2020-01-12
Chi trova un nemico trova un tesoro. Il messaggio dimenticato di Schmitt
Aver rimosso il tema della conflittualità ha portato l'individuo occidentale a una straordinaria fragilità. Abbiamo dimenticato che la vita non è un asilo infantile e che ogni uomo può essere anche un pericolo.Chi trova un amico - è noto - trova un tesoro. Però in politica e nella storia anche trovare un nemico, identificarlo e dargli un nome (Qased Soleimani, per esempio) è un evento e un'operazione importante nella vita di una o più nazioni. Attenzione: non si tratta di niente di ideologico ma di conoscenza della natura e della «selva» dove nasce la vita: ce lo insegna anche (per esempio) la medicina. Per curarci e stare bene (fisicamente e anche psicologicamente) dobbiamo riconoscere chi e come minaccia e indebolisce il nostro corpo e psiche. E quando lo troviamo reagire: neutralizzarlo trasformandolo, o togliendolo dalla nostra vita. Non possiamo collaborare con chi o cosa ci uccide. Dobbiamo riconoscerlo e affrontarlo per non sprofondare noi stessi nel disordine, l'aggressività e l'anarchia. Per quanto riguarda il campo politico l'ha spiegato bene Carl Schmitt, il giurista e filosofo che ha maggiormente studiato oggi l'antica questione dell'«amico-nemico», che sono poi i nostri due interlocutori più importanti. È però anche una questione di igiene mentale (se non riconosciamo il nemico, dentro e fuori di noi, ci intossichiamo) e teologica, come ha spiegato il rabbino itinerante Jacob Taubes, che influenzò poi l'intero movimento neoconservatore americano, in cui affonda le radici anche la presidenza Trump. Al rabbino Taubes (che non cercò mai di incontrarlo), il cattolico antisemita Carl Schmitt inviò tutte le sue opere con dettagliate lettere in cui spiegava come leggerle. In comune i due avevano la grande considerazione per San Paolo («il miglior ebreo dopo Mosè», secondo Taubes che gli dedicò La teologia politica di San Paolo, Adelphi), e l'attenzione ad identificare il nemico e combatterlo. «Se non si legittimerà anche lo stato di guerra, che poi porta alla pace, essa diventerà sempre più violenta, brutale, sfrenata. Chi non riconosce questo non vuole la pace, ma una guerra più violenta», scrive Taubes (in: In divergente accordo. Scritti su Carl Schmitt, Quodlibet). È ciò che accaduto dopo gli anni Novanta, come prevedeva il profetico rabbino, attento se pur «divergente», lettore degli scritti del suo «nemico», professor Carl Schmitt. Caduta l'Unione Sovietica, nemico di ieri, venne la globalizzazione con i suoi molteplici e contrastanti interessi nascosti tra le pieghe del mantello grande come il mondo, di solito travestiti dal codice del politicamente corretto, sempre più pervasivo. Il nemico divenne così innominabile: contrastava con il mito della «fine della storia e vittoria del capitalismo», disturbava i mercati e, come si direbbe oggi con magica parola: «escludeva». Stabiliva un dentro e un fuori, definiva impronunciabili confini, buoni e cattivi: insomma guastava la festa. Fu così sostituito con un generico termine di psicosociologia politica: terrorismo. Cani sciolti, fanatici allo sbaraglio, sbandati. Sì, amici non erano, ma non avevano certo né la dignità, né il potere del Nemico. E non c'era, in fondo bisogno di farne una tragedia, gli affari continuavano ugualmente. Anzi si allargavano a campi prima meno attraenti, come lo sfruttamento «dei flussi di forza lavoro migrante che si muove ai margini o fuori dalla legge» segnalati dal professor Carlo Galli, (Lo sguardo di Giano. Saggi su Carl Schmitt, il Mulino). Ci pensò l'11 settembre a mostrare che non era proprio così: il nemico c'era e bisognava occuparsene. George Bush fece ciò di cui fu capace, e tutto comunque si impantanò poi nei pasticci della presidenza Obama-Clinton, che riuscì perfino a lasciar crescere un nemico evidente come lo Stato Islamico, impossibile da mascherare (anche perché appena conquistava una torretta in mezzo al deserto alzava le sue bandiere). Isis era un'etichetta; ora si guarda al dietro, ai grandi manovratori delle masse islamiche, come il generale iraniano. Ma non sarà la tattica politica a risolvere la questione. Perché amico-nemico non è una categoria militare, o diplomatica, o comportamentale, ma un modo di guardare alla vita e a se stessi, prima ancora che all'altro. Non solo una tecnica difensiva, ma un modo di essere, non solo verso gli altri, ma dentro di sé. Il rabbino Taubes ripropone con forza l'intuizione di Schmitt secondo il quale «il nemico è l'immagine del proprio problema», in lui «possiamo osservare noi stessi». Una questione che non ha niente a che vedere con l'odio di cui tanto si parla, ma con il suo contrario: l'amore. Affrontare la questione amico-nemico nell'ebraismo paolino di Taubes, significa ricordare il «non vi chiamo servi, ma amici» di Gesù Cristo; portando poi nel riconoscimento dell'altro la carità-amore, che nell'inno alla carità di San Paolo (Corinzi) è la più grande di tutte le virtù. Riconoscere il nemico significa anche restituirgli la sua dignità di avversario, uscendo dal nichilismo cinico delle globalizzazioni e dal loro ridurre la vita a profitto, per entrare in un mondo di rapporti autentici nella loro drammaticità e non solo strumentali con gli altri e con sé stessi: questo è l'Io «libero dalla legge» del cristianesimo di Paolo. Amico-nemico è il rifiuto dei complessi di superiorità-inferiorità di cui si occupano le politiche «egualitarie» e uniformanti che cancellano le differenze con la scusa di difenderle. Si tratta invece di provare sé stesso e l'altro sul terreno sostanziale dell'agire vero, dell'amore o dell'avversione. Ciò conferisce dignità a entrambi, coi corrispondenti rischi, a cominciare da quello della vita. Sempre Taubes ricorda: «Non è necessario che il nemico politico sia moralmente cattivo, o esteticamente brutto, né deve necessariamente essere un concorrente economico. Egli è propriamente l'altro».In questo si gioca la propria vita (e il suo senso). Anche perché rimuovere l'intera questione dell'amico-nemico ha portato l'individuo occidentale ad una straordinaria fragilità, non solo politica. Ci ha fatto dimenticare che la vita non è un asilo infantile, e che ogni uomo può essere anche un pericolo per l'altro (il «lupo» di cui alla vigilia della modernità parlava nel suo Leviatano il filosofo Thomas Hobbes, all'origine di questo dibattito). Si tratta anche qui di esperienze del tutto quotidiane. Il fenomeno attuale e disperante degli incidenti e investimenti stradali, che falciano decine di vite di ragazzi e adulti in tutto il Paese lasciando sbigottite anche le forze della polizia della strada che dovrebbero fronteggiarle (ma sono penosamente insufficienti, anche di numero), c'entra molto con la perdita di prudenza e realismo in cui la nostra presunta «società della sicurezza» celebra i suoi micidiali fasti. Ricordare che l'altro può esserci nemico, e spesso lo è, sarebbe cura più efficace per i nostri euforici deliri di onnipotenza di molti rinomatissimi antidepressivi (per non parlare delle «droghe leggere» amate dai nostri poteri politici e giudiziari). Certo, ricordare che c'è il nemico limita. Ma «dal limite viene salvezza», come ci ricorda la strana coppia Jacob Taubes & Carl Schmitt.