2022-06-18
Uniti si vince, quindi si va divisi. Come perdere Verona con il 56%
Federico Sboarina e Flavio Tosi (Ansa)
Federico Sboarina e Flavio Tosi litigano ponendo le basi per il suicidio del centrodestra. Senza che i leader nazionali intervengano per evitare una sconfitta durissima per la città e per la coalizione, che apparirebbe inadeguata.Ma come faranno a governare l’Italia se non riescono a governare un accordo con Federico Sboarina? Non può essere ridotto a questione locale, il grande pasticcio della Fatal Verona dove il centrodestra sta per riuscire nella gloriosa impresa di perdere avendo il 56 per cento dei voti e una lunga tradizione di egemonia della città. Dal 1946 a oggi, qui solo due sono stati i sindaci di sinistra: il terzo potrebbe essere un ex calciatore della Nazionale, Damiano Tommasi, che sa di pubblica amministrazione quanto io so di astrofisica nucleare. Ma che ha il volto e i modi giusti per nascondere il peggio delle ideologie gauchiste. Le quali ideologie, ancora una volta, si troverebbero a dominare nei palazzi pur essendo minoranza fra gli elettori. E tutto questo perché? Perché il centrodestra, genialmente, si presenta alle urne unito come una torta sbrisolona finita sotto un Tir. La vicenda è fin troppo nota: a Verona, al primo turno, c’erano due candidati di centrodestra, il sindaco uscente, Federico Sboarina, con il sostegno di Fratelli d’Italia e Lega, e l’ex sindaco leghista Flavio Tosi, con il sostegno di Forza Italia. Il primo ottiene il 32,7 per cento e passa per un pelo al ballottaggio; il secondo il 23,9 per cento e passa a Forza Italia (senza ballottaggio ma con una cena a base di lambrusco). Entrambi vengono superati dal candidato di centrosinistra Tommasi che sfiora quasi il 40 per cento. A questo punto sembra logico che i due polli del centrodestra uniscano le forze, come avevano dichiarato in campagna elettorale («Saranno come le primarie, chi perde sostiene l’altro…») per cercare di evitare la catastrofe totale. E invece no: non paghi della imbarazzante figuraccia al primo turno, provano a fare di peggio al secondo mettendosi a litigare come comari e così ponendo le basi per sfracellarsi allegramente, senza che nessuno dei leader nazionali possa o voglia o riesca a convincerli che errare è umano ma perseverare è diabolico. O, peggio, è suicida. La cosa che colpisce è che tutto ciò avviene in una città importante, simbolica, che rischia di avere un impatto mediatico devastante e di colorare di negativo l’intero turno elettorale, cancellando anche i risultati positivi che ci sono stati e offrendo alla macchina della propaganda di sinistra un’arma micidiale. Ma non solo. La cosa che colpisce è che il centrodestra si presenta disunito subito dopo aver ripetuto in ogni occasione che «il centrodestra vince solo se è unito». Quante volte l’avete sentito prima e dopo ogni pasto elettorale? È una specie di mantra. Facendo una ricerca su Google con la frase «il centrodestra unito vince» in 0,42 secondi (meno di mezzo secondo) escono 952.000 risultati. Nelle ultime ore l’hanno detto tutti, ma proprio tutti: da Salvini alla Meloni, da Gianfranco Micciché (Sicilia) ad Attilio Fontana (Lombardia), da Dario Galli (Lega) a Gabriella Giammanco (Forza Italia) a Francesco Lollobrigida (Fratelli d’Italia) fino ad arrivare a Cipriano Paolincelli, della sezione Mediavalle che ha commentato i risultati di Bagni di Lucca dicendo: «Il centrodestra unito avrebbe vinto». E tutti a citare il modello Genova («il centrodestra unito vince») o il modello L’Aquila («Il centrodestra unito vince») o il modello Palermo («Il centrodestra unito vince»). Tutti a commentare il fatto che gli elettori del centrodestra sono spietati con le divisioni, non tollerano le separazioni, puniscono le liti. Tutti a ripetere, insomma, che il centrodestra per vincere deve essere unito. E poi a Verona, pure al secondo turno, il centrodestra si presenta disunito? Ma che cos’è? Il Gran Premio dei Ciapa No? Tecnicamente l’unione dovrebbe avvenire tramite l’apparentamento. Tosi (il candidato escluso) si è detto disponibile, Sboarina (il candidato andato al ballottaggio) no. Il motivo del diniego è che Sboarina, in caso di vittoria con l’apparentamento, dovrebbe cedere alla lista Tosi 8 dei 22 seggi della maggioranza in Consiglio, oltre che qualche assessorato. Perbacco. Otto seggiole in consiglio comunale e qualche cadrega da assessore: si capisce, sono cose importanti. Ma così importanti da sfasciare il centrodestra? Da far passare in negativo l’intera tornata elettorale? Da dare un colpo mortale alle ambizioni di avere un governo diverso non solo a Verona ma nel Paese? Fra l’altro, Sboarina ci pensi: se non accetta il sostegno di Tosi, perde sicuramente e dunque quelle seggiole e quelle cadreghe non le conserva per sé. Le regala tutte alla sinistra. E allora: che senso ha il gran rifiuto? In apparenza nessuno. Nessun senso. E allora perché il sindaco uscente, dopo il flop al primo turno, dopo aver racimolato appena il 30 per cento dei voti, continua a insistere sulla linea «io ballo da solo»? Perché preferisce andare alla sconfitta in solitudine che alla lotta per la vittoria in tandem? Perché preferisce perdere che governare con l’aiuto di un altro candidato del centrodestra? Pare che sia preoccupato, in caso di vittoria con apparentamento, di non riuscire a realizzare il programma. Teme che le divisioni con Tosi (politiche e personali) potrebbero trasferirsi in Consiglio comunale, tenendolo ostaggio e impedendogli di governare. Magari sarà vero. Ma resta una scelta illogica: perché andare a una catastrofe certa adesso per paura di una impasse probabile futura? Avrei una proposta per Sboarina: si dimostri di destra, coraggioso e vero patriota. Accetti l’apparentamento e provi a vincere le elezioni. Se poi, dopo aver vinto, non riuscisse a governare, si potrà dimettere denunciando chi glielo impedisce. Ma faccia di tutto per evitare questa sconfitta che non sarebbe solo catastrofica per Verona ma farebbe rimbalzare per tutto il Paese l’immagine di un centrodestra spaccato e litigioso, una coalizione che ogni volta nell’urna impara daccapo la lezione del «dobbiamo essere uniti», salvo dimenticarsene un’ora dopo. Memoria troppo flebile per chi si candida a governare il Paese. Mentre gli elettori, al contrario, ricordano tutto.