2019-04-28
Cancellano i cristiani per celare la loro sconfitta
Emmanuel Macron davanti all'incendio di Notre Dame e Barack Obama dopo gli attentati islamici in Sri Lanka svelano un tabù del potere. Per chi aveva scommesso sulla sparizione della religione, Cristo dev'essere cancellato dal vocabolario. Perché dal mondo non se ne vuole andare.Quanta fatica a pronunciare la parola cristianesimo. Neppure un tipo apparentemente disinvolto come Emmanuel Macron, nel suo messaggio alla Francia dopo l'incendio di Notre Dame, riesce a dire (almeno una volta) «cristiani». Eppure sono loro che l'hanno costruita, e in essa si ritrovano «per mangiare un pane che noi crediamo essere il corpo di Cristo», come ha sinteticamente precisato il vescovo di Parigi, Michel Aupetit, ricordando al presidente che si trattava della cattedrale cattolica, non di un monumento nazionale qualsiasi. Neppure persone di mondo come Barack Obama e Hillary Clinton sono riusciti a dire la parola che scotta, e per twittare sugli oltre 253 morti degli attentati in Sri Lanka, l'hanno sostituita con i fantasiosi «adoratori della Pasqua». Non è una questione futile: le parole sono importanti. Con le parole si creano (o si fanno sparire) interi mondi, come sta facendo in questi mesi e anni il mondo Lgbt, cambiando le parole legate alla sessualità e alla relazione. Non per nulla le burocrazie politiche europee discussero a lungo se menzionare o no nella Costituzione dell'Unione le sue radici cristiane, e alla fine decisero di non farne nulla. Indebolendone così ulteriormente l'identità, come ha ricordato Ernesto Galli della Loggia sul Corriere.Non è però solo per rubare la scena alla religione che gli alti rappresentanti del potere senza fede evitano di nominare il cristianesimo, che da settimane è comunque il protagonista del momento, con le sue vite umane in gioco, luoghi di culto, simboli, fedi e emozioni. Non che questo aspetto sia assente: per attori politici così inconsistenti, e tuttavia pretenziosi, la scena è tutto. Non hanno nessuna intenzione di uscirne, e sono pronti a inventare qualsiasi cosa pur di restarci. C'è però di più; e loro, che animali da scena sono sicuramente, lo sentono sulla pelle. Il fatto è che loro con questo scenario così forte, così realmente drammatico e diverso dalle commedie banali anche se spesso insanguinate che hanno finora interpretato non hanno più niente a che fare. Come spesso accade nei momenti di svolta della storia, lo spirito del tempo (Zeitgeist) ha preso il posto dei figuranti ancora rimasti sul palco. Lo Zeitgeist di oggi parla (già da un po') di ricerca e difesa delle identità che prima si è cercato di distruggere. A cominciare da quelle culturali e religiose, quelle dell'anima, che spesso sono molto più sostanziose e decisive del conto in banca. L'ultimo tentativo dei politici di ieri, vecchi adoratori del conto in banca, diventa allora quello di ridurre ciò che accade a incidenti turistici, magari pericolosi per sette di superstiziosi adoratori che si ostinano ad aggirarsi in luoghi e tra gente «del mondo di ieri», come Obama ama chiamare ciò che secondo lui non si usa più (l'ha fatto per esempio a proposito di Vladimir Putin). Il non nominare la verità è del resto l'esercizio cui hanno legato la loro storia (e cui hanno vincolato quella del mondo negli ultimi decenni). E la verità, per loro innominabile, ha innanzitutto il nome di Cristo, che ha inaugurato l'era dell'“uomo nuovo"», come ricordavano sia Carl Gustav Jung che Rudolf Steiner. È a lui che rimanda ogni fatto e episodio significativo della storia moderna. Una verità che si è fatta tanto più innominabile e imbarazzante per chi ha puntato tutto sulla sparizione della religione, quanto più risulta condivisa e apprezzata da vasti strati di cittadini operosi, che la ritengono determinante per il proprio benessere e felicità, con grande sorpresa della vecchia politica e dei suoi rappresentanti. È da poco uscito, proprio negli Stati Uniti, l'ultimo sondaggio di Pew research, Istituto specializzato in sociologia religiosa, dedicato al «Rapporto della religione con la felicità, impegno civile, e la salute, nel mondo»; un malloppo di una cinquantina di pagine di dati e tabelle, accompagnato da diversi studi per diversi settori e specifici problemi, e da decine di pagine di bibliografia. Il risultato (peraltro non sorprendente per gli studiosi del campo, ma appunto confermato anche da queste ultime rilevazioni), è che le persone che dichiarano, oltre a una fede, una sistematica frequenza ai riti della propria Chiesa o gruppo religioso (per la maggioranza Chiese cristiane ed ebraiche) si dichiarano molto più felici e soddisfatti della propria vita di quelle che non lo fanno. Inoltre stanno fisicamente meglio, hanno relazioni più durature e positive, si sentono più realizzati nel lavoro. Nella società poi sono i cittadini più impegnati, vanno a votare molto più regolarmente e frequentemente degli altri, hanno insomma una presenza sociale più regolare e convinta dei non credenti e praticanti. Del resto, l'inaspettata presidenza Trump è nata (anche) così.Dal punto di vista psicologico non è una novità. È vero che Sigmund Freud, in quanto scopritore novecentesco dell'inconscio (peraltro conosciuto anche prima), aveva cercato di denunciare il carattere «illusorio» delle religioni, appoggiandosi su ricerche antropologiche già invalidate fin da allora. Ma le sue ipotesi sono smentite dalla pratica clinica quotidiana. In essa appare invece evidente che chi poggia su una fede condivisa e praticata vive e riesce complessivamente meglio di chi non ce l'ha. Soprattutto se è ampia, esercitata da secoli, e nutrita da linguaggi anche simbolici in continuo sviluppo, come appunto le grandi religioni storiche. Fu l'ubriacatura individualista del Novecento a far pensare che l'uomo «ce la fa da solo». Ma la realtà è diversa. Innanzitutto perché l'essere umano è animale sociale, e tutta la sua crescita e vita si svolge in relazione con l'altro (e Cristo è uno di questi «altri»). Inoltre perché l'uomo è parte di una realtà più ampia che va dalla terra al cielo, e il fatto religioso riguarda sia i suoi rapporti con la natura che quelli con gli altri esseri umani. I modelli razionalistici hanno cercato più volte di negare questa complessa realtà, ma senza riuscirci. Come ha spiegato il filosofo (di formazione marxista) Ernst Bloch, un fenomeno indispensabile alla vita come la speranza ha bisogno della religione. Il disperato è profondamente infelice e la sua vita difficile. A ciò è dedicato anche il recente Per vincere ansietà e paure, del teologo Juergen Werbick (Queriniana). Anche da questo ultimo studio di Pew research viene insomma confermato un antico ritratto del credente (certo ignoto alle semplificazioni dei Clinton, Obama e Macron) che neppure il sommario tentativo di sradicamento postmoderno è riuscito a distruggere. L'individuo religioso non è un «bigotto», ma una persona con un forte istinto di sopravvivenza, che vuole vivere bene, possibilmente a lungo, e in armonia con gli altri e con la natura. Inoltre non ha troppa paura della morte perché crede e ha fiducia in Dio, e spera di trovarsi bene anche dopo.