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2020-10-26
Il vaccino come l’oro. Un mercato che vale 100 miliardi di dollari
Ansa
Piatto ricco mi ci ficco. Un detto valido anche per le case farmaceutiche, che non appena hanno fiutato la montagna di potenziali guadagni si sono buttate a capofitto nel business del vaccino contro il Covid-19.
Stando all'elenco aggiornato pubblicato dal
New York Times, sono undici i vaccini nella «fase 3» della sperimentazione. Lo step nel quale, cioè, per usare le parole dell'Istituto superiore di sanità, prevede che il prodotto allo studio venga «somministrato a un numero assai più elevato di pazienti» rispetto alla prima e seconda fase al fine di «dimostrare il vantaggio preventivo o terapeutico ascrivibile al prodotto in esame».
Sulla carta un passaggio destinato a durare tra i due e i quattro anni, ma che nel caso del coronavirus potrebbe subire una fortissima accelerazione.
Ma occhio a illudersi perché la carità c'entra poco o nulla. La posta in gioco in termini di profitti per chi dovesse arrivare al traguardo è altissima. Secondo un'analisi elaborata dalla società di consulenza Evercore, il mercato del vaccino contro il Covid-19 potrebbe valere 100 miliardi di dollari di vendite (quasi 85 miliardi di euro) e 40 miliardi di dollari (circa 34 miliardi di euro) di profitti al netto delle tasse.
Comprensibile, dunque, che gli operatori farmaceutici stiano facendo a gara per arrivare primi al traguardo. Tra le aziende in pole position troviamo le americane Moderna, Pfizer, Novavax e Johnson&Johnson, la tedesca Biontech e la britannica-svedese Astrazeneca. Tutte sono arrivate all'ultimo gradino prima della diffusione al grande pubblico, con Pfizer-Biontech e Astrazeneca in lizza per ricevere l'autorizzazione entro fine anno e distribuire le primissime dosi già nei primi mesi del 2021.
Le proiezioni di vendita regalano numeri da capogiro. Tanto per dare un'idea dei possibili guadagni, di recente gli analisti di Svb Leerink, banca di investimenti specializzata nel settore sanitario, ha stimato che l'anno venturo la sola Pfizer potrebbe ricavare dalle vendite del vaccino anti-Covid ben 3,5 miliardi di dollari (3 miliardi di euro), per poi stabilizzarsi a 1,4 miliardi di dollari (1,2 miliardi di euro) negli anni successivi.
Secondo Svb Leerink, Pfizer potrebbe occupare il 50 per cento dell'intero mercato. Dal canto loro, i tecnici di Evercore invece punto sul vaccino a mRna allo studio di Moderna, potenzialmente in grado di assorbire fino al 40 per cento della domanda, seguito dal candidato di Novavax che invece sarebbe in grado di raggiungere una quota di mercato pari al 20 per cento. Sono solo ipotesi, ma nell'attesa che arrivino i veri guadagni questi titani si possono consolare con l'ottimo andamento in borsa. Grazie ai promettenti risultati della sperimentazione, il valore di mercato rispetto al 31 dicembre dell'anno scorso di Astrazeneca è salito del 4 per cento. Molto meglio hanno fatto Novavax (+4.300 per cento), Moderna (+323 per cento) e Biontech (+175 per cento).
Tutti i vaccini sono ancora nella fase sperimentale, ragion per cui ancora a metà ottobre la Commissione europea si è premurata di specificare in un documento ufficiale che «attualmente non si sa quale potenziale vaccino, se mai dovesse esserci, completerà con successo il processo di sviluppo e autorizzazione, in modo tale da soddisfare i criteri di efficacia e sicurezza per essere introdotto nel mercato dell'Unione europea».
Come dimostrano i recenti sviluppi, è sufficiente un minimo intoppo per bloccare i
trial clinici, ritardando di conseguenza l'immissione sul mercato. Basti pensare alla sospensione tutt'ora in corso da Johnson&Johnson oppure quella operata per qualche giorno da Astrazeneca (negli Stati Uniti però la sperimentazione è ancora sospesa), a causa di reazioni avverse sospette emerse in alcuni volontari.
Per adesso, nella fase di ricerca e sviluppo, gli introiti di Big Pharma sono stati garantiti dalle sovvenzioni statali. Una scommessa molto pericolosa per i Paesi che investono dal momento che se la ricerca dovesse fallire, come ha spiegato qualche mese fa il professor
Walter Ricciardi, «si perderà un investimento in cui pubblico e privato hanno condiviso un rischio».
Solo l'Unione europea ha messo sul piatto 2,7 miliardi di euro, mentre l'operazione Warp Speed ideata dalla Casa Bianca vale almeno quattro volte tanto. Nel mondo politico ci sono forti pressioni affinché, in virtù di questi stanziamenti, le aziende rinuncino ai profitti. Un impegno preso da alcune aziende a cui però in pochissimi credono. Le condizioni contrattuali sono
top secret, ma pare che Astrazeneca stia facendo siglare ai singoli Stati una clausola nella quale si ipotizza la fine della pandemia a luglio del 2021, data oltre la quale sarebbe autorizzata a guadagnare dalle vendite. E Stephen Hoge, presidente di Moderna, ha già messo nero su bianco che la sua azienda «non venderà il vaccino a prezzo di costo». Avevate per caso qualche dubbio?
Chi guadagna con il virus
Prendete la ricchezza prodotta da Friuli Venezia-Giulia, Sardegna e Trentino messi insieme. Oppure, se preferite, metà del prodotto interno lordo generato dalla città di Milano. E ancora, per usare un'altra immagine, quasi sette volte la circonferenza del nostro pianeta percorsa mettendo in fila quasi 2 miliardi di banconote da 50 euro. Sono solo alcuni esempi per quantificare i guadagni aggiuntivi rispetto alla media dei quattro anni precedenti, conseguiti ai tempi della pandemia dalle 32 aziende più redditizie al mondo. Una cifra che Oxfam, confederazione internazionale che si batte contro la povertà e le diseguaglianze, ha stimato pari a ben 109 miliardi di dollari, circa 92 miliardi di euro. Quasi mezzo miliardo di posti di lavoro persi e milioni di attività chiuse per sempre a causa dell'avanzata del coronavirus. Secondo stime della Fao, per colpa del patogeno 130 milioni di persone in più rischiano di soffrire di fame cronica.
Ma in questo scenario da incubo c'è chi ha lucrato, e anche tanto. Si tratta dei grandi colossi della tecnologia, delle telecomunicazioni, dell'e-commerce e della grande distribuzione organizzata. E naturalmente non poteva mancare il club di Big Pharma, quella manciata di case farmaceutiche che si è immediatamente buttata a capofitto nel business offerto dalla pandemia. «Il Covid-19 ha avuto conseguenze tragiche per molte persone in tutto il mondo ma ha anche beneficiato chi si trova all'apice della piramide distributiva», ha spiegato Misha Maslennikov, policy advisor su giustizia economica di Oxfam Italia, «a livello globale alcune grandi multinazionali, in particolare i colossi tecnologici, farmaceutici e del commercio online stanno registrando, senza particolari meriti produttivi, livelli di utili da capogiro, beneficiando della domanda eccezionale dei loro beni e servizi causata dalla pandemia, e applicando incrementi talvolta ingiustificati dei prezzi».
Scorrendo la classifica contenuta nel recente rapporto La pandemia dei profitti e dei poteri si trovano nomi più o meno noti al pubblico italiano. Presenti nell'elenco, ad esempio, Walmart e Home Depot. Entrambi americani, la prima rappresenta la più importante catena al mondo della grande distribuzione organizzata, la seconda invece un grande venditore al dettaglio di prodotti per la manutenzione della casa con più di 2.000 punti vendita in tutto il territorio degli Stati Uniti. Se per Walmart il successo (+6,7 miliardi di dollari di profitti) è giustificabile dall'esigenza di riempire il carrello di beni di prima necessità, Home Depot (+2,1 miliardi di dollari) ha basato il rilancio sulla rimodulazione del proprio business. «Gli investimenti fatti hanno aumentato significativamente la nostra agilità, permettendoci di rispondere prontamente ai cambiamenti in atto», ha dichiarato il presidente Craig Menear.
La parte del leone, però, la fanno i giganti del tech. Sui primi tre gradini del podio troviamo infatti Apple, Microsoft e Google. Mettendo insieme i profitti aggiuntivi delle «big four» (Apple, Google, Facebook e Amazon), si arriva già a 23 miliardi di euro, che salgono a 39 miliardi se si include anche Microsoft. «È la fine del mondo per come lo conosciamo, ma la tecnologia va alla grande», ha scritto parafrasando il noto brano dei Rem The Verge, uno dei siti web più importanti del settore. Nel primo semestre di quest'anno, Apple ha conseguito ricavi per 59,7 miliardi di dollari, pari a 50,4 miliardi di euro, battendo perfino le attese degli analisti. Rispetto all'anno precedente, un aumento a doppia cifra pari all'11%. A trainare il risultato le vendite di iPad (+31%) e computer Mac (+21,6%), anche se da solo con i suoi 26,4 miliardi di dollari (+1,7%) il comparto iPhone traina la baracca rappresentando quasi metà delle vendite totali.
Periodo d'oro anche per Microsoft, che al 30 giugno ha chiuso con 38 miliardi di dollari di ricavi (32 miliardi di euro), +13% rispetto al 2019, e un utile netto di 11,2 miliardi di dollari di dollari (9,5 miliardi di euro). Per la prima volta nella storia, le vendite dei servizi cloud hanno superato la soglia psicologica di 50 miliardi di dollari. Nella nota diffusa a margine della presentazione dei risultati, l'azienda di Redmond ha parlato, paradossalmente, dell'impatto positivo arrecato dal Covid-19. «L'utilizzo e la domanda dei servizi cloud è aumentata dal momento che i clienti continuano a lavorare da casa», spiegano gli analisti, «mentre il comparto personal computing beneficia dell'aumento della domanda a supporta di scenari nei quali lavoro, gioco e formazione si svolgono nelle abitazioni».
L'ascesa di Apple e Microsoft trova la sua ragione, dunque, nel forte incremento della richiesta di hardware e software per fronteggiare la permanenza a casa durante i lunghi lockdown. Discorso diverso per ciò che riguarda Facebook e Google, che da par loro possono vantare secondo i calcoli di Oxfam un eccesso di profitto da attribuire alla pandemia, rispettivamente, nella misura di 6,1 e 5,9 miliardi di dollari. Può sorridere Mark Zuckerberg, la cui piattaforma fino all'anno scorso sembrava condannata a un lento ma inesorabile declino, per essere soppiantata da social network più giovani come TikTok. E invece Facebok, forte anche della lunga esperienza maturata in questo campo, ha visto sorprendentemente aumentare il numero degli utenti attivi sia su base giornaliera (1,78 miliardi contro 1,66 di fine 2019, +7%) che mensile (2,7 miliardi contro 2,5 di fine anno passato, +8%). Ottimo risultato anche per i ricavi, che nel secondo trimestre 2020 fanno segnare il secondo miglior risultato di sempre attestandosi a 18,7 miliardi di dollari, il 97% dei quali rappresentati da introiti pubblicitari. Messo di fronte alla prova della pandemia, dunque, il modello Facebook funziona. Chiusa in casa, la gente sente il bisogno di tenersi in contatto con chi non può incontrare, e qua il social di Zuckerberg viene in aiuto. Non solo post sulla timeline, ma anche pagine, gruppi e chat di Messenger rappresentano una grande piazza digitale nella quale scambiarsi foto, emozioni, opinioni oppure, molto più banalmente, anche solo un saluto. Molto più cauto l'andamento di Google, che sconta l'assenza di un social vero e proprio e lega una parte dei suoi guadagni alla pubblicità delle piccole e medie aziende. Quelle cioè che sono rimaste più colpite dalla crisi causata dal coronavirus. Nel secondo trimestre di quest'anno, la capogruppo Alphabet ha registrato una diminuzione del 2% nei ricavi rispetto all'anno precedente, affossata dal -6% di vendite pubblicitarie di Youtube, ma fa ben sperare il +43% nei servizi cloud. Nonostante tutto, l'amministratore delegato Sundar Pichai rimane positivo: «Si vedono i primi segni di una stabilizzazione, data dal fatto che i nostri utenti riprendono le vendite online».
Capitolo a parte per Amazon, vero mattatore della pandemia, con 6,4 miliardi di profitto netto in più rispetto al 2019 (+95%). Senza dubbio Jeff Bezos è uno a cui piace vincere facile. Così, mentre tutto il mondo era sigillato tra le quattro mura domestiche, i corrieri recapitavano pacchi di ogni genere, evitando alle persone spostamenti inutili. Nel secondo trimestre 2020, Amazon ha fatto registrare un incremento delle vendite pari al 40%, mentre i profitti sono di fatto raddoppiati, passando dai 2,6 miliardi di dollari del 2019 ai 5,2 miliardi attuali.
L'azienda di Bezos, da sola, rappresenta oggi il 38% del fatturato e-commerce a livello mondiale. Grazie ai risultati conseguiti, dall'inizio dell'anno Amazon ha sfondato i 1.000 miliardi di dollari di valore di mercato, arrivando a sfiorare quota 1.600 miliardi proprio in questi giorni. Una formula geniale che ha permesso al suo creatore di salire in cima alla lista di paperoni della pandemia stilata da Forbes: +90 miliardi di dollari di ricchezza personale da metà marzo a metà ottobre, pari a una crescita che sfiora l'80%.
Ricordate Gordon Gekko, personaggio interpretato da un magistrale Michael Douglas nel film Wall Street? «L'avidità è una cosa buona, è giusta, funziona».
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I colossi farmaceutici si sfidano per ottenere per primi l'antidoto. Usa e Ue investono, ma Big Pharma non rinuncerà ai guadagni. La pandemia ha messo in ginocchio l'economia mondiale ma le grandi multinazionali tecnologiche hanno fatto utili da capogiro. I profitti aggiuntivi di Apple, Google, Facebook, Amazon e Microsoft hanno raggiunto i 39 miliardi di euro. Lo speciale contiene due articoli. Piatto ricco mi ci ficco. Un detto valido anche per le case farmaceutiche, che non appena hanno fiutato la montagna di potenziali guadagni si sono buttate a capofitto nel business del vaccino contro il Covid-19. Stando all'elenco aggiornato pubblicato dal New York Times, sono undici i vaccini nella «fase 3» della sperimentazione. Lo step nel quale, cioè, per usare le parole dell'Istituto superiore di sanità, prevede che il prodotto allo studio venga «somministrato a un numero assai più elevato di pazienti» rispetto alla prima e seconda fase al fine di «dimostrare il vantaggio preventivo o terapeutico ascrivibile al prodotto in esame». Sulla carta un passaggio destinato a durare tra i due e i quattro anni, ma che nel caso del coronavirus potrebbe subire una fortissima accelerazione. Ma occhio a illudersi perché la carità c'entra poco o nulla. La posta in gioco in termini di profitti per chi dovesse arrivare al traguardo è altissima. Secondo un'analisi elaborata dalla società di consulenza Evercore, il mercato del vaccino contro il Covid-19 potrebbe valere 100 miliardi di dollari di vendite (quasi 85 miliardi di euro) e 40 miliardi di dollari (circa 34 miliardi di euro) di profitti al netto delle tasse. Comprensibile, dunque, che gli operatori farmaceutici stiano facendo a gara per arrivare primi al traguardo. Tra le aziende in pole position troviamo le americane Moderna, Pfizer, Novavax e Johnson&Johnson, la tedesca Biontech e la britannica-svedese Astrazeneca. Tutte sono arrivate all'ultimo gradino prima della diffusione al grande pubblico, con Pfizer-Biontech e Astrazeneca in lizza per ricevere l'autorizzazione entro fine anno e distribuire le primissime dosi già nei primi mesi del 2021. Le proiezioni di vendita regalano numeri da capogiro. Tanto per dare un'idea dei possibili guadagni, di recente gli analisti di Svb Leerink, banca di investimenti specializzata nel settore sanitario, ha stimato che l'anno venturo la sola Pfizer potrebbe ricavare dalle vendite del vaccino anti-Covid ben 3,5 miliardi di dollari (3 miliardi di euro), per poi stabilizzarsi a 1,4 miliardi di dollari (1,2 miliardi di euro) negli anni successivi. Secondo Svb Leerink, Pfizer potrebbe occupare il 50 per cento dell'intero mercato. Dal canto loro, i tecnici di Evercore invece punto sul vaccino a mRna allo studio di Moderna, potenzialmente in grado di assorbire fino al 40 per cento della domanda, seguito dal candidato di Novavax che invece sarebbe in grado di raggiungere una quota di mercato pari al 20 per cento. Sono solo ipotesi, ma nell'attesa che arrivino i veri guadagni questi titani si possono consolare con l'ottimo andamento in borsa. Grazie ai promettenti risultati della sperimentazione, il valore di mercato rispetto al 31 dicembre dell'anno scorso di Astrazeneca è salito del 4 per cento. Molto meglio hanno fatto Novavax (+4.300 per cento), Moderna (+323 per cento) e Biontech (+175 per cento). Tutti i vaccini sono ancora nella fase sperimentale, ragion per cui ancora a metà ottobre la Commissione europea si è premurata di specificare in un documento ufficiale che «attualmente non si sa quale potenziale vaccino, se mai dovesse esserci, completerà con successo il processo di sviluppo e autorizzazione, in modo tale da soddisfare i criteri di efficacia e sicurezza per essere introdotto nel mercato dell'Unione europea». Come dimostrano i recenti sviluppi, è sufficiente un minimo intoppo per bloccare i trial clinici, ritardando di conseguenza l'immissione sul mercato. Basti pensare alla sospensione tutt'ora in corso da Johnson&Johnson oppure quella operata per qualche giorno da Astrazeneca (negli Stati Uniti però la sperimentazione è ancora sospesa), a causa di reazioni avverse sospette emerse in alcuni volontari. Per adesso, nella fase di ricerca e sviluppo, gli introiti di Big Pharma sono stati garantiti dalle sovvenzioni statali. Una scommessa molto pericolosa per i Paesi che investono dal momento che se la ricerca dovesse fallire, come ha spiegato qualche mese fa il professor Walter Ricciardi, «si perderà un investimento in cui pubblico e privato hanno condiviso un rischio». Solo l'Unione europea ha messo sul piatto 2,7 miliardi di euro, mentre l'operazione Warp Speed ideata dalla Casa Bianca vale almeno quattro volte tanto. Nel mondo politico ci sono forti pressioni affinché, in virtù di questi stanziamenti, le aziende rinuncino ai profitti. Un impegno preso da alcune aziende a cui però in pochissimi credono. Le condizioni contrattuali sono top secret, ma pare che Astrazeneca stia facendo siglare ai singoli Stati una clausola nella quale si ipotizza la fine della pandemia a luglio del 2021, data oltre la quale sarebbe autorizzata a guadagnare dalle vendite. E Stephen Hoge, presidente di Moderna, ha già messo nero su bianco che la sua azienda «non venderà il vaccino a prezzo di costo». 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Una cifra che Oxfam, confederazione internazionale che si batte contro la povertà e le diseguaglianze, ha stimato pari a ben 109 miliardi di dollari, circa 92 miliardi di euro. Quasi mezzo miliardo di posti di lavoro persi e milioni di attività chiuse per sempre a causa dell'avanzata del coronavirus. Secondo stime della Fao, per colpa del patogeno 130 milioni di persone in più rischiano di soffrire di fame cronica. Ma in questo scenario da incubo c'è chi ha lucrato, e anche tanto. Si tratta dei grandi colossi della tecnologia, delle telecomunicazioni, dell'e-commerce e della grande distribuzione organizzata. E naturalmente non poteva mancare il club di Big Pharma, quella manciata di case farmaceutiche che si è immediatamente buttata a capofitto nel business offerto dalla pandemia. «Il Covid-19 ha avuto conseguenze tragiche per molte persone in tutto il mondo ma ha anche beneficiato chi si trova all'apice della piramide distributiva», ha spiegato Misha Maslennikov, policy advisor su giustizia economica di Oxfam Italia, «a livello globale alcune grandi multinazionali, in particolare i colossi tecnologici, farmaceutici e del commercio online stanno registrando, senza particolari meriti produttivi, livelli di utili da capogiro, beneficiando della domanda eccezionale dei loro beni e servizi causata dalla pandemia, e applicando incrementi talvolta ingiustificati dei prezzi». Scorrendo la classifica contenuta nel recente rapporto La pandemia dei profitti e dei poteri si trovano nomi più o meno noti al pubblico italiano. Presenti nell'elenco, ad esempio, Walmart e Home Depot. Entrambi americani, la prima rappresenta la più importante catena al mondo della grande distribuzione organizzata, la seconda invece un grande venditore al dettaglio di prodotti per la manutenzione della casa con più di 2.000 punti vendita in tutto il territorio degli Stati Uniti. Se per Walmart il successo (+6,7 miliardi di dollari di profitti) è giustificabile dall'esigenza di riempire il carrello di beni di prima necessità, Home Depot (+2,1 miliardi di dollari) ha basato il rilancio sulla rimodulazione del proprio business. «Gli investimenti fatti hanno aumentato significativamente la nostra agilità, permettendoci di rispondere prontamente ai cambiamenti in atto», ha dichiarato il presidente Craig Menear. La parte del leone, però, la fanno i giganti del tech. Sui primi tre gradini del podio troviamo infatti Apple, Microsoft e Google. Mettendo insieme i profitti aggiuntivi delle «big four» (Apple, Google, Facebook e Amazon), si arriva già a 23 miliardi di euro, che salgono a 39 miliardi se si include anche Microsoft. «È la fine del mondo per come lo conosciamo, ma la tecnologia va alla grande», ha scritto parafrasando il noto brano dei Rem The Verge, uno dei siti web più importanti del settore. Nel primo semestre di quest'anno, Apple ha conseguito ricavi per 59,7 miliardi di dollari, pari a 50,4 miliardi di euro, battendo perfino le attese degli analisti. Rispetto all'anno precedente, un aumento a doppia cifra pari all'11%. A trainare il risultato le vendite di iPad (+31%) e computer Mac (+21,6%), anche se da solo con i suoi 26,4 miliardi di dollari (+1,7%) il comparto iPhone traina la baracca rappresentando quasi metà delle vendite totali. Periodo d'oro anche per Microsoft, che al 30 giugno ha chiuso con 38 miliardi di dollari di ricavi (32 miliardi di euro), +13% rispetto al 2019, e un utile netto di 11,2 miliardi di dollari di dollari (9,5 miliardi di euro). Per la prima volta nella storia, le vendite dei servizi cloud hanno superato la soglia psicologica di 50 miliardi di dollari. Nella nota diffusa a margine della presentazione dei risultati, l'azienda di Redmond ha parlato, paradossalmente, dell'impatto positivo arrecato dal Covid-19. «L'utilizzo e la domanda dei servizi cloud è aumentata dal momento che i clienti continuano a lavorare da casa», spiegano gli analisti, «mentre il comparto personal computing beneficia dell'aumento della domanda a supporta di scenari nei quali lavoro, gioco e formazione si svolgono nelle abitazioni». L'ascesa di Apple e Microsoft trova la sua ragione, dunque, nel forte incremento della richiesta di hardware e software per fronteggiare la permanenza a casa durante i lunghi lockdown. Discorso diverso per ciò che riguarda Facebook e Google, che da par loro possono vantare secondo i calcoli di Oxfam un eccesso di profitto da attribuire alla pandemia, rispettivamente, nella misura di 6,1 e 5,9 miliardi di dollari. Può sorridere Mark Zuckerberg, la cui piattaforma fino all'anno scorso sembrava condannata a un lento ma inesorabile declino, per essere soppiantata da social network più giovani come TikTok. E invece Facebok, forte anche della lunga esperienza maturata in questo campo, ha visto sorprendentemente aumentare il numero degli utenti attivi sia su base giornaliera (1,78 miliardi contro 1,66 di fine 2019, +7%) che mensile (2,7 miliardi contro 2,5 di fine anno passato, +8%). Ottimo risultato anche per i ricavi, che nel secondo trimestre 2020 fanno segnare il secondo miglior risultato di sempre attestandosi a 18,7 miliardi di dollari, il 97% dei quali rappresentati da introiti pubblicitari. Messo di fronte alla prova della pandemia, dunque, il modello Facebook funziona. Chiusa in casa, la gente sente il bisogno di tenersi in contatto con chi non può incontrare, e qua il social di Zuckerberg viene in aiuto. Non solo post sulla timeline, ma anche pagine, gruppi e chat di Messenger rappresentano una grande piazza digitale nella quale scambiarsi foto, emozioni, opinioni oppure, molto più banalmente, anche solo un saluto. Molto più cauto l'andamento di Google, che sconta l'assenza di un social vero e proprio e lega una parte dei suoi guadagni alla pubblicità delle piccole e medie aziende. Quelle cioè che sono rimaste più colpite dalla crisi causata dal coronavirus. Nel secondo trimestre di quest'anno, la capogruppo Alphabet ha registrato una diminuzione del 2% nei ricavi rispetto all'anno precedente, affossata dal -6% di vendite pubblicitarie di Youtube, ma fa ben sperare il +43% nei servizi cloud. Nonostante tutto, l'amministratore delegato Sundar Pichai rimane positivo: «Si vedono i primi segni di una stabilizzazione, data dal fatto che i nostri utenti riprendono le vendite online». Capitolo a parte per Amazon, vero mattatore della pandemia, con 6,4 miliardi di profitto netto in più rispetto al 2019 (+95%). Senza dubbio Jeff Bezos è uno a cui piace vincere facile. Così, mentre tutto il mondo era sigillato tra le quattro mura domestiche, i corrieri recapitavano pacchi di ogni genere, evitando alle persone spostamenti inutili. Nel secondo trimestre 2020, Amazon ha fatto registrare un incremento delle vendite pari al 40%, mentre i profitti sono di fatto raddoppiati, passando dai 2,6 miliardi di dollari del 2019 ai 5,2 miliardi attuali. L'azienda di Bezos, da sola, rappresenta oggi il 38% del fatturato e-commerce a livello mondiale. Grazie ai risultati conseguiti, dall'inizio dell'anno Amazon ha sfondato i 1.000 miliardi di dollari di valore di mercato, arrivando a sfiorare quota 1.600 miliardi proprio in questi giorni. Una formula geniale che ha permesso al suo creatore di salire in cima alla lista di paperoni della pandemia stilata da Forbes: +90 miliardi di dollari di ricchezza personale da metà marzo a metà ottobre, pari a una crescita che sfiora l'80%. Ricordate Gordon Gekko, personaggio interpretato da un magistrale Michael Douglas nel film Wall Street? «L'avidità è una cosa buona, è giusta, funziona».
Monterosa ski
Dopo un’estate da record, con presenze in crescita del 2% e incassi saliti del 3%, il sipario si alza ora su Monterosa Ski. In scena uno dei comprensori più autentici dell’arco alpino, da vivere fino al 19 aprile (neve permettendo) con e senza gli sci ai piedi, tra discese impeccabili, panorami che tolgono il fiato e quella calda accoglienza che da sempre distingue questo spicchio di territorio che si muove tra Valle d’Aosta e Piemonte, abbracciando le valli di Ayas e Gressoney e la Valsesia.
Protagoniste assolute dell’inverno al via, le novità.
A Gressoney-Saint-Jean il baby snow park Sonne è fresco di rinnovo e pronto ad accogliere i piccoli sciatori con aree gioco più ampie, un nuovo tapis roulant per prolungare il divertimento delle discese su sci, slittini e gommoni, e una serie di percorsi con gonfiabili a tema Walser per celebrare le tradizioni della valle. Poco più in alto, a Gressoney-La-Trinité, vede la luce la nuova pista di slittino Murmeltier, progetto ambizioso che ruota attorno a 550 metri di discesa serviti dalla seggiovia Moos, illuminazione notturna, innevamento garantito e la possibilità di scivolare anche sotto le stelle, ogni mercoledì e sabato sera.
Da questa stagione, poi, entra pienamente in funzione la tecnologia bluetooth low energy, che consente di usare lo skipass digitale dallo smartphone, senza passare dalla biglietteria. Basta tenerlo in tasca per accedere agli impianti, riducendo così plastica e attese e promuovendo una montagna più smart e sostenibile, dove la tecnologia è al servizio dell’esperienza.
Sul fronte di costi e promozioni, fioccano agevolazioni e formule pensate per andare incontro a tutte le tasche e per far fronte alle imprevedibili condizioni meteorologiche. A partire da sci gratuito per bambini sotto gli otto anni, a sconti del 30 e del 20 per cento rispettivamente per i ragazzi tra gli 8 e i 16 anni e i giovani tra i 16 e i 24 anni , per arrivare a voucher multiuso per i rimborsi skipass in caso di chiusura degli impianti . «Siamo più che soddisfatti di poter ribadire la solidità di una destinazione che sta affrontando le sfide di questi anni con lungimiranza. Su tutte, l’imprevedibilità delle condizioni meteo che ci condiziona in modo determinante e ci spinge a migliorare le performance delle infrastrutture e delle modalità di rimborso, come nel caso dei voucher», dice Giorgio Munari, amministratore delegato di Monterosa Spa.
Introdotti con successo l’inverno scorso, i voucher permettono ai titolari di skipass giornalieri o plurigiornalieri, in caso di chiusure parziali o totali del comprensorio, di avere crediti spendibili in acquisti non solo di nuovi skipass e biglietti per impianti, ma anche in attività e shopping presso partner d’eccellenza, che vanno dal Forte di Bard alle Terme di Champoluc, fino all’avveniristica Skyway Monte Bianco, passando per ristoranti di charme e botteghe artigiane.
Altra grande novità della stagione, questa volta dal respiro internazionale, l’ingresso di Monterosa Ski nel circuito Ikon pass, piattaforma americana che raccoglie oltre 60 destinazioni sciistiche nel mondo.
«Non si tratta solo di un’inclusione simbolica», commenta Munari, «ma di entrare concretamente nei radar di sciatori di Stati Uniti, Canada, Giappone o Australia che, già abituati a muoversi tra mete sciistiche di fama mondiale, avranno ora la possibilità di scoprire anche il nostro comprensorio». Comprensorio che ha tanto da offrire.
Sotto lo sguardo dei maestosi 4.000 del Rosa, sfilano discese sfidanti anche per i più esperti sul carosello principale Monterosa Ski 3 Valli - 29 impianti per 52 piste fino a 2.971 metri di quota - e percorsi più soft, adatti a principianti e bambini, nella ski area satellite di Antagnod, Brusson, Gressoney-Saint-Jean, Champorcher e Alpe di Mera; fuoripista da urlo nel regno imbiancato di Monterosa freeride paradise e tracciati di sci alpinismo d’eccezione - Monterosa Ski è il primo comprensorio di sci alpinismo in Italia. Il tutto accompagnato da panorami e paesaggi strepitosi e da un’accoglienza made in Italy che conquista a colpi di stile e atmosfere genuine. Info: www.monterosaski.eu.
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Dal foyer della Prima domina il nero scelto da vip e istituzioni. Tra abiti couture, la presenza di Pierfrancesco Favino, Mahmood, Achille Lauro e Barbara Berlusconi - appena nominata nel cda - spiccano le assenze ufficiali. Record d’incassi per Šostakovič.
Non c’è dubbio che un’opera dirompente e sensuale, che vede tradimenti e assassinii, censurata per la sua audacia e celebrata per la sua altissima qualità musicale come Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Dmítrij Šostakóvič, abbia influenzato la scelta di stile delle signore presenti.
«Quando preparo gli abiti delle mie clienti per la Prima della Scala, tengo sempre conto del tema dell’opera», spiega Lella Curiel, sessanta prime al suo attivo e stilista per antonomasia della serata più importante del Piermarini. Così ogni volta la Prima diventa un grande esperimento sociale, di eleganza ma anche di mise inopportune. Da sempre, la platea ingioiellata e in smoking, si divide tra chi è qui per la musica e chi per mostrarsi mentre finge di essere qui intendendosene. Sul piazzale, lo show comincia ben prima del do di petto. Le signore scendono dalle auto con la stessa espressione di chi affronta un red carpet improvvisato: un occhio al gradino e uno ai fotografi. Sono tiratissime, ma anche i loro accompagnatori non sono da meno, alcuni dei quali con abiti talmente aderenti che sembrano più un atto di fede che un capo sartoriale.
È il festival del «chi c’è», «chi manca» ma tutti partecipano con disinvoltura allo spettacolo parallelo: quello dei saluti affettuosi, che durano esattamente il tempo di contare quanti carati ha l’altro. Mancano sì il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, il presidente del Senato e il presidente della Camera ma gli aficionados della Prima, e anche tanti altri, ci sono tutti visto che è stato raggiunto il record di biglietti venduti, quasi 3 milioni di euro d’incasso.
Sul palco d'onore, con il sindaco Beppe Sala e Chiara Bazoli (in nero Armani rischiarato da un corpetto in paillettes), il ministro della Cultura Alessandro Giuli, l’applaudita senatrice a vita Liliana Segre, il presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana accompagnato dalla figlia Cristina (elegantissima in nero di Dior), il presidente della Corte Costituzionale Giovanni Amoroso, i vicepresidenti di Camera e Senato Anna Ascani e Gian Marco Centinaio e il prefetto di Milano Claudio Sgaraglia. Nero imperante, quindi, nero di pizzo, di velluto, di chiffon ma sempre nero. Con un tocco di rosso come per l’abito di Maria Grazia compagna di Giuseppe Marotta («è un vestito di sartoria, non è firmato da nessun stilista»), con dettagli verdi scelti da Diana Bracco («sono molto rigorosa»). Tutto nero l’abito/cappotto di Andrée Ruth Shammah («metto sempre questo per la Prima con i gioielli colorati di mia mamma»). E così quello di Fabiana Giacomotti molto scollato sulla schiena («è di Balenciaga, l’ultima collezione di Demna»).
Ma esce dal coro Barbara Berlusconi, la più fotografata, in un prezioso abito di Armani dalle varie sfumature, dall’argento al rosso al blu («ho scelto questo abito che avevo già indossato per celebrarlo»), accompagnata da Lorenzo Guerrieri. Fresca di nomina nel cda della Scala (voluta da Fontana), si è soffermata con i giornalisti. «La scelta di Šostakovič - afferma - conferma che la Scala non è solo un luogo di memoria: è anche un teatro che ha il coraggio di proporre opere che fanno pensare, che interrogano il pubblico, lo sfidano, e che raccontano la complessità del nostro tempo. La Lady è un titolo "ruvido", forte, volutamente impegnativo, che non cerca il consenso facile. È un'opera intensa, profonda, scomoda, ma anche attualissima per i temi che propone». E aggiunge: «Mio padre amava l'opera e ho avuto il piacere di accompagnarlo parecchi anni fa a una Prima. Questo ruolo nel cda l'ho preso con grande impegno per aiutare la Scala a proseguire nel suo straordinario lavoro». Altra componente del cda, Melania Rizzoli, in nero vintage dell’amica Chiara Boni, arrivata con il figlio Alberto Rizzoli. In nero Ivana Jelinic, ad di Enit, agenzia nazionale del Turismo. In blu firmato Antonio Riva, Giulia Crespi moglie di Angelo, direttore della Pinacoteca di Brera. In beige Ilaria Borletti Buitoni con un completo confezionato dalla sarta su un suo disegno. Letteralmente accerchiati da giornalisti, fotografi e telecamere Pierfrancesco Favino con la moglie Anna Ferzetti, Mahmood in Versace («mi sento regale») e Achille Lauro che dice quanto sia importante che l’opera arrivi ai giovani. Debutto lirico per Giorgio Pasotti mentre è una conferma per Giovanna Salza in Armani e ospite abituale è l’artista Francesco Vezzoli.
Poi, in 500, alla cena di gala firmata dallo chef 2 stelle Michelin nella storica Società del Giardino Davide Oldani. E così la Prima resta quel miracolo annuale in cui tutti, almeno per una sera, riescono a essere la versione più scintillante (e leggermente autoironica) di sé stessi.
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Guido Guidesi (Imagoeconomica)
Le Zis si propongono come aree geografiche o distretti tematici in cui imprese, startup e centri di ricerca possano operare in sinergia per stimolare l’innovazione, generare nuova occupazione qualificata, attrarre capitali, formare competenze avanzate e trattenere talenti. Nelle intenzioni della Regione, le nuove zone dovranno funzionare come poli stabili, riconosciuti e specializzati, ciascuno legato alle vocazioni produttive del proprio territorio. I progetti potranno riguardare settori differenti: manifattura avanzata, digitalizzazione, life science, agritech, energia, materiali innovativi, cultura tecnologica e altre filiere considerate strategiche.
La procedura di attivazione delle Zis è così articolata. La Fase 1, tramite manifestazione di interesse, permette ai soggetti coinvolti di presentare un Masterplan, documento preliminare in cui vengono indicati settore di specializzazione, composizione del partenariato, governance, spazi disponibili o da realizzare, laboratori, servizi tecnologici e prospetto di sostenibilità. La proposta dovrà inoltre includere la lettera di endorsement della Provincia competente. Ogni Provincia potrà ospitare fino a due Zis, senza limiti invece per le candidature interprovinciali. La dotazione economica disponibile per questa fase è pari a 1 milione di euro: il contributo regionale finanzia fino al 50% delle spese di consulenza per la stesura dei documenti necessari alla Fase 2, fino a un massimo di 100.000 euro per progetto.
La Fase 2 è riservata ai progetti ammessi dopo la valutazione iniziale. Con l’accompagnamento della Regione, i proponenti elaboreranno il Piano strategico definitivo, che dovrà disegnare una visione a lungo termine con orizzonte al 2050. Il programma di sviluppo indicherà le azioni operative: attrazione di nuove imprese e startup innovative, apertura o potenziamento di laboratori, creazione di infrastrutture digitali, percorsi formativi ad alta specializzazione, incubatori e servizi condivisi. Sarà inoltre definito un modello economico sostenibile e un sistema di monitoraggio basato su indicatori misurabili per valutare impatti occupazionali, tecnologici e competitivi.
I soggetti autorizzati alla presentazione delle candidature sono raggruppamenti pubblico-privati con imprese o startup come capofila. Possono partecipare enti pubblici, Comuni, Province, camere di commercio, università, centri di ricerca, enti formativi, fondazioni, associazioni e organizzazioni del terzo settore. Regione Lombardia avrà il ruolo di coordinatore e facilitatore. All’interno della direzione generale sviluppo economico sarà istituita una struttura dedicata al supporto dei territori: un presidio tecnico incaricato di orientare, assistere e valorizzare le progettualità, monitorando l’attuazione e la coerenza con gli obiettivi strategici.
Nel corso della presentazione istituzionale, l’assessore allo Sviluppo economico, Guido Guidesi, ha dichiarato: «Cambiamo per innovare. Le Zis saranno il connettore dei valori aggiunti di cui già disponiamo e che metteremo a sistema, ecosistemi settoriali che innovano in squadra tra aziende, ricerca, formazione, istituzioni e credito. Guardiamo al futuro difendendo il nostro sistema produttivo con l’obiettivo di consegnare opportunità ai giovani». Da Confindustria Lombardia è arrivata una valutazione positiva. Il presidente Giuseppe Pasini ha affermato: «Attraverso le Zis si intensifica il lavoro a favore delle imprese e dei territori. Apprezziamo la capacità di visione e la volontà di puntare sui giovani».
Ogni territorio svilupperà la propria specializzazione, puntando su filiere già forti o sulla creazione di nuovi segmenti tecnologici. Il percorso non prevede limiti settoriali ma richiede sostenibilità economica e capacità di generare ricadute occupazionali misurabili.
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Kennedy Jr (Ansa)
D’ora in avanti, le donne che risultano negative al test per l’epatite B potranno decidere, consultando il proprio medico, se vaccinare o no alla nascita il proprio bambino. I membri che hanno votato a favore delle nuove raccomandazioni hanno sostenuto che il rischio di contrarre il virus è basso, e che i vaccini dovrebbero essere personalizzati.
Il gruppo di lavoro dell’Acip, rinnovato dallo scorso giugno dal segretario alla Salute Robert F. Kennedy Jr. ha suggerito di attendere almeno i 2 mesi di età per la prima dose. La vaccinazione continuerà a essere somministrata ai neonati di madri che risultano positive, o il cui stato di salute è sconosciuto. Il direttore facente funzioni dei Cdc, Jim O’Neill, ora dovrà decidere se adottare o meno queste raccomandazioni.
La commissione ha inoltre votato a favore della consultazione dei genitori con gli operatori sanitari, per sottoporre i figli a test sulla ricerca degli anticorpi contro l’epatite B prima di decidere se sia necessario somministrare altre dosi del vaccino. Attualmente, dopo la prima i bambini ricevono la seconda a 1-2 mesi di età e la terza tra i 6 e i 18 mesi.
Kennedy ha già limitato l’accesso ai vaccini contro il Covid-19 e raccomandato che i neonati vengano vaccinati separatamente contro la varicella. Susan Kressly, presidente dell’American academy of pediatrics, ha affermato che il cambiamento apportato dall’Acip renderà i bambini americani meno sicuri. «Esorto i genitori a parlare con il pediatra e a vaccinarsi contro l’epatite B alla nascita, indipendentemente dallo stato di salute della madre», è stato il suo appello.
Il presidente Donald Trump, invece, ha commentato soddisfatto l’esito della votazione. Con un post su Truth, venerdì sera aveva definito «un’ottima decisione porre fine alla raccomandazione sul vaccino contro l’epatite B per i neonati, la stragrande maggioranza dei quali non corre alcun rischio di contrarre una malattia che si trasmette principalmente per via sessuale o tramite aghi infetti. Il calendario vaccinale infantile americano richiedeva da tempo 72 “iniezioni” per bambini perfettamente sani, molto più di qualsiasi altro Paese al mondo e molto più del necessario. In effetti, è ridicolo! Molti genitori e scienziati hanno messo in dubbio, così come me, l’efficacia di questo “programma”».
Trump ha poi annunciato di avere appena firmato «un memorandum presidenziale che ordina al dipartimento della Salute e dei Servizi Umani di “accelerare” una valutazione completa dei calendari vaccinali di altri Paesi del mondo e di allineare meglio quello statunitense, in modo che sia finalmente radicato nel Gold Standard della scienza e del buon senso», ha concluso il presidente.
Prima del voto, questa settimana dodici ex dirigenti della Fda avevano contestato sul The New England journal of medicine la proposta di revisione delle approvazioni dei vaccini da parte dell’agenzia, sostenendo che i cambiamenti minacciano gli standard basati sulle prove, indeboliscono le pratiche di immunobridging (strategia scientifica e normativa che confronta i marcatori della risposta immunitaria indotti da un vaccino in diverse situazioni per stimare l’efficacia del vaccino) e rischiano di erodere la fiducia del pubblico.
A proposito della nota interna di Vinay Prasad, direttore della divisione vaccini della Food and drug administration (Fda), che dieci giorni ha sostenuto che «non meno di 10» dei 96 decessi infantili segnalati tra il 2021 e il 2024 al Vaers, il sistema federale di segnalazione degli eventi avversi da vaccino, erano «correlati» alle somministrazioni di dosi contro il Covid, i dodici si affannano a criticarla. «Prove sostanziali dimostrano che la vaccinazione può ridurre il rischio di malattie gravi e di ospedalizzazione in molti bambini e adolescenti», dichiarano. Dati che non risultano confermati da nessuno studio o revisione paritaria.
Sul continuo attacco alle scelte operate nel campo delle vaccinazioni dalla nuova amministrazione americana interviene il professor Francesco Cetta, ordinario di Chirurgia e docente di Intelligenza artificiale umanizzata presso lo Iassp (Istituto di alti studi strategici e politici). «Trump non è contro la scienza, come urla ad alta voce la sinistra nostrana», commenta. «Al contrario, pragmaticamente, per i problemi che non conosce, ha insediato nuove commissioni indipendenti di esperti, in grado di acclarare in tempi brevi, per quanto possibile, la verità su due argomenti particolarmente sensibili come le vaccinazioni e gli effetti dei cambiamenti climatici. E su che cosa si può fare in concreto per controllarli. Con quali costi e benefici per la comunità».
Il professore aggiunge: «Bisogna evitare le terapie a tappeto, indistintamente uguali per tutti, ma adattare ad ogni malato il suo trattamento come un “abito su misura”. In particolare, per alcune categorie come i bambini e le donne in gravidanza, bisogna valutare con attenzione vantaggi e svantaggi della somministrazione di ogni farmaco, incluso i vaccini, che determinano una perturbazione delle difese immunitarie individuali».
Considerazioni che dovrebbero essere fatte anche dal nostro ministero della Salute e dalle varie associazioni mediche che non ammettono revisioni dei metodi vaccinali.
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