secolo scorso? Il dialogo è aperto con tutti ma non con chi vuole affossare la legge o svuotarla del suo significato».
Nella capitale gli organizzatori dell'evento hanno spiegato lo striscione «Orgoglio e ostentazione» dietro ad un Cristo Lgbt con corona di spine, stimmate colorate e lenzuolo arcobaleno. Una performance che non è piaciuta a Giorgia Meloni, che si è chiesta: «Per quanto mi interroghi, non riesco a trovare una risposta a questa domanda: che bisogno c'è di mancare di rispetto a milioni di fedeli per sostenere le proprie tesi?».
A Bologna, invece, più che una performance uno sfregio: per lanciare la settimana transfemminista e transnazionale, le femministe hanno sfilato con una mitra rosa in testa, calpestando e lasciando impronte (rosa anche queste) sui volti di Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Simone Pillon, Mario Adinolfi, Viktor Orbàn, Donald Trump e papa Francesco.
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Bruxelles attacca l'Ungheria su diritti e libertà d'espressione. Ma neanche la legge feticcio della sinistra supererebbe l'esame.Giorgia Meloni critica l'insulto alla religione: «Perché mancare di rispetto ai fedeli?»Europa e Ungheria continuano a darsi botte da Orbán per la legge «anti Lgbt» di Budapest.Ieri, al ministro della Giustizia magiaro, Judit Varga, è arrivata una missiva del commissario Ue per la Giustizia, Didier Reynders, e di quello per il Mercato interno e i servizi, Thierry Breton. Gli emissari di Bruxelles chiedono al governo ungherese «chiarimenti, spiegazioni e informazioni», sollevando obiezioni alla norma sul gender. I firmatari esigono una replica entro fine mese e ricordano che, «se la legge entrerà in vigore, la Commissione non esiterà a prendere provvedimenti». Riaffiora un paradosso già messo in luce dalla Verità: proprio come ha fatto il Vaticano con l'Italia, rispetto al ddl Zan, l'Europa contesta una legge in virtù di un trattato siglato dal Paese di Viktor Orbán (il Trattato sul funzionamento dell'Ue), della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione e di due direttive sui servizi audiovisivi e l'e-commerce. La logica è la medesima: si rimprovera a uno Stato di aver sottoscritto obbligazioni giuridiche, ma di averle violate con una legge nazionale successiva. Perché ci si stracciano le vesti per l'ingerenza della Chiesa, ma non per quella di Ursula von der Leyen? In questo caso, anzi, c'è un'aggravante che manca nella Nota verbale vaticana: un ultimatum ai recalcitranti magiari, con tanto di minaccia di sanzioni. Ma anche le critiche avanzate nel documento lasciano perplessi, senza che si debba per forza imbastire una crociata in difesa di una legge sicuramente discutibile e di difficile applicazione. Quanto alle lamentate limitazioni dei diritti, si fatica a comprendere per quale motivo l'idea di tenere i minori lontani da «un contenuto che sia pornografico o ritragga la sessualità in modo gratuito o che diffonda o ritragga la divergenza dall'autoidentità corrispondente al sesso alla nascita, il cambio di sesso o l'omosessualità», debba essere in contrasto con gli articoli 7 e 9 della Carta Ue dei diritti. L'articolo 7 dispone: «Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e delle proprie comunicazioni». Il 9 recita: «Il diritto di sposarsi e di costituire una famiglia sono garantiti secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l'esercizio». Il che, peraltro, non esclude che un Paese possa negare matrimoni e adozioni alle coppie gay. A ogni modo, cosa c'entra la rappresentazione dell'omosessualità con il diritto alla vita privata e familiare, o con quello a contrarre matrimonio? A meno che - ma ciò giustificherebbe le preoccupazioni degli ungheresi - non si tratti esattamente di fare «propaganda gay», ossia di convincere i giovanissimi ad abbracciare l'ideologia gender e ad adottare la filosofia della «fluidità».Davanti ai continui richiami a mercato e libertà d'impresa, si può solo constatare che abbiamo di fronte due mondi separati da una radicale incomunicabilità. Da un lato, chi appiccica qualche frettolosa considerazione sui diritti a un'argomentazione in cui l'economia diventa il grimaldello della politica; dall'altro, chi privilegia la salvaguardia delle fondamenta etiche della propria comunità. I detrattori hanno sempre avuto buon gioco a rievocare la formula «democrazia illiberale», coniata da Orbán, dimenticandosi che egli, forte di un solido consenso nel Paese, la intende anzitutto come «democrazia cristiana». È davvero un modello meno legittimo e inclusivo dell'eurocrazia, incentrata su regole di bilancio e diktat delle minoranze più chiassose e aggressive? Un'altra contestazione della missiva si riferisce all'articolo 11 della Carta dei diritti, che tutela libertà d'espressione e informazione senza «ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera». A questo punto si collegano le ansie per le sorti della libera d'impresa (articolo 16) e, più specificamente, per la facoltà di diffondere oltreconfine materiali audiovisivi. I commissari assicurano che le fattispecie bandite dalla normativa ungherese non «danneggiano manifestamente, seriamente e gravemente lo sviluppo fisico, mentale o morale dei minori» e che non posso essere considerate «un'autentica, sufficientemente seria minaccia che riguardi uno degli interessi fondamentali della società». Ma non spiegano perché. Siamo, insomma, alla parola di Burxelles contro quella di Budapest. Con un'ulteriore bizzarria: se chi produce film o spot a sfondo Lgbt ha il diritto di trasmetterli in tutta l'Unione, i ragazzi hanno il diritto di guardarli. Ergo, l'impianto valoriale dell'Europa, che ha appena inserito quello all'aborto tra i diritti umani essenziali, contempla un controsenso: il minore non ha diritto di nascere, ma ha diritto di guardare scene omoerotiche. Senza contare - e sta qui la contraddizione principale - che le stesse obiezioni mosse alla legge ungherese andrebbero indirizzate al ddl Zan. Precludere la divulgazione di immagini che ritraggono l'omosessualità o la transessualità mina la libertà d'espressione? Bene: e non è ugualmente in pericolo la libertà d'espressione di chi critica l'antropologia gender, gli usi della comunità Lgbt, o le sue rivendicazioni politiche, ma rischia che certe opinioni subiscano uno scrutino giudiziario? È normale che un deputato (Alessandro Zan) illustri ai sacerdoti, dalle colonne di un quotidiano, cosa possono o non possono dire in un'omelia? Il fatto che si consideri, sic et simplicter, un omofobo chi promuove la famiglia naturale, non viola gli articoli 7 e 9 della Carta dei diritti fondamentali dell'Ue? Qualora il ddl Zan fosse approvato, anche il nostro Guardasigilli, Marta Cartabia, dovrà aspettarsi una letterina di Reynders e Breton?<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/con-i-criteri-utilizzati-contro-orban-lue-dovrebbe-bandire-il-bavaglio-arcobaleno-2653562825.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="il-pride-torna-a-sfilare-in-sei-citta-a-roma-apre-un-gesu-cristo-lgbt" data-post-id="2653562825" data-published-at="1624750524" data-use-pagination="False"> Il Pride torna a sfilare in sei città. A Roma apre un Gesù Cristo Lgbt «Per uno Stato laico aboliamo il Concordato. Scendiamo in piazza con i nostri corpi. Con tutte le sfumature del nostro arcobaleno». È stato lo slogan più ripetuto ieri pomeriggio a Roma durante l'evento dell'orgoglio e ostentazione Lgbtqia+ (lesbico, gay, bisessuale, transessuale, intersessuale), che doveva essere stanziale e che invece tra cortei e sit in ha provocato diversi disagi alla circolazione. Dopo lo stop dello scorso anno agli eventi in presenza, causa Covid, ieri ad Ancora, L'Aquila, Faenza, Martina Franca, Milano e Roma è arrivata la cosiddetta «onda pride» ossia i 6 pride organizzati dal movimento a conclusione del Pride month, occasione per riaffermare che sul ddl Zan non si arretra e non verrà accettato alcun compromesso: «Lo vogliamo così come è». Dopo l'intervento della Santa Sede che, nei giorni scorsi, aveva chiesto modifiche al disegno di legge perché in contrasto con il Concordato, anche il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, dal palco all'Arco della Pace ha detto: «Il messaggio è: approviamo in fretta il ddl Zan. Milano ha fatto una serie di cose in questo decennio ma c'è altro da fare: sarebbe utile una delegata contro le discriminazioni e bisogna riprendere la battaglia sulla genitorialità. La sinistra deve tenere una posizione ferma e in tal senso credo che si debba dialogare, ma se iniziamo a buttare in là la cosa non la facciamo, credo si debba accelerare». Poi ha chiamato sul palco il deputato Pd primo firmatario del dl contro l'omotransfobia ed esponente della comunità Lgbtq, Alessandro Zan e gli ha regalato il suo orologio arcobaleno, che sfoggiava da qualche giorno: «Scandisca il tuo tempo per raggiungere l'obiettivo finale della legge». Zan, molto compiaciuto per la piazza piena di giovani, «che chiedono finalmente all'Italia che venga riconosciuta la libertà di tutti i cittadini», ha ribadito che «noi siamo un Paese dell'Ue che ancora non si è dotato di una legge contro i crimini d'odio e questo è molto grave. Stiamo parlando di violenza, di discriminazione, di bullismo, abbiamo un problema di violazione dei principi di uguaglianza». E ha definito l'intervento del Vaticano «un'invasione di campo che mi ha sorpreso. Il testo che abbiamo approvato alla Camera a larghissima maggioranza va incontro a tantissime diverse sensibilità in particolare a quelle del mondo cattolico». Poi non ha evitato un attacco al leader della Lega: «Il problema non è personale, è politico. Salvini sostiene Orbàn, dice di aver letto la sua legge e di non trovarci nulla di strano. Come possiamo noi sederci a un tavolo delle trattative con chi, come Salvini e Meloni, sostiene quei Paesi che stanno facendo delle leggi discriminatorie, inaccettabili, e che ci stanno portando nel momento più buio del secolo scorso? Il dialogo è aperto con tutti ma non con chi vuole affossare la legge o svuotarla del suo significato». Nella capitale gli organizzatori dell'evento hanno spiegato lo striscione «Orgoglio e ostentazione» dietro ad un Cristo Lgbt con corona di spine, stimmate colorate e lenzuolo arcobaleno. Una performance che non è piaciuta a Giorgia Meloni, che si è chiesta: «Per quanto mi interroghi, non riesco a trovare una risposta a questa domanda: che bisogno c'è di mancare di rispetto a milioni di fedeli per sostenere le proprie tesi?». A Bologna, invece, più che una performance uno sfregio: per lanciare la settimana transfemminista e transnazionale, le femministe hanno sfilato con una mitra rosa in testa, calpestando e lasciando impronte (rosa anche queste) sui volti di Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Simone Pillon, Mario Adinolfi, Viktor Orbàn, Donald Trump e papa Francesco.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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