2025-02-03
«Il rimpatrio di Almasri è sacrosanto»
Paolo Cirino Pomicino (Ansa)
L’ex ministro dc Paolo Cirino Pomicino: «Si chiama ragione di Stato, rischiavamo di essere invasi da centinaia di migliaia di migranti. Oggi la politica è subalterna ai pm, bisogna separare le carriere. Il nuovo centro di Prodi? È una sciocchezza».Onorevole Paolo Cirino Pomicino, per caso la stiamo disturbando in questo momento, con questa telefonata? «No, no. Sono ricoverato in ospedale, ma di politica posso sempre parlare».Come sta? «Dopo due trapianti e qualche tribolazione, ora mi trovo alle prese con l’ipotiroidismo. Ma non mi arrendo. Cosa vuole sapere?».Paolo Cirino Pomicino, 85 anni, risponde al telefono con voce incerta, ma riacquista subito vigore quando viriamo sui suoi argomenti: il nuovo centro, il popolarismo, i cattolici che cercano casa, «ma questo tentativo di Romano Prodi mi sembra niente più che una sciocchezza», dice. «O’ Ministro», come lo chiamavano ai tempi dell’inossidabile corrente andreottiana della Dc, torna a fustigare «la sciatteria culturale» della seconda Repubblica, dove i partiti «fanno pure fatica ad affrontare la questione della ragion di Stato», come nel caso del rimpatrio di Almasri.Cominciamo proprio a questo argomento. Dopo la scarcerazione del generale libico, il premier Giorgia Meloni e tre membri del suo governo sono finiti indagati dalla Procura di Roma, con l’accusa di favoreggiamento e peculato. L’opposizione, intanto, ha deciso di bloccare i lavori del Parlamento. Lei ha fatto parte della cerchia ristretta della corrente andreottiana, quella che esprimeva una politica estera pragmatica, soprattutto nei confronti del mondo arabo. Che effetto le fanno queste polemiche? «A quanto pare, esiste un rapporto tra i nostri servizi e questo generale libico. E che ci siano rapporti, per me, è anche comprensibile».Si riferisce, per caso, ai patti tra Italia e Libia sui flussi dei migranti? «Se davvero questo personaggio godeva di certe garanzie da parte del governo libico, allora rimpatriarlo è stato sacrosanto. Altrimenti, rischieremmo di essere invasi da centinaia di migliaia di migranti».Dunque? «Dunque parrebbe una questione di Stato e, in questo caso, francamente non capisco la polemica: all’epoca nostra non ci siamo mai fatti problemi, quando c’era in ballo la sicurezza nazionale».Ecco, mi dica come ci si regolava ai tempi della prima Repubblica. «Tanto per fare un esempio: ai tempi, non avevamo alcuna difficoltà a prendere le difese di Muammar Gheddafi, quando l’interesse nazionale lo prevedeva. Negli anni Ottanta ci fu un attentato in una discoteca di Berlino e morirono diversi americani. La Casa Bianca riteneva responsabile il rais libico ed era pronta ad agire contro di lui, ma noi ci opponemmo. Sapevamo che la scomparsa di Gheddafi avrebbe fatto deflagrare lo scontro etnico in Libia».La famigerata Realpolitik? «Più volte Giulio Andreotti cercò di convincere Washington a non attaccare l’Iraq, perché si sarebbe incendiato tutto il Medio Oriente. Insomma, nella politica internazionale non si può agire d’impulso, senza considerare le conseguenze geopolitiche».Tornando all’oggi, che consiglio può dare al governo di Giorgia Meloni? «Al momento opportuno, si ponga il segreto di Stato sulla vicenda Almasri. Quando il governo si trova in una situazione di imbarazzo in relazione a questioni di sicurezza nazionale, ha il dovere di imporre riservatezza. D’altra parte, se i servizi segreti non sono segreti, allora che servizi sono?».Il premier ha detto che alcuni magistrati, con il loro comportamento, generano un «danno» all’Italia: «Se i giudici vogliono governare, si candidino». A più di trent’anni da Mani Pulite, siamo ancora impantanati nello scontro tra politica e giustizia. «Però qualche differenza con il passato ci sta. Ai tempi di Tangentopoli i pm prendevano l’iniziativa ma con l’avallo di enti esterni alla magistratura, cioè la sinistra politica e anche qualche potere importante di natura finanziaria. Per inciso: quando parlo di magistratura politicizzata, io mi riferisco ai pubblici ministeri, non ai giudici che, spesso, correggono certi eccessi. E non è un caso che tutti i magistrati che poi si sono candidati con la sinistra fossero rappresentanti della pubblica accusa».Dunque intende dire che, ai tempi di Tangentopoli, i pm si muovevano su ordine della politica? «Era la sinistra post-comunista, quella che aveva come riferimento Luciano Violante, a menare le danze. Erano loro a guidare l’assalto alla diligenza».E quali sono state le conseguenze? «Gli unici che hanno salvato la pelle dal tritacarne giudiziario sono quelli della sinistra democristiana, che hanno accettato la fine della Dc per consegnarsi agli eredi del Pci. Eppure, anche loro avevano bisogno di contributi elettorali. Si sono salvati, aderendo al progetto di Carlo De Benedetti».Quale progetto? «De Benedetti tramava fin dai primi anni Novanta per fondare un’alleanza tra il salotto buono della finanza e il Pci che, dopo il crollo del Muro di Berlino, non aveva più punti di riferimento. Casualmente, chi non ha accettato questo scenario è finito nei guai».E lei? «De Benedetti mi chiese di iscrivermi al progetto e, ovviamente, rifiutai. Alla fine ho dovuto subire 42 procedimenti giudiziari».Parlava di differenze tra ieri e oggi. In particolare, secondo lei, cosa è cambiato nei rapporti che intercorrono tra politica e giustizia? «Oggi non c’è più guida politica, i pm si muovono in totale autonomia. La politica è subalterna alle iniziative dei pubblici ministeri ed è una forza inerziale rispetto alle fughe in avanti delle toghe».E la separazione delle carriere? «Servirebbe a farla finita con pm e giudici sostanzialmente sovrapponibili. Il giudice non solo dev’essere “terzo” nella propria anima, ma la sua imparzialità dovrebbe essere chiara a tutti».Dunque anche lei è convinto che la magistratura esondi per carenza di potere della politica? «Da quando è nata la seconda Repubblica, la classe politica è precipitata nella sciatteria culturale. A tal punto che la frase “ragion di Stato”, come dicevamo prima, neanche riescono a pronunciarla».E perché? «Perché non c’è più coraggio, non ci sono più identità né punti di riferimento. Nessuno sa più chi è».In realtà Romano Prodi sta lanciando il nuovo centro, con l’aiuto di Graziano Del Rio: si chiama «Comunità democratica». «Sono solo sciocchezze. Ogni tanto s’inventano il centro, come se fosse un segnale stradale. Non vanno lontano».Lei dice? «C’è un unico modo per rifondare il centro: avere il coraggio di definirsi “popolari”, l’unica cultura storicamente equidistante da destra e sinistra».Come è stata per decenni la Balena bianca? «È l’unico segnale che testimonierebbe la sopravvivenza di una cultura politica, come avviene in Germania o in Austria. Finché non si definiranno popolari, quelli che dicono di rifare il centro sono solo comitati elettorali». Insomma, il punto è avere un’identità e non solo un’etichetta? «Ciriaco De Mita diceva: il popolarismo è l’unica forza storica che non è usurata dal tempo. Dovremmo prenderci la briga di ritornare alle grandi famiglie politiche europee. Una volta chiesi a Veltroni chi fosse e lui mi rispose: “Sono un democratico”. Ma che vuol dire?».Come sarebbe? «La parola Pd non ha senso, esiste solo in Italia: abbiano il coraggio di chiamarsi “socialisti” come i loro colleghi europei. Forza Italia, Italia viva, Fdi, per me sono nomi senza senso, come prodotti in vendita in un centro commerciale».Intanto l’ex ministro e segretario del Partito democratico, Dario Franceschini innesca un gran polverone nel centrosinistra, proponendo di correre separati alle elezioni, con tanti saluti al campo largo e alla leadership dell’attuale segretario dem, Elly Schlein. «Franceschini ha fatto la mossa giusta. Le maggioranze si fanno e si disfano in Parlamento. Ognuno vada per conto proprio. È questa la natura delle democrazie parlamentari d’Europa. Si torni al sistema proporzionale, che è l’unico modo per superare l’incertezza della politica e i vari personalismi: ricordiamoci che nella seconda Repubblica nessun governo ha mai conquistato una vera maggioranza popolare, ma solo parlamentare». Dunque rimpiange la prima Repubblica al punto da non cercare alcun leader? «Magari si tornasse al modello dei nostri tempi, quando le coalizioni si guidavano a turno, senza personalismi. Oggi i partiti accentrano il potere in una sola persona e questo sistema ha fatto solo danni. Torni la democrazia interna nei partiti, tornino le grandi culture politiche. L’unico modo per avere un futuro è ripescare ciò che di buono funzionava nel passato».
Tedros Ghebreyesus (Ansa)
Giancarlo Tancredi (Ansa)