
Parla Alan Dershowitz, celebre avvocato liberal statunitense e sostenitore di Hillary Clinton: l'ipotesi di accusare il presidente Usa è una strada rischiosa perché «non ha commesso tradimento, corruzione o altri gravi reati».Tempi duri, questi, per Donald Trump. Martedì scorso, l'ex manager della sua campagna elettorale, Paul Manafort, è stato condannato per una serie di reati. Inoltre, sempre lo stesso giorno, il suo ex legale, Michael Cohen, si è dichiarato colpevole di aver usato illecitamente finanziamenti elettorali per comprare il silenzio di due pornostar con cui il magnate avrebbe in passato avuto una relazione. Un esborso che, secondo Cohen, sarebbe avvenuto su diretta indicazione dello stesso Trump.Subito, neanche a dirlo, si è scatenato il finimondo. Se l'ex legale dicesse il vero, infatti, potrebbe configurarsi l'ipotesi che il presidente - all'epoca candidato - abbia commesso un reato federale, infrangendo appunto la legge che regola l'utilizzo dei finanziamenti elettorali. La stampa (americana ed europea) non ha perso tempo a gridare allo scandalo, mentre - secondo numerosi commentatori - l'impeachment per Trump risulterebbe addirittura dietro l'angolo. Tuttavia, a ben vedere, la catastrofe è veramente imminente? In realtà, forse le cose potrebbero rivelarsi un tantino più complicate.Proprio per cercare di far chiarezza, La Verità ha deciso di consultare Alan Dershowitz: celebre principe del foro americano che, nel corso degli anni, è stato protagonista dei principali casi giudiziari statunitensi, avendo difeso, tra gli altri, O. J Simpson, Mike Tyson, Roman Polanski, Julian Assange ed essendo attualmente consulente della difesa dello stesso Harvey Weinstein. Professore ad Harvard, è anche un noto sostenitore del Partito democratico (nel 2008 diede il suo endorsement a Hillary Clinton e, poi, a Barack Obama). Ebbene, proprio questo avvocato dichiaratamente liberal, si è ultimamente più volte espresso in difesa di Donald Trump. Soprattutto in relazione alle accuse di Cohen.In primo luogo, ammesso che l'ex legale abbia dichiarato il vero, un elemento su cui sarebbe doveroso far luce è su chi abbia effettivamente pagato le due pornostar. Le restrizioni che la legislazione americana impone ai finanziamenti elettorali riguardano infatti i donatori terzi, mentre non è previsto alcun limite alla possibilità che un candidato possa attingere al proprio patrimonio per finanziarsi. In tal senso, secondo Dershowitz, «un candidato ha il diritto di contribuire quanto desidera alla propria campagna, direttamente o tramite il proprio avvocato, purché risarcisca l'avvocato con i propri fondi. Il candidato ha anche il diritto di pagare per il silenzio le donne che lo accusano, in modo falso o veritiero. Quindi, se Trump ha detto a Cohen di anticipare il pagamento a una donna e lo ha ripagato, né Trump né Cohen hanno commesso alcun crimine».In secondo luogo, oltre alla provenienza del danaro, un altro elemento da analizzare è quello dell'intenzione che si celerebbe dietro il pagamento. Un'eventuale accusa dovrebbe infatti dimostrare che Trump abbia pagato le pornostar per proteggere la propria campagna elettorale e non per motivazioni ad essa estranee. In tal senso, su questo fronte esiste un precedente importante. Nel 2011, un grand jury del North Carolina incriminò l'ex candidato alla nomination democratica, John Edwards, con l'accusa di aver usato illecitamente fondi elettorali per coprire una relazione extraconiugale nel corso delle primarie del 2008. Il processo, celebrato nel 2012, si concluse in una bolla di sapone. Come infatti nota il sito Politifact, gli inquirenti non furono in grado di stabilire se le donazioni incriminate fossero state dirette a salvaguardare la campagna elettorale di Edwards o a proteggere l'armonia della sua famiglia (sua moglie era, al tempo dei fatti, malata terminale). Lo stesso New York Times, riportando all'epoca la notizia dell'assoluzione dell'ex candidato democratico, sottolineò d'altronde la natura contorta e difficilmente comprensibile della legislazione americana in materia di finanziamenti elettorali. Una critica condivisa in sostanza anche dallo stesso Dershowitz.Ma non è Cohen l'unico grattacapo per Trump. Anche la condanna inflitta a Manafort, secondo molti, preluderebbe alla distruzione del presidente. Non dimentichiamo infatti che, proprio per le sue trascorse attività di lobbista filorusso, l'ex manager è da sempre sotto esame da parte del procuratore speciale per il Russiagate, Robert Mueller. E il processo, conclusosi martedì scorso, è sorto proprio da un troncone di quell'inchiesta. Sennonché bisogna rilevare che, dei capi di imputazione presentati contro Manafort, nessuno riguardasse la presunta interferenza dei russi nelle elezioni americane del 2016. Gli stessi reati per cui è stato condannato, del resto, risalgono a diversi anni prima che l'ex lobbista divenisse manager della campagna elettorale di Trump. Elementi che spingono quindi a ridimensionare la faccenda. «Non credo che la condanna di Manafort costituisca un problema serio per Trump», sostiene Dershowitz. «Non è correlata a nulla che Trump potrebbe aver fatto. È improbabile che Manafort sia disposto o in grado di fornire informazioni incriminanti contro Trump». D'altronde, l'avvocato sembra avere le idee chiare anche su un eventuale perdono che Trump possa conferire al suo ex manager. «Secondo me non sarebbe una buona idea graziare Manafort ma risulterebbe comunque perfettamente costituzionale».Ma allora l'ipotesi di un imminente impeachment sta veramente in piedi? Forse no. Non dimentichiamo infatti che il processo di messa in stato d'accusa non attenga al potere giudiziario ma a quello legislativo: viene infatti istruito dalla Camera e votato dal Senato, dove occorre una maggioranza di due terzi per arrivare a un verdetto di colpevolezza. Ragion per cui, si tratta generalmente di un vicolo cieco. Senza poi contare che Trump, al momento, non risulta accusato di alcun reato esplicitamente previsto dalla Costituzione per avviare un processo di impeachment. Non a caso, afferma Dershowitz: «Non credo a un impeachment in queste circostanze, perché Trump non ha commesso tradimento, corruzione o altri gravi reati». D'altronde, se anche riuscisse a conquistare la Camera alle elezioni di novembre, non è detto che il Partito democratico sceglierà di intraprendere la strada dell'impeachment. Si tratta infatti di una strada rischiosa, che potrebbe trasformarsi in un boomerang (si pensi solo che Bill Clinton raggiunse il massimo della popolarità esattamente nel periodo in cui venne messo in stato d'accusa). Anche perché è tutto da dimostrare che l'inchiesta sul Russiagate sia poi realmente in grado di spostare qualche voto. E, se il presidente la definisce da sempre una «caccia alle streghe», Dershowitz esprime un giudizio abbastanza simile. «Non userei la locuzione caccia alle streghe, ma non ho visto prove di criminalità da parte di Trump in relazione alla Russia».
Donald trump e Viktor Orbán (Ansa)
Il premier ungherese è stato ricevuto a pranzo dall’inquilino della Casa Bianca. In agenda anche petrolio russo e guerra in Ucraina. Mosca contro l’Ue sui visti.
Ieri Viktor Orbán è stato ricevuto alla Casa Bianca da Donald Trump, che ha definito il premier ungherese «un grande leader». Di più: tessendo le sue lodi, il tycoon ci ha tenuto a sottolineare che «sull’immigrazione l’Europa ha fatto errori enormi, mentre Orbán non li ha fatti». Durante la visita, in particolare, è stato firmato un nuovo accordo di cooperazione nucleare tra Stati Uniti e Ungheria, destinato a rafforzare i legami energetici e tecnologici fra i due Paesi. In proposito, il ministro degli Esteri magiaro, Péter Szijjártó, ha sottolineato che la partnership con Washington non preclude il diritto di Budapest a mantenere rapporti con Mosca sul piano energetico. «Considerata la nostra realtà geografica, mantenere la possibilità di acquistare energia dalla Russia senza sanzioni o restrizioni legali è essenziale per la sicurezza energetica dell’Ungheria», ha dichiarato il ministro.
Bivacco di immigrati in Francia. Nel riquadro, Jean Eudes Gannat (Getty Images)
Inquietante caso di censura: prelevato dalla polizia per un video TikTok il figlio di un collaboratore storico di Jean-Marie Le Pen, Gannat. Intanto i media invitano la Sweeney a chiedere perdono per lo spot dei jeans.
Sarà pure che, come sostengono in molti, il wokismo è morto e il politicamente corretto ha subito qualche battuta d’arresto. Ma sembra proprio che la nefasta influenza da essi esercitata per anni sulla cultura occidentale abbia prodotto conseguenze pesanti e durature. Lo testimoniano due recentissimi casi di diversa portata ma di analoga origine. Il primo e più inquietante è quello che coinvolge Jean Eudes Gannat, trentunenne attivista e giornalista destrorso francese, figlio di Pascal Gannat, storico collaboratore di Jean-Marie Le Pen. Giovedì sera, Gannat è stato preso in custodia dalla polizia e trattenuto fino a ieri mattina, il tutto a causa di un video pubblicato su TikTok.
Giancarlo Giorgetti (Ansa)
Il ministro fa cadere l’illusione dei «soldi a pioggia» da Bruxelles: «Questi prestiti non sono gratis». Il Mef avrebbe potuto fare meglio, ma abbiamo voluto legarci a un mostro burocratico che ci ha limitato.
«Questi prestiti non sono gratis, costano in questo momento […] poco sopra il 3%». Finalmente il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti fa luce, seppure parzialmente, sul grande mistero del costo dei prestiti che la Commissione ha erogato alla Repubblica italiana per finanziare il Pnrr. Su un totale inizialmente accordato di 122,6 miliardi, ad oggi abbiamo incassato complessivamente 104,6 miliardi erogati in sette rate a partire dall’aprile 2022. L’ottava rata potrebbe essere incassata entro fine anno, portando così a 118 miliardi il totale del prestito. La parte residua è legata agli obiettivi ed ai traguardi della nona e decima rata e dovrà essere richiesta entro il 31 agosto 2026.
I tagli del governo degli ultimi anni hanno favorito soprattutto le fasce di reddito più basse. Ora viene attuato un riequilibrio.
Man mano che si chiariscono i dettagli della legge di bilancio, emerge che i provvedimenti vanno in direzione di una maggiore attenzione al ceto medio. Ma è una impostazione che si spiega guardandola in prospettiva, in quanto viene dopo due manovre che si erano concentrate sui percettori di redditi più bassi e, quindi, più sfavoriti. Anche le analisi di istituti autorevoli come la Banca d’Italia e l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb) tengono conto dei provvedimenti varati negli anni passati.





