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2023-07-17
Chi prega campa cent’anni
(iStock)
Disertano la messa, però pregano anche d’estate: e fanno bene. Gli italiani con la fede intrattengono sempre più un rapporto «liquido», per dirla con Zygmunt Bauman, dato che ormai la vivono al di fuori dei riti e delle consuetudini. Come messo in luce da un recente sondaggio di Euromedia Research di Alessandra Ghisleri, realizzato in collaborazione con il mensile il Timone, appena il 13% dei nostri connazionali va in chiesa ogni domenica. Eppure non si può dire che il fenomeno religioso sia estinto, come provano il successo sia dei pellegrinaggi sia della scelta, come meta estiva, di monasteri e strutture di spiritualità.
«Noi esistiamo da quasi 20 anni e facciamo da collegamento con circa 1.000 strutture», spiega alla Verità la signora Francesca di Istituti religiosi tour operator (Istituti-religiosi.org), che aggiunge: «Possiamo confermare che c’è una crescita dell’utenza. La gente si muove di più e poi molte famiglie scelgono monasteri o realtà religiose». Come mai questa scelta? «Per ragioni di costi. Sicuramente il fattore economico è la prima cosa. Ma non è il solo», sottolinea l’addetta di Istituti religiosi, facendo presente come «in queste strutture - che sono dappertutto: mare, montagna, collina o città - c’è un’accoglienza particolare. E quella che offrono è una vacanza che poi si ricorda». Vacanze religiose «che poi si ricordano» nell’Italia dove non c’è un paese senza campanile se ne possono fare moltissime. Anche per l’oggettivo fascino di diverse delle strutture in questione.
Un esempio è il monastero Santa Croce Bocca di Magra Ameglia (La Spezia), che è immerso in uno spettacolare parco di 10 ettari al cui interno sono ubicate diverse unità abitative tra cui «il Castello», una sontuosa villa patrizia trasformata per accogliere numerose persone in pensione. «C’è una frammentazione nell’utenza», racconta alla Verità padre Giustino Zoppi, che è a Santa Croce da tempo, «per esempio a giugno e luglio si vedono per qualche giorno più i nonni con i nipoti, mentre invece ad agosto arrivano anche famiglie con i bambini e si fermano anche una settimana, se non una decina di giorni». Padre Zoppi conferma che la secolarizzazione morde anche il turismo religioso, ma non tutto è perduto, anzi: «Possiamo dire che rispetto a quello che si vedeva negli anni Novanta e fino al 2004 c’è poi stata una flessione del numero di presenze. Ma la tenuta c’è, anzi da qualche anno si registra anche qualche piccolo segnale di crescita».
Quello che deve esser chiaro è che soggiornare in un monastero non è come stare in albergo. C’è qualcosa in meno, ma pure molto in più. «Offriamo questo servizio di ospitalità da molti anni e all’insegna della spiritualità», sottolinea il frate, «dato che siamo nati come casa di spiritualità; questo significa che nelle nostre camere non c’è la televisione e il wifi è presente solo all’ingresso». Insomma, meno lusso e più ricerca dell’essenzialità.
Attenzione però a pensare un simile genere di esperienze come solo per anziani o comunque famiglie avanti con gli anni, dato che attraggono anche un pubblico più giovane, giovanile e soprattutto social. Ne è un esempio Sara Alessandrini, 38 anni, che su Instagram – dove si presenta come «Catholic Travel blogger» - vanta oltre 30.000 follower e dove racconta proprio questo: visite e soggiorni tra chiese e monasteri.
«Quando mi trovo a viaggiare, prediligo l’ospitalità religiosa», spiega alla Verità, «perché questo mi porta a raccontare, attraverso il blog e i social, la mia esperienza e noto che un gran numero di persone sono incuriosite e interessate a vivere un soggiorno in un monastero o presso una struttura religiosa. Mi riferisco principalmente a singoli individui, coppie o famiglie». Quando le chiediamo cosa spinge e muove questo tipo di soggiorni, Alessandrini risponde che «le motivazioni sono diverse: molti sono interessati a vivere un’esperienza spirituale a 360°, condividendo i momenti di preghiera con i religiosi; altri sono attratti dai prezzi, in alcuni casi, calmierati; in altri casi c’è la volontà di vivere un’esperienza diversa dal solito».
La «Catholic Travel blogger» ritiene che questo tipo di esperienze, anche nell’Italia sempre più post cristiana di oggi, abbiano margini di sviluppo, confermando i riscontri dell’Istituti religiosi tour operator. «Dal mio punto di vista», spiega infatti Alessandrini, «il fenomeno è in crescita, anche se, non tutti conoscono la possibilità di soggiornare in un monastero o in strutture religiose. A questo punto, ritengo che il problema si sposti su un altro piano. Entra infatti in gioco il piano della comunicazione perché, oltre al fatto che, molti ignorano l’opportunità di soggiornare in un luogo religioso, c’è una reale difficoltà nel reperire i contatti delle strutture».
Stando così le cose, tanto più in una penisola come quella italiana - disseminata di abbazie ed eremi, circa 1.500 santuari e 30.000 chiese -, si può dunque davvero solo immaginare una crescita dell’interesse per i soggiorni spirituali. Il che ha ricadute senz’altro economiche e turistiche, ma potrebbe averne anche di sanitarie. Sì, perché pregare e frequentare luoghi di culto fa bene alla salute. Proprio così. Già nel 1999 uno studio uscito sulla rivista Demography ha messo in luce come, ad una frequenza regolare ai luoghi di culto che sia mantenuta come tale nel corso di tutta la propria esistenza da una persona, corrispondano non alcuni mesi - che non sarebbero comunque da buttar via -, bensì sette anni di aspettativa di vita in più.
Due anni più tardi, su Archives of Internal Medicine, uno studio su 596 pazienti che erano stati ricoverati presso un ospedale della Carolina del Nord ha appurato come, dopo due anni, 176 fossero deceduti e come, rispetto ad essi, i superstiti risultassero aver «frequentato la chiesa più frequentemente». Con un più recente studio del 2016 su Jama Internal Medicine, realizzato considerando un campione assai vasto - quasi 75.000 donne - relativamente ad un arco temporale di oltre 15 anni, si è altresì osservato come, all’aumento della frequenza ai luoghi di culto, diminuisse il rischio di morire rispetto al medesimo periodo di riferimento, e neppure di poco: dal 13 fino al 33%.
La faccenda è talmente seria che due studiosi di Harvard, Tyler J. VanderWeele e Brendan Case, in un articolo del 2021 hanno apertamente denunciato come «l’abbandono della religione» stia «danneggiando anche il benessere di coloro che hanno smesso di frequentare le chiese». E questo perché «la partecipazione religiosa promuove fortemente la salute e il benessere», con il risultato che gli effetti negativi della disaffezione religiosa «sono destinati ad aumentare nei prossimi anni». «Numerosi studi di ricerca ampi e ben progettati», hanno sottolineato VanderWeele e Case, «hanno scoperto che la frequenza al servizio religioso è associata a una maggiore longevità, meno depressione, meno suicidi, meno fumo, meno abuso di sostanze, migliore sopravvivenza al cancro e alle malattie cardiovascolari, meno divorzi, maggiore sostegno sociale, maggiore significato nella vita, maggiore soddisfazione esistenziale, più volontariato e maggiore impegno civico».
Ne consegue come il ritorno degli italiani a messa sarebbe auspicabile non solo per motivi spirituali. Se le istituzioni decidessero infatti di incoraggiare i soggiorni in conventi e monasteri farebbero senza dubbio un affare. E non solo per il turismo religioso, che pure è balsamo per l’economia, ma per le stesse casse dell’erario.
Ma occhio alla pseudo devozione delle sette
«Le sette non sono tutte sataniche, ma tutte sono diaboliche». Queste parole di don Aldo Bonaiuto, il sacerdote animatore del Servizio AntiSette della Comunità Giovanni XXII, spiegano meglio d’ogni manuale la pericolosità di un fenomeno sì minoritario nella mappa della religiosità italiana, ma grave. E che si può ritenere «diabolico» in quanto caratterizzato dall’isolamento - dal greco, il diavolo è proprio «colui che divide» - che le realtà settarie puntualmente determinano per gli adepti. Le stime non sono semplici, ma pare in Italia ci siano circa 500 sette. Il punto è che si tratta verosimilmente della punta dell’iceberg.
Secondo quanto messo in luce da Codacons nel maggio 2022, 500 sarebbero infatti solo le sette in qualche misura «ufficiali». Ma sotto la superficie di questa stima c’è tutto un mondo. Gli italiani coinvolti - in modo costante o almeno saltuario - in questa realtà sarebbero oltre due milioni. Sono soprattutto giovani: il 35% degli adepti pare infatti abbia meno di 30 anni. La galassia settaria è molto variegata, anche se per lo più composta da organizzazioni spesso segrete dedite a culti e dottrine particolari, guidate da leader carismatici e alla continua caccia di adepti.
Sempre per Codacons, il 40% del totale di queste sigle è rappresentato dalle «psicosette» - gruppi di studio finalizzati cioè a «potenziare la mente» - il 30% delle sette è dedicato invece al satanismo e allo spiritismo, mentre il 15% sono sette «pseudo-religiose». Come hanno spiegato più volte esperti del calibro del sociologo Massimo Introvigne, i satanisti organizzati e quindi inseriti appieno in un ambito di vero e proprio culto in Italia non sono tantissimi, essendo nell’ordine di qualche centinaio. Ci sono però alcune migliaia di soggetti - e nessuno può dire quanti siano esattamente - i quali, per citare sempre Introvigne, «seguono una sorta di fai da te del satanismo, si nutrono di contatti con la subcultura satanica, non pubblicano nulla, non hanno né sedi, né riviste e restano nella clandestinità finché non succede qualcosa che li mette in luce e generalmente si tratta di un fatto grave».
Resta, per dirla con don Bonaiuto, che pure se non sataniche in senso stretto, le sette sono comunque «diaboliche». Va anche detto che non ci sono categorie che ne sono al riparo. «Nessuno è immune al richiamo di una setta», ha spiegato Lorita Tinelli, psicologa pugliese da anni in prima linea contro gli abusi compiuti da sette e sedicenti guru spirituali, aggiungendo che nella sua «lunga esperienza ho conosciuto persone di tutti i tipi che hanno aderito a vari gruppi settari, anche con livelli scolastici molto elevati. L’unica caratteristica che accomuna i possibili seguaci è uno stato di fragilità emotiva, che può accadere ad ognuno di noi in qualsiasi momento della vita».
Il reclutamento avviene spesso su internet e, da questo punto di vista, la pandemia e l’isolamento da lockdown, spiegano gli esperti, hanno senza alcun dubbio peggiorato le cose.
«Nella cura dei malati la spiritualità ha un ruolo centrale»
Non sono tanti, in Italia, gli studiosi dei benefici che l’assistenza spirituale può dare alla salute individuale. Fa eccezione Stefania Palmisano, sociologa e docente dall’Università di Torino.
Professoressa, quanto è importante l’assistenza spirituale nei luoghi di cura?
«Sta diventando un tema sempre più attuale. Il crescente pluralismo delle fedi che interessa la società nel suo complesso si riflette anche all’interno degli ospedali, dove si trova un’utenza formata da pazienti non più solo cattolici, ma anche protestanti, musulmani, buddhisti, induisti o appartenenti a religioni minoritarie, come i Testimoni di Geova, con esigenze specifiche a proposito, per esempio, delle scelte alimentari, delle trasfusioni di sangue, del trattamento della salma, di cui occorre tener conto durante il percorso terapeutico. In Italia la figura dell’assistente religioso e spirituale non è integrata nell’équipe medica, ma svolge una funzione complementare e interviene di solito su richiesta dei pazienti o dei loro familiari. L’assistenza spirituale ha una sua tradizione consolidata nel contesto della medicina palliativista, ma il bisogno di spiritualità non è esclusivo dei pazienti con patologie terminale: si riscontra anche in chi soffre di patologie severe come quelle croniche».
Esistono benefici tangibili per la vita del paziente assistito nella preghiera e nella meditazione?
«L’esperienza di una patologia severa, cronica o terminale, si accompagna spesso a domande e bisogni di natura religiosa o spirituale. Un numero crescente di ricerche a livello internazionale mostra come il rispondere a queste domande e bisogni abbia effetti migliorativi sulla qualità di vita del paziente, favorendo l’attuazione di strategie di fronteggiamento rispetto alla malattia, l’attribuzione di significato alla sofferenza, la riduzione degli stati emotivi di disagio, stress e paura e, non da ultimo, un coinvolgimento attivo e partecipato del malato nella relazione clinica con medici e infermieri. La spiritualità, quindi, rappresenta una componente fondamentale della salute dell’individuo, intendendo la salute come la condizione di benessere che deriva dall’integrazione, in chiave olistica, degli aspetti fisici, psicologici, sociali e spirituali che caratterizzano la persona».
David DeSteno, docente di psicologia alla Northeastern University, ha scritto che «anziché deridere la religione, dovremmo studiare rituali e pratiche spirituali per comprenderne l’influenza e ricavarne tecniche e terapie».
«Le scienze mediche hanno dato finora poco spazio alla spiritualità. La ragione risiede nel fatto che lo “sguardo clinico” che caratterizza la medicina moderna si rivolge innanzitutto al corpo e concepisce la malattia, per usare un termine inglese, come disease, ovvero come un problema organico che deve essere affrontato attraverso interventi terapeutici che possano produrre effetti misurabili. Tener conto della dimensione spirituale associata a una patologia significa, invece, richiamare una concezione diversa della malattia, più corrispondente al termine inglese illness, cioè la malattia come esperienza soggettiva del paziente che soffre e che è portatore di un punto di vista personale. Oggi si fa comunque strada una rinnovata sensibilità che pone le basi per un modello di “cura spirituale” intesa come l’attenzione professionale degli operatori sanitari - i medici e soprattutto gli infermieri -, verso i bisogni di natura religiosa e spirituale che gli individui esprimono quando fanno esperienza di una patologia severa».
Rispetto a questo, a che punto è l’Italia?
«In Italia l’implementazione della cura spirituale nelle pratiche cliniche e nei luoghi di cura sta muovendo ancora i suoi primi passi. Il progetto “Le religioni in ospedale. Integrare spiritualità e medicina nelle pratiche di cura” che ho diretto presso l’Università di Torino tra il 2020 e il 2022 ha rappresentato una delle prime esperienze di ricerca sul campo per elaborare uno strumento efficace per raccogliere le storie di malattia dei pazienti ospedalizzati e per consentire agli operatori sanitari, in particolare gli infermieri, di rilevare grazie a queste storie i bisogni religiosi e spirituali dei malati. Dopo quel progetto ne abbiamo condotto un altro, a livello internazionale, dal titolo “From Cure to Care: Digital Education and Spiritual Assistance in Hospital Healthcare”, guidato dall’Università di Torino con il coinvolgimento di istituzioni accademiche in Irlanda, Spagna e Polonia».
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Sempre più ricerche attestano il legame tra frequentazione dei luoghi di culto, salute e longevità. Motivo in più per passare in estate qualche giorno in monastero. Una pratica in crescita pure tra i giovanissimi.Ma occhio alla pseudo devozione delle sette. Due milioni di italiani coinvolti. L’isolamento da lockdown ha facilitato i reclutamenti.«Nella cura dei malati la spiritualità ha un ruolo centrale». La sociologa Stefania Palmisano: «Rispondere ai bisogni religiosi dei pazienti aiuta la guarigione: anche nei nostri ospedali si comincia a capirlo».Lo speciale comprende tre articoliDisertano la messa, però pregano anche d’estate: e fanno bene. Gli italiani con la fede intrattengono sempre più un rapporto «liquido», per dirla con Zygmunt Bauman, dato che ormai la vivono al di fuori dei riti e delle consuetudini. Come messo in luce da un recente sondaggio di Euromedia Research di Alessandra Ghisleri, realizzato in collaborazione con il mensile il Timone, appena il 13% dei nostri connazionali va in chiesa ogni domenica. Eppure non si può dire che il fenomeno religioso sia estinto, come provano il successo sia dei pellegrinaggi sia della scelta, come meta estiva, di monasteri e strutture di spiritualità. «Noi esistiamo da quasi 20 anni e facciamo da collegamento con circa 1.000 strutture», spiega alla Verità la signora Francesca di Istituti religiosi tour operator (Istituti-religiosi.org), che aggiunge: «Possiamo confermare che c’è una crescita dell’utenza. La gente si muove di più e poi molte famiglie scelgono monasteri o realtà religiose». Come mai questa scelta? «Per ragioni di costi. Sicuramente il fattore economico è la prima cosa. Ma non è il solo», sottolinea l’addetta di Istituti religiosi, facendo presente come «in queste strutture - che sono dappertutto: mare, montagna, collina o città - c’è un’accoglienza particolare. E quella che offrono è una vacanza che poi si ricorda». Vacanze religiose «che poi si ricordano» nell’Italia dove non c’è un paese senza campanile se ne possono fare moltissime. Anche per l’oggettivo fascino di diverse delle strutture in questione. Un esempio è il monastero Santa Croce Bocca di Magra Ameglia (La Spezia), che è immerso in uno spettacolare parco di 10 ettari al cui interno sono ubicate diverse unità abitative tra cui «il Castello», una sontuosa villa patrizia trasformata per accogliere numerose persone in pensione. «C’è una frammentazione nell’utenza», racconta alla Verità padre Giustino Zoppi, che è a Santa Croce da tempo, «per esempio a giugno e luglio si vedono per qualche giorno più i nonni con i nipoti, mentre invece ad agosto arrivano anche famiglie con i bambini e si fermano anche una settimana, se non una decina di giorni». Padre Zoppi conferma che la secolarizzazione morde anche il turismo religioso, ma non tutto è perduto, anzi: «Possiamo dire che rispetto a quello che si vedeva negli anni Novanta e fino al 2004 c’è poi stata una flessione del numero di presenze. Ma la tenuta c’è, anzi da qualche anno si registra anche qualche piccolo segnale di crescita».Quello che deve esser chiaro è che soggiornare in un monastero non è come stare in albergo. C’è qualcosa in meno, ma pure molto in più. «Offriamo questo servizio di ospitalità da molti anni e all’insegna della spiritualità», sottolinea il frate, «dato che siamo nati come casa di spiritualità; questo significa che nelle nostre camere non c’è la televisione e il wifi è presente solo all’ingresso». Insomma, meno lusso e più ricerca dell’essenzialità. Attenzione però a pensare un simile genere di esperienze come solo per anziani o comunque famiglie avanti con gli anni, dato che attraggono anche un pubblico più giovane, giovanile e soprattutto social. Ne è un esempio Sara Alessandrini, 38 anni, che su Instagram – dove si presenta come «Catholic Travel blogger» - vanta oltre 30.000 follower e dove racconta proprio questo: visite e soggiorni tra chiese e monasteri. «Quando mi trovo a viaggiare, prediligo l’ospitalità religiosa», spiega alla Verità, «perché questo mi porta a raccontare, attraverso il blog e i social, la mia esperienza e noto che un gran numero di persone sono incuriosite e interessate a vivere un soggiorno in un monastero o presso una struttura religiosa. Mi riferisco principalmente a singoli individui, coppie o famiglie». Quando le chiediamo cosa spinge e muove questo tipo di soggiorni, Alessandrini risponde che «le motivazioni sono diverse: molti sono interessati a vivere un’esperienza spirituale a 360°, condividendo i momenti di preghiera con i religiosi; altri sono attratti dai prezzi, in alcuni casi, calmierati; in altri casi c’è la volontà di vivere un’esperienza diversa dal solito».La «Catholic Travel blogger» ritiene che questo tipo di esperienze, anche nell’Italia sempre più post cristiana di oggi, abbiano margini di sviluppo, confermando i riscontri dell’Istituti religiosi tour operator. «Dal mio punto di vista», spiega infatti Alessandrini, «il fenomeno è in crescita, anche se, non tutti conoscono la possibilità di soggiornare in un monastero o in strutture religiose. A questo punto, ritengo che il problema si sposti su un altro piano. Entra infatti in gioco il piano della comunicazione perché, oltre al fatto che, molti ignorano l’opportunità di soggiornare in un luogo religioso, c’è una reale difficoltà nel reperire i contatti delle strutture». Stando così le cose, tanto più in una penisola come quella italiana - disseminata di abbazie ed eremi, circa 1.500 santuari e 30.000 chiese -, si può dunque davvero solo immaginare una crescita dell’interesse per i soggiorni spirituali. Il che ha ricadute senz’altro economiche e turistiche, ma potrebbe averne anche di sanitarie. Sì, perché pregare e frequentare luoghi di culto fa bene alla salute. Proprio così. Già nel 1999 uno studio uscito sulla rivista Demography ha messo in luce come, ad una frequenza regolare ai luoghi di culto che sia mantenuta come tale nel corso di tutta la propria esistenza da una persona, corrispondano non alcuni mesi - che non sarebbero comunque da buttar via -, bensì sette anni di aspettativa di vita in più.Due anni più tardi, su Archives of Internal Medicine, uno studio su 596 pazienti che erano stati ricoverati presso un ospedale della Carolina del Nord ha appurato come, dopo due anni, 176 fossero deceduti e come, rispetto ad essi, i superstiti risultassero aver «frequentato la chiesa più frequentemente». Con un più recente studio del 2016 su Jama Internal Medicine, realizzato considerando un campione assai vasto - quasi 75.000 donne - relativamente ad un arco temporale di oltre 15 anni, si è altresì osservato come, all’aumento della frequenza ai luoghi di culto, diminuisse il rischio di morire rispetto al medesimo periodo di riferimento, e neppure di poco: dal 13 fino al 33%.La faccenda è talmente seria che due studiosi di Harvard, Tyler J. VanderWeele e Brendan Case, in un articolo del 2021 hanno apertamente denunciato come «l’abbandono della religione» stia «danneggiando anche il benessere di coloro che hanno smesso di frequentare le chiese». E questo perché «la partecipazione religiosa promuove fortemente la salute e il benessere», con il risultato che gli effetti negativi della disaffezione religiosa «sono destinati ad aumentare nei prossimi anni». «Numerosi studi di ricerca ampi e ben progettati», hanno sottolineato VanderWeele e Case, «hanno scoperto che la frequenza al servizio religioso è associata a una maggiore longevità, meno depressione, meno suicidi, meno fumo, meno abuso di sostanze, migliore sopravvivenza al cancro e alle malattie cardiovascolari, meno divorzi, maggiore sostegno sociale, maggiore significato nella vita, maggiore soddisfazione esistenziale, più volontariato e maggiore impegno civico». Ne consegue come il ritorno degli italiani a messa sarebbe auspicabile non solo per motivi spirituali. Se le istituzioni decidessero infatti di incoraggiare i soggiorni in conventi e monasteri farebbero senza dubbio un affare. E non solo per il turismo religioso, che pure è balsamo per l’economia, ma per le stesse casse dell’erario. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/chi-prega-campa-centanni-2662286060.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="ma-occhio-alla-pseudo-devozione-delle-sette" data-post-id="2662286060" data-published-at="1689531430" data-use-pagination="False"> Ma occhio alla pseudo devozione delle sette «Le sette non sono tutte sataniche, ma tutte sono diaboliche». Queste parole di don Aldo Bonaiuto, il sacerdote animatore del Servizio AntiSette della Comunità Giovanni XXII, spiegano meglio d’ogni manuale la pericolosità di un fenomeno sì minoritario nella mappa della religiosità italiana, ma grave. E che si può ritenere «diabolico» in quanto caratterizzato dall’isolamento - dal greco, il diavolo è proprio «colui che divide» - che le realtà settarie puntualmente determinano per gli adepti. Le stime non sono semplici, ma pare in Italia ci siano circa 500 sette. Il punto è che si tratta verosimilmente della punta dell’iceberg. Secondo quanto messo in luce da Codacons nel maggio 2022, 500 sarebbero infatti solo le sette in qualche misura «ufficiali». Ma sotto la superficie di questa stima c’è tutto un mondo. Gli italiani coinvolti - in modo costante o almeno saltuario - in questa realtà sarebbero oltre due milioni. Sono soprattutto giovani: il 35% degli adepti pare infatti abbia meno di 30 anni. La galassia settaria è molto variegata, anche se per lo più composta da organizzazioni spesso segrete dedite a culti e dottrine particolari, guidate da leader carismatici e alla continua caccia di adepti. Sempre per Codacons, il 40% del totale di queste sigle è rappresentato dalle «psicosette» - gruppi di studio finalizzati cioè a «potenziare la mente» - il 30% delle sette è dedicato invece al satanismo e allo spiritismo, mentre il 15% sono sette «pseudo-religiose». Come hanno spiegato più volte esperti del calibro del sociologo Massimo Introvigne, i satanisti organizzati e quindi inseriti appieno in un ambito di vero e proprio culto in Italia non sono tantissimi, essendo nell’ordine di qualche centinaio. Ci sono però alcune migliaia di soggetti - e nessuno può dire quanti siano esattamente - i quali, per citare sempre Introvigne, «seguono una sorta di fai da te del satanismo, si nutrono di contatti con la subcultura satanica, non pubblicano nulla, non hanno né sedi, né riviste e restano nella clandestinità finché non succede qualcosa che li mette in luce e generalmente si tratta di un fatto grave». Resta, per dirla con don Bonaiuto, che pure se non sataniche in senso stretto, le sette sono comunque «diaboliche». Va anche detto che non ci sono categorie che ne sono al riparo. «Nessuno è immune al richiamo di una setta», ha spiegato Lorita Tinelli, psicologa pugliese da anni in prima linea contro gli abusi compiuti da sette e sedicenti guru spirituali, aggiungendo che nella sua «lunga esperienza ho conosciuto persone di tutti i tipi che hanno aderito a vari gruppi settari, anche con livelli scolastici molto elevati. L’unica caratteristica che accomuna i possibili seguaci è uno stato di fragilità emotiva, che può accadere ad ognuno di noi in qualsiasi momento della vita». Il reclutamento avviene spesso su internet e, da questo punto di vista, la pandemia e l’isolamento da lockdown, spiegano gli esperti, hanno senza alcun dubbio peggiorato le cose. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/chi-prega-campa-centanni-2662286060.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="nella-cura-dei-malati-la-spiritualita-ha-un-ruolo-centrale" data-post-id="2662286060" data-published-at="1689531430" data-use-pagination="False"> «Nella cura dei malati la spiritualità ha un ruolo centrale» Non sono tanti, in Italia, gli studiosi dei benefici che l’assistenza spirituale può dare alla salute individuale. Fa eccezione Stefania Palmisano, sociologa e docente dall’Università di Torino. Professoressa, quanto è importante l’assistenza spirituale nei luoghi di cura? «Sta diventando un tema sempre più attuale. Il crescente pluralismo delle fedi che interessa la società nel suo complesso si riflette anche all’interno degli ospedali, dove si trova un’utenza formata da pazienti non più solo cattolici, ma anche protestanti, musulmani, buddhisti, induisti o appartenenti a religioni minoritarie, come i Testimoni di Geova, con esigenze specifiche a proposito, per esempio, delle scelte alimentari, delle trasfusioni di sangue, del trattamento della salma, di cui occorre tener conto durante il percorso terapeutico. In Italia la figura dell’assistente religioso e spirituale non è integrata nell’équipe medica, ma svolge una funzione complementare e interviene di solito su richiesta dei pazienti o dei loro familiari. L’assistenza spirituale ha una sua tradizione consolidata nel contesto della medicina palliativista, ma il bisogno di spiritualità non è esclusivo dei pazienti con patologie terminale: si riscontra anche in chi soffre di patologie severe come quelle croniche». Esistono benefici tangibili per la vita del paziente assistito nella preghiera e nella meditazione? «L’esperienza di una patologia severa, cronica o terminale, si accompagna spesso a domande e bisogni di natura religiosa o spirituale. Un numero crescente di ricerche a livello internazionale mostra come il rispondere a queste domande e bisogni abbia effetti migliorativi sulla qualità di vita del paziente, favorendo l’attuazione di strategie di fronteggiamento rispetto alla malattia, l’attribuzione di significato alla sofferenza, la riduzione degli stati emotivi di disagio, stress e paura e, non da ultimo, un coinvolgimento attivo e partecipato del malato nella relazione clinica con medici e infermieri. La spiritualità, quindi, rappresenta una componente fondamentale della salute dell’individuo, intendendo la salute come la condizione di benessere che deriva dall’integrazione, in chiave olistica, degli aspetti fisici, psicologici, sociali e spirituali che caratterizzano la persona». David DeSteno, docente di psicologia alla Northeastern University, ha scritto che «anziché deridere la religione, dovremmo studiare rituali e pratiche spirituali per comprenderne l’influenza e ricavarne tecniche e terapie». «Le scienze mediche hanno dato finora poco spazio alla spiritualità. La ragione risiede nel fatto che lo “sguardo clinico” che caratterizza la medicina moderna si rivolge innanzitutto al corpo e concepisce la malattia, per usare un termine inglese, come disease, ovvero come un problema organico che deve essere affrontato attraverso interventi terapeutici che possano produrre effetti misurabili. Tener conto della dimensione spirituale associata a una patologia significa, invece, richiamare una concezione diversa della malattia, più corrispondente al termine inglese illness, cioè la malattia come esperienza soggettiva del paziente che soffre e che è portatore di un punto di vista personale. Oggi si fa comunque strada una rinnovata sensibilità che pone le basi per un modello di “cura spirituale” intesa come l’attenzione professionale degli operatori sanitari - i medici e soprattutto gli infermieri -, verso i bisogni di natura religiosa e spirituale che gli individui esprimono quando fanno esperienza di una patologia severa». Rispetto a questo, a che punto è l’Italia? «In Italia l’implementazione della cura spirituale nelle pratiche cliniche e nei luoghi di cura sta muovendo ancora i suoi primi passi. Il progetto “Le religioni in ospedale. Integrare spiritualità e medicina nelle pratiche di cura” che ho diretto presso l’Università di Torino tra il 2020 e il 2022 ha rappresentato una delle prime esperienze di ricerca sul campo per elaborare uno strumento efficace per raccogliere le storie di malattia dei pazienti ospedalizzati e per consentire agli operatori sanitari, in particolare gli infermieri, di rilevare grazie a queste storie i bisogni religiosi e spirituali dei malati. Dopo quel progetto ne abbiamo condotto un altro, a livello internazionale, dal titolo “From Cure to Care: Digital Education and Spiritual Assistance in Hospital Healthcare”, guidato dall’Università di Torino con il coinvolgimento di istituzioni accademiche in Irlanda, Spagna e Polonia».
Da sinistra: Bruno Migale, Ezio Simonelli, Vittorio Pisani, Luigi De Siervo, Diego Parente e Maurizio Improta
Questa mattina la Lega Serie A ha ricevuto il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, insieme ad altri vertici della Polizia, per un incontro dedicato alla sicurezza negli stadi e alla gestione dell’ordine pubblico. Obiettivo comune: sviluppare strumenti e iniziative per un calcio più sicuro, inclusivo e rispettoso.
Oggi, negli uffici milanesi della Lega Calcio Serie A, il mondo del calcio professionistico ha ospitato le istituzioni di pubblica sicurezza per un confronto diretto e costruttivo.
Il capo della Polizia, prefetto Vittorio Pisani, accompagnato da alcune delle figure chiave del dipartimento - il questore di Milano Bruno Migale, il dirigente generale di P.S. prefetto Diego Parente e il presidente dell’Osservatorio nazionale sulle manifestazioni sportive Maurizio Improta - ha incontrato i vertici della Lega, guidati dal presidente Ezio Simonelli, dall’amministratore delegato Luigi De Siervo e dall’head of competitions Andrea Butti.
Al centro dell’incontro, durato circa un’ora, temi di grande rilevanza per il calcio italiano: la sicurezza negli stadi e la gestione dell’ordine pubblico durante le partite di Serie A. Secondo quanto emerso, si è trattato di un momento di dialogo concreto, volto a rafforzare la collaborazione tra istituzioni e club, con l’obiettivo di rendere le competizioni sportive sempre più sicure per tifosi, giocatori e operatori.
Il confronto ha permesso di condividere esperienze, criticità e prospettive future, aprendo la strada a un percorso comune per sviluppare strumenti e iniziative capaci di garantire un ambiente rispettoso e inclusivo. La volontà di entrambe le parti è chiara: non solo prevenire episodi di violenza o disordine, ma anche favorire la cultura del rispetto, elemento indispensabile per la crescita del calcio italiano e per la tutela dei tifosi.
«L’incontro di oggi rappresenta un passo importante nella collaborazione tra Lega e Forze dell’Ordine», si sottolinea nella nota ufficiale diffusa al termine della visita dalla Lega Serie A. L’intenzione condivisa è quella di creare un dialogo costante, capace di tradursi in azioni concrete, procedure aggiornate e interventi mirati negli stadi di tutta Italia.
In un contesto sportivo sempre più complesso, dove la passione dei tifosi può trasformarsi rapidamente in tensione, il dialogo tra Lega e Polizia appare strategico. La sfida, spiegano i partecipanti, è costruire una rete di sicurezza che sia preventiva, reattiva e sostenibile, tutelando chi partecipa agli eventi senza compromettere l’atmosfera che caratterizza il calcio italiano.
L’appuntamento di Milano conferma come la sicurezza negli stadi non sia solo un tema operativo, ma un valore condiviso: la Serie A e le forze dell’ordine intendono camminare insieme, passo dopo passo, verso un calcio sempre più sicuro, inclusivo e rispettoso.
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Due bambini svaniti nel nulla. Mamma e papà non hanno potuto fargli neppure gli auguri di compleanno, qualche giorno fa, quando i due fratellini hanno compiuto 5 e 9 anni in comunità. Eppure una telefonata non si nega neanche al peggior delinquente. Dunque perché a questi genitori viene negato il diritto di vedere e sentire i loro figli? Qual è la grave colpa che avrebbero commesso visto che i bimbi stavano bene?
Un allontanamento che oggi mostra troppi lati oscuri. A partire dal modo in cui quel 16 ottobre i bimbi sono stati portati via con la forza, tra le urla strazianti. Alle ore 11.10, come denunciano le telecamere di sorveglianza della casa, i genitori vengono attirati fuori al cancello da due carabinieri. Alle 11.29 spuntano dal bosco una decina di agenti, armati di tutto punto e col giubbotto antiproiettile. E mentre gridano «Pigliali, pigliali tutti!» fanno irruzione nella casa, dove si trovano, da soli, i bambini. I due fratellini vengono portati fuori dagli agenti, il più piccolo messo a sedere, sulle scale, col pigiamino e senza scarpe. E solo quindici minuti dopo, alle 11,43, come registrano le telecamere, arrivano le assistenti sociali che portano via i bambini tra le urla disperate.
Una procedura al di fuori di ogni regola. Che però ottiene l’appoggio della giudice Nadia Todeschini, del Tribunale dei minori di Firenze. Come riferisce un ispettore ripreso dalle telecamere di sorveglianza della casa: «Ho telefonato alla giudice e le ho detto: “Dottoressa, l’operazione è andata bene. I bambini sono con i carabinieri. E adesso sono arrivati gli assistenti sociali”. E la giudice ha risposto: “Non so come ringraziarvi!”».
Dunque, chi ha dato l’ordine di agire in questo modo? E che trauma è stato inferto a questi bambini? Giriamo la domanda a Marina Terragni, Garante per l’infanzia e l’adolescenza. «Per la nostra Costituzione un bambino non può essere prelevato con la forza», conferma, «per di più se non è in borghese. Ci sono delle sentenze della Cassazione. Queste modalità non sono conformi allo Stato di diritto. Se il bambino non vuole andare, i servizi sociali si debbono fermare. Purtroppo ci stiamo abituando a qualcosa che è fuori legge».
Proviamo a chiedere spiegazioni ai servizi sociali dell’unione Montana dei comuni Valtiberina, ma l’accoglienza non è delle migliori. Prima minacciano di chiamare i carabinieri. Poi, la più giovane ci chiude la porta in faccia con un calcio. È Veronica Savignani, che quella mattina, come mostrano le telecamere, afferra il bimbo come un pacco. E mentre lui scalcia e grida disperato - «Aiuto! Lasciatemi andare» - lei lo rimprovera: «Ma perché urli?». Dopo un po’ i toni cambiano. Esce a parlarci Sara Spaterna. C’era anche lei quel giorno, con la collega Roberta Agostini, per portare via i bambini. Ma l’unica cosa di cui si preoccupa è che «è stata rovinata la sua immagine». E alle nostre domande ripete come una cantilena: «Non posso rispondere». Anche la responsabile dei servizi, Francesca Meazzini, contattata al telefono, si trincera dietro un «non posso dirle nulla».
Al Tribunale dei Minoridi Firenze, invece, parte lo scarica barile. La presidente, Silvia Chiarantini, dice che «l’allontanamento è avvenuto secondo le regole di legge». E ci conferma che i genitori possono vedere i figli in incontri protetti. E allora perché da due mesi a mamma e papà non è stata concessa neppure una telefonata? E chi pagherà per il trauma fatto a questi bambini?
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Il premier: «Il governo ci ha creduto fin dall’inizio, impulso decisivo per nuovi traguardi».
«Il governo ha creduto fin dall’inizio in questa sfida e ha fatto la sua parte per raggiungere questo traguardo. Ringrazio i ministri Lollobrigida e Giuli che hanno seguito il dossier, ma è stata una partita che non abbiamo giocato da soli: abbiamo vinto questa sfida insieme al popolo italiano. Questo riconoscimento imprimerà al sistema Italia un impulso decisivo per raggiungere nuovi traguardi».
Lo ha detto la premier Giorgia Meloni in un videomessaggio celebrando l’entrata della cucina italiana nei patrimoni culturali immateriali dell’umanità. È la prima cucina al mondo a essere riconosciuta nella sua interezza. A deliberarlo, all’unanimità, è stato il Comitato intergovernativo dell’Unesco, riunito a New Delhi, in India.
Ansa
I vaccini a Rna messaggero contro il Covid favoriscono e velocizzano, se a dosi ripetute, la crescita di piccoli tumori già presenti nell’organismo e velocizzano la crescita di metastasi. È quanto emerge dalla letteratura scientifica e, in particolare, dagli esperimenti fatti in vitro sulle cellule e quelli sui topi, così come viene esposto nello studio pubblicato lo scorso 2 dicembre sulla rivista Mdpi da Ciro Isidoro, biologo, medico, patologo e oncologo sperimentale, nonché professore ordinario di patologia generale all’Università del Piemonte orientale di Novara. Lo studio è una review, ovvero una sintesi critica dei lavori scientifici pubblicati finora sull’argomento, e le conclusioni a cui arriva sono assai preoccupanti. Dai dati scientifici emerge che sia il vaccino a mRna contro il Covid sia lo stesso virus possono favorire la crescita di tumori e metastasi già esistenti. Inoltre, alla luce dei dati clinici a disposizione, emerge sempre più chiaramente che a questo rischio di tumori e metastasi «accelerati» appaiono più esposti i vaccinati con più dosi. Fa notare Isidoro: «Proprio a causa delle ripetute vaccinazioni i vaccinati sono più soggetti a contagiarsi e dunque - sebbene sia vero che il vaccino li protegge, ma temporaneamente, dal Covid grave - queste persone si ritrovano nella condizione di poter subire contemporaneamente i rischi oncologici provocati da vaccino e virus naturale messi insieme».
Sono diversi i meccanismi cellulari attraverso cui il vaccino può velocizzare l’andamento del cancro analizzati negli studi citati nella review di Isidoro, intitolata «Sars-Cov2 e vaccini anti-Covid-19 a mRna: Esiste un plausibile legame meccanicistico con il cancro?». Tra questi studi, alcuni rilevano che, in conseguenza della vaccinazione anti-Covid a mRna - e anche in conseguenza del Covid -, «si riduce Ace 2», enzima convertitore di una molecola chiamata angiotensina II, favorendo il permanere di questa molecola che favorisce a sua volta la proliferazione dei tumori. Altri dati analizzati nella review dimostrano inoltre che sia il virus che i vaccini di nuova generazione portano ad attivazione di geni e dunque all’attivazione di cellule tumorali. Altri dati ancora mostrano come sia il virus che il vaccino inibiscano l’espressione di proteine che proteggono dalle mutazioni del Dna.
Insomma, il vaccino anti-Covid, così come il virus, interferisce nei meccanismi cellulari di protezione dal cancro esponendo a maggiori rischi chi ha già una predisposizione genetica alla formazione di cellule tumorali e i malati oncologici con tumori dormienti, spiega Isidoro, facendo notare come i vaccinati con tre o più dosi si sono rivelati più esposti al contagio «perché il sistema immunitario in qualche modo viene ingannato e si adatta alla spike e dunque rende queste persone più suscettibili ad infettarsi».
Nella review anche alcune conferme agli esperimenti in vitro che arrivano dal mondo reale, come uno studio retrospettivo basato su un’ampia coorte di individui non vaccinati (595.007) e vaccinati (2.380.028) a Seul, che ha rilevato un’associazione tra vaccinazione e aumento del rischio di cancro alla tiroide, allo stomaco, al colon-retto, al polmone, al seno e alla prostata. «Questi dati se considerati nel loro insieme», spiega Isidoro, «convergono alla stessa conclusione: dovrebbero suscitare sospetti e stimolare una discussione nella comunità scientifica».
D’altra parte, anche Katalin Karikó, la biochimica vincitrice nel 2023 del Nobel per la Medicina proprio in virtù dei suoi studi sull’Rna applicati ai vaccini anti Covid, aveva parlato di questi possibili effetti collaterali di «acceleratore di tumori già esistenti». In particolare, in un’intervista rilasciata a Die Welt lo scorso gennaio, la ricercatrice ungherese aveva riferito della conversazione con una donna sulla quale, due giorni dopo l’inoculazione, era comparso «un grosso nodulo al seno». La signora aveva attribuito l’insorgenza del cancro al vaccino, mentre la scienziata lo escludeva ma tuttavia forniva una spiegazione del fenomeno: «Il cancro c’era già», spiegava Karikó, «e la vaccinazione ha dato una spinta in più al sistema immunitario, così che le cellule di difesa immunitaria si sono precipitate in gran numero sul nemico», sostenendo, infine, che il vaccino avrebbe consentito alla malcapitata di «scoprire più velocemente il cancro», affermazione che ha lasciato e ancor di più oggi lascia - alla luce di questo studio di Isidoro - irrisolti tanti interrogativi, soprattutto di fronte all’incremento in numero dei cosiddetti turbo-cancri e alla riattivazione di metastasi in malati oncologici, tutti eventi che si sono manifestati post vaccinazione anti- Covid e non hanno trovato altro tipo di plausibilità biologica diversa da una possibile correlazione con i preparati a mRna.
«Marginale il gabinetto di Speranza»
Mentre eravamo chiusi in casa durante il lockdown, il più lungo di tutti i Paesi occidentali, ognuno di noi era certo in cuor suo che i decisori che apparecchiavano ogni giorno alle 18 il tragico rito della lettura dei contagi e dei decessi sapessero ciò che stavano facendo. In realtà, al netto di un accettabile margine di impreparazione vista l’emergenza del tutto nuova, nelle tante stanze dei bottoni che il governo Pd-M5S di allora, guidato da Giuseppe Conte, aveva istituito, andavano tutti in ordine sparso. E l’audizione in commissione Covid del proctologo del San Raffaele Pierpaolo Sileri, allora viceministro alla Salute in quota 5 stelle, ha reso ancor più tangibile il livello d’improvvisazione e sciatteria di chi allora prese le decisioni e oggi è impegnato in tripli salti carpiati pur di rinnegarne la paternità. È il caso, ad esempio, del senatore Francesco Boccia del Pd, che ieri è intervenuto con zelante sollecitudine rivolgendo a Sileri alcune domande che son suonate più come ingannevoli asseverazioni. Una per tutte: «Io penso che il gabinetto del ministero della salute (guidato da Roberto Speranza, ndr) fosse assolutamente marginale, decidevano Protezione civile e coordinamento dei ministri». Il senso dell’intervento di Boccia non è difficile da cogliere: minimizzare le responsabilità del primo imputato della malagestione pandemica, Speranza, collega di partito di Boccia, e rovesciare gli oneri ora sul Cts, ora sulla Protezione civile, eventualmente sul governo ma in senso collegiale. «Puoi chiarire questi aspetti così li mettiamo a verbale?», ha chiesto Boccia a Sileri. L’ex sottosegretario alla salute, però, non ha dato la risposta desiderata: «Il mio ruolo era marginale», ha dichiarato Sileri, impegnato a sua volta a liberarsi del peso degli errori e delle omissioni in nome di un malcelato «io non c’ero, e se c’ero dormivo», «il Cts faceva la valutazione scientifica e la dava alla politica. Era il governo che poi decideva». Quello stesso governo dove Speranza, per forza di cose, allora era il componente più rilevante. Sileri ha dichiarato di essere stato isolato dai funzionari del ministero: «Alle riunioni non credo aver preso parte se non una volta» e «i Dpcm li ricevevo direttamente in aula, non ne avevo nemmeno una copia». Che questo racconto sia funzionale all’obiettivo di scaricare le responsabilità su altri, è un dato di fatto, ma l’immagine che ne esce è quella di decisori «inadeguati e tragicomici», come ebbe già ad ammettere l’altro sottosegretario Sandra Zampa (Pd).Anche sull’adozione dell’antiscientifica «terapia» a base di paracetamolo (Tachipirina) e vigile attesa, Sileri ha dichiarato di essere totalmente estraneo alla decisione: «Non so chi ha redatto la circolare del 30 novembre 2020 che dava agli antinfiammatori un ruolo marginale, ne ho scoperto l’esistenza soltanto dopo che era già uscita». Certo, ha ammesso, a novembre poteva essere dato maggiore spazio ai Fans perché «da marzo avevamo capito che non erano poi così malvagi». Bontà sua. Per Alice Buonguerrieri (Fdi) «è la conferma che la gestione del Covid affogasse nella confusione più assoluta». Boccia è tornato all’attacco anche sul piano pandemico: «Alcuni virologi hanno ribadito che era scientificamente impossibile averlo su Sars Cov-2, confermi?». «L'impatto era inatteso, ma ovviamente avere un piano pandemico aggiornato avrebbe fatto grosse differenze», ha replicato Sileri, che nel corso dell’audizione ha anche preso le distanze dalle misure suggerite dall’Oms che «aveva un grosso peso politico da parte dalla Cina». «I burocrati nominati da Speranza sono stati lasciati spadroneggiare per coprire le scelte errate dei vertici politici», è il commento di Antonella Zedda, vicepresidente dei senatori di Fratelli d’Italia, alla «chicca» emersa in commissione: un messaggio di fuoco che l’allora capo di gabinetto del ministero Goffredo Zaccardi indirizzò a Sileri («Stai buono o tiro fuori i dossier che ho nel cassetto», avrebbe scritto).In che mani siamo stati.
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