2022-06-18
Ci vogliono trasformare in «rinoceronti»
Eugène Ionesco legge il copione de «I rinoceronti» (Getty Images)
Siamo come i personaggi dell’opera teatrale di Ionesco: quando le parole non hanno significato e la logica cede, si entra a far parte di un gregge, della massa. E si salva soltanto chi non si vuole allineare alla pressione sociale, strumento principe dei regimi totalitari.Davanti a noi c’è una piazza di una cittadina della provincia francese. Sullo sfondo, vediamo una drogheria; a destra un caffè, con tavolini e sedie all’aperto. Una donna con la borsa della spesa attraversa la piazza; due conoscenti («amici» sarebbe dire troppo) di nome Jean e Bérenger vanno a sedersi a un tavolino e Jean, inappuntabile, riprende severo l’altro per il suo aspetto disordinato. Bérenger è un ubriacone; i suoi capelli hanno bisogno di un pettine, i suoi vestiti di un colpo di stiro e lui stesso di un buon bagno. metaforeA un tratto, inopinatamente, annunciato da rumori sempre più forti, compare al galoppo un rinoceronte, causando sconcerto nei presenti. Siamo nella commedia Il rinoceronte (1959; rappresentazione inaugurale al Teatro Odéon di Parigi nel gennaio 1960), scritta da Eugène Ionesco e suo primo vero successo, dopo le perplessità e le critiche che avevano accolto La cantatrice calva (1950), La lezione (1952), Le sedie (1952) e altri suoi lavori degli anni Cinquanta. Nel prosieguo dell’opera, i rinoceronti si moltiplicano e si scopre che non si tratta di un’inconsueta migrazione di massa da altri climi: sono gli stessi abitanti della cittadina a trasformarsi in rinoceronti, uno dopo l’altro, Jean compreso, finché non rimane che un solo essere umano, Bérenger. È lui a pronunciare, anzi a urlare, la battuta che chiude la commedia: «Sono l’ultimo uomo, e lo resterò fino alla fine! Io non mi arrendo! Non mi arrendo!». disumanizzazione Il senso da attribuire agli eventi è piuttosto chiaro, ed è stato comunque ampiamente spiegato da Ionesco e dai suoi interpreti. In un’Europa ancora sotto choc per i deliri nazifascisti e in preda alla Guerra fredda, rappresentano la graduale, inesorabile disumanizzazione delle persone in un regime totalitario; per Ionesco, in particolare, si ricollegano all’emergere di nazismo e antisemitismo (sua madre era di una famiglia ebrea convertita al calvinismo) nella nativa Romania. In questo senso, Il rinoceronte è affine ad altre angosciose opere dello stesso periodo, dal visionario 1984 di Orwell (1948; spesso citato, e a proposito, di questi tempi) al film L’invasione degli ultracorpi, diretto da Don Siegel nel 1956. In simile ottima compagnia, Ionesco si distingue per una caratteristica peculiare: mostrando la concordanza fra l’instaurarsi di un sistema totalitario e il deteriorarsi del linguaggio.piani diversi Quello di Ionesco è stato chiamato teatro dell’assurdo, ma notiamo che l’espressione gli si applica su due piani diversi. È assurdo che delle persone si trasformino in rinoceronti: questo è un assurdo di contenuto, ed è immediatamente riconoscibile come tale, ma è solo un biglietto da visita (o, se preferite, un cavallo di Troia) per l’assurdo che conta davvero, di carattere formale, inscenato nei discorsi di quelle persone, prima che diventino rinoceronti.Ascoltiamoli. L’espressione «Ah, questa poi!» è ripetuta dodici volte, all’apparire di un rinoceronte, da personaggi diversi; espressioni come «è troppo tardi», «non è troppo tardi», «è un po’ tardi» sono ripetute otto volte; e potrei continuare. Si parla per cliché, insomma: si emettono suoni che hanno smesso di avere un significato, che rispondono al belato dell’uno con un proprio belato; ed è questo l’autentico assurdo. Quando le parole non vogliono dire più niente. Quando la logica, anche, cede. C’è un filosofo, nella commedia, che fa pessima pubblicità alla categoria enunciando sillogismi come: «Il gatto ha quattro zampe. Isidoro e Fricot hanno ciascuno quattro zampe. Dunque Isidoro e Fricot sono due gatti». (Provate con: «La Russia ha invaso l’Ucraina. Dostoevskij è russo. Dunque Dostoevskij ha invaso l’Ucraina».) disarticolazioni Non si arriva tutto in una volta a convincersi che la guerra è pace, che la libertà è schiavitù e che l’ignoranza è forza (come recita il Grande fratello nel romanzo di Orwell): per arrivarci è necessaria una lunga via crucis, in cui il linguaggio venga progressivamente disarticolato, progressivamente ridotto a un reciproco spidocchiarsi e rassicurarsi, proprio nel momento in cui non c’è nulla di cui essere ragionevolmente sicuri.Ancora un messaggio possiamo raccogliere, prima di lasciare questo capolavoro alla curiosità dei lettori. L’unica persona che si salva, ho detto, è uno sbandato, un socialmente disadattato. La pressione sociale, insieme con gli occasionali arbitri e violenze, è il migliore strumento a disposizione di un regime totalitario: quella pressione che invita a conformarsi a quanto fanno gli altri, a imitarli pedissequamente. Bérenger è senza cravatta, ha i capelli spettinati e gli abiti stazzonati, quindi è abituato a sentirsi fuori posto. Gli altri non ne vogliono sapere: ci tengono a essere considerati bravi bambini, a camminare bene allineati, a non dare nell’occhio. Quindi, se glielo dicono, si chiuderanno disciplinatamente in casa, e lo ammetteranno con fierezza, e si benderanno la faccia, e si saluteranno dandosi di gomito. Tutti passi indispensabili per trasformarsi in rinoceronti.
Il simulatore a telaio basculante di Amedeo Herlitzka (nel riquadro)
Gli anni Dieci del secolo XX segnarono un balzo in avanti all’alba della storia del volo. A pochi anni dal primo successo dei fratelli Wright, le macchine volanti erano diventate una sbalorditiva realtà. Erano gli anni dei circuiti aerei, dei raid, ma anche del primissimo utilizzo dell’aviazione in ambito bellico. L’Italia occupò sin da subito un posto di eccellenza nel campo, come dimostrò la guerra Italo-Turca del 1911-12 quando un pilota italiano compì il primo bombardamento aereo della storia in Libia.
Il rapido sviluppo dell’aviazione portò con sé la necessità di una crescente organizzazione, in particolare nella formazione dei piloti sul territorio italiano. Fino ai primi anni Dieci, le scuole di pilotaggio si trovavano soprattutto in Francia, patria dei principali costruttori aeronautici.
A partire dal primo decennio del nuovo secolo, l’industria dell’aviazione prese piede anche in Italia con svariate aziende che spesso costruivano su licenza estera. Torino fu il centro di riferimento anche per quanto riguardò la scuola piloti, che si formavano presso l’aeroporto di Mirafiori.
Soltanto tre anni erano passati dalla guerra Italo-Turca quando l’Italia entrò nel primo conflitto mondiale, la prima guerra tecnologica in cui l’aviazione militare ebbe un ruolo primario. La necessità di una formazione migliore per i piloti divenne pressante, anche per il dato statistico che dimostrava come la maggior parte delle perdite tra gli aviatori fossero determinate più che dal fuoco nemico da incidenti, avarie e scarsa preparazione fisica. Per ridurre i pericoli di quest’ultimo aspetto, intervenne la scienza nel ramo della fisiologia. La svolta la fornì il professore triestino Amedeo Herlitzka, docente all’Università di Torino ed allievo del grande fisiologo Angelo Mosso.
Sua fu l’idea di sviluppare un’apparecchiatura che potesse preparare fisicamente i piloti a terra, simulando le condizioni estreme del volo. Nel 1917 il governo lo incarica di fondare il Centro Psicofisiologico per la selezione attitudinale dei piloti con sede nella città sabauda. Qui nascerà il primo simulatore di volo della storia, successivamente sviluppato in una versione più avanzata. Oltre al simulatore, il fisiologo triestino ideò la campana pneumatica, un apparecchio dotato di una pompa a depressione in grado di riprodurre le condizioni atmosferiche di un volo fino a 6.000 metri di quota.
Per quanto riguardava le capacità di reazione e orientamento del pilota in condizioni estreme, Herlitzka realizzò il simulatore Blériot (dal nome della marca di apparecchi costruita a Torino su licenza francese). L’apparecchio riproduceva la carlinga del monoplano Blériot XI, dove il candidato seduto ai comandi veniva stimolato soprattutto nel centro dell’equilibrio localizzato nell’orecchio interno. Per simulare le condizioni di volo a visibilità zero l’aspirante pilota veniva bendato e sottoposto a beccheggi e imbardate come nel volo reale. All’apparecchio poteva essere applicato un pannello luminoso dove un operatore accendeva lampadine che il candidato doveva indicare nel minor tempo possibile. Il secondo simulatore, detto a telaio basculante, era ancora più realistico in quanto poteva simulare movimenti di rotazione, i più difficili da controllare, ruotando attorno al proprio asse grazie ad uno speciale binario. In seguito alla stimolazione, il pilota doveva colpire un bersaglio puntando una matita su un foglio sottostante, prova che accertava la capacità di resistenza e controllo del futuro aviatore.
I simulatori di Amedeo Herlitzka sono oggi conservati presso il Museo delle Forze Armate 1914-45 di Montecchio Maggiore (Vicenza).
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