2023-03-29
«Non basta l’amore di una coppia. Chi è adottato cerca i veri genitori»
Anna Arecchia è presidente del Comitato per il diritto alle origini biologiche: «Tutti avvertono la necessità di risalire alle proprie radici. La maternità surrogata è una mercificazione, un passo indietro per le donne».Da giorni, a proposito della registrazione all’anagrafe dei bambini nati da utero in affitto, non si fa che parlare di «diritti». Si sostiene che questi piccini, a causa delle mancate trascrizioni degli atti di nascita con due genitori, sarebbero gravemente discriminati.In realtà, sotto ogni punto di vista e giustamente, godono delle stesse possibilità concesse a tutti gli altri bimbi. Vero è che qualcosa perdono: la possibilità di avere un legame con i propri genitori naturali (legame che va perso anche nel caso della fecondazione eterologa, laddove a sparire di scena è il padre donatore di seme). Secondo qualcuno, si tratterebbe di un problema del tutto secondario. Eppure, basta prendere atto della realtà per rendersi conto di quanto i legami di sangue possano essere rilevanti nell’esistenza dei singoli. Ne sa qualcosa Anna Arecchia, presidente del Comitato nazionale per il diritto alle origini biologiche. Una organizzazione che, come spiega la diretta interessata, si è costituita «a Napoli, nel 2009, per rispondere alle numerose richieste di quanti, figli adottivi non riconosciuti alla nascita, chiedono di essere rappresentati affinché venga sancito il diritto alla conoscenza delle proprie origini».Di che cosa si occupi il comitato, è presto detto: aiutano i figli adottivi a risalire ai propri genitori naturali. Una operazione tutt’altro che facile da portare a termine e che richiede una lunga battaglia. «Attraverso ogni iniziativa utile, cerchiamo di informare, coinvolgere e mobilitare l’opinione pubblica, assumiamo iniziative nei confronti di tutti gli organi istituzionali affinché venga recepita ogni nostra istanza in merito alla necessità di modificare l’attuale norma, ferma ancora al divieto di accesso alle origini biologiche», spiega Arecchia. «Per questo, ci siamo resi propositori, ormai da ben 15 anni, di numerosi disegni di legge, accolti e presentati nel corso delle ultime quattro legislature ma mai giunti alla conclusione di tutto il loro iter».La questione, come è facile capire, è piuttosto delicata perché c’è di mezzo anche la tutela dei genitori naturali. «In Italia, fino al 2013, data della storica sentenza 278 della Corte costituzionale, i figli non riconosciuti alla nascita non potevano in alcun modo procedere per richiedere l’accesso ai dati identificativi della madre biologica, per un periodo di 100 anni», spiega Anna Arecchia. «In virtù di detta sentenza, si è riconosciuto, al figlio che ne fa richiesta, il diritto di poter fare interpellare la madre biologica con una procedura che assicuri la massima riservatezza e che le possa consentire di esprimersi in merito a una eventuale revoca dell’anonimato espresso all’epoca del parto. La scelta, ancora oggi, ricade totalmente sulla volontà della madre, che può accogliere o meno l’invito a rimuovere l’anonimato».In sostanza, può accadere che, dopo anni di ricerche, la madre biologica rifiuti i contatti con i figli naturali. I quali, se vogliono anche solo tentare di stabilire una relazione con il genitore, devono comunque affrontare un iter complicatissimo. «La procedura che deve effettuare un cittadino non riconosciuto alla nascita, che abbia superato i 25 anni, desideroso di accedere alle proprie origini, consiste nel presentare una regolare istanza al tribunale per i minori relativo alla residenza dell’istante», dice la Recchia. «Il tribunale, ricevuta la richiesta, si attiva incaricando, solitamente, il comando provinciale dei carabinieri del luogo o un altro organo di polizia giudiziaria di effettuare tutte le ricerche per il reperimento della cartella clinica o del certificato di assistenza al parto, da cui si acquisisce il nome della madre».Giunti a quel punto, il cammino è ancora lungo. «Si procede a richiedere ogni documento utile per individuare la madre nell’attuale luogo di residenza. Ottenute tutte queste informazioni, il tribunale procede a incaricare una figura professionale, solitamente un assistente sociale, per avvicinare la madre che viene invitata in tribunale. Ovviamente non esiste, e non può esistere, un protocollo rigido di interpello, sebbene esso rappresenti il fulcro di tutta la procedura. Esso, infatti, al di là degli aspetti giuridici, presenta una complessità emotiva e psicologica che impone la massima delicatezza nell’affrontarlo. Anche le risposte da parte dei vari tribunali non seguono una procedura univoca, ma risentono fortemente della discrezionalità del presidente. È questo il motivo per cui occorre procedere quanto prima, a livello normativo, con l’approvazione del disegno di legge presentato anche in questa legislatura».Sentendo questo racconto, inevitabilmente, viene da porsi una domanda impegnativa. Come è possibile che persone ormai adulte, magari cresciute da famiglie adottive amorevoli e attente, perdano così tanto tempo ed energie a ricercare genitori naturali da cui potrebbero pure sentirsi rifiutati? «Quasi tutte le persone adottate sentono la necessità di risalire alle proprie origini a prescindere dalle loro storie adottive», dice Anna Arecchia. «Non mettendo assolutamente in discussione l’istituto dell’adozione né il profondo legame che lega i figli ai genitori che li hanno cresciuti e amati, la vita di chi non è stato riconosciuto alla nascita è contrassegnata dalla necessità esistenziale di conoscere la propria origine, per completare la visione di se stesso e della propria storia. Risulta, poi, indispensabile e rientra nel diritto alla salute, il fatto di conoscere eventuali patologie familiari per permettere ogni forma di prevenzione medica. Quindi, fondamentalmente, non si tratta di ricercare una madre né un affetto, ma il senso e il significato del proprio essere venuti al mondo».Questo è uno dei grandi temi di cui non si parla mai quando si affronta la questione della maternità surrogata. Si sostiene che basti l’amore della coppia (gay o etero) per crescere il bambino. Ma non è affatto scontato che sia così, anzi: l’esperienza del Comitato dimostra il contrario. «Il nostro Comitato, per la specifica peculiarità per cui è nato, si oppone a ogni forma di procreazione che precluda la possibilità di risalire alle proprie origini», specifica Arecchia. «Personalmente sono contraria alla gestazione per altri, in quanto ritengo indissolubile il legame che si crea tra madre e figlio e oggi, che sono madre, mi emoziono e intenerisco al pensiero del dolore che ha dovuto provare la mia nel compiere quel gesto così contro natura. La surrogazione è una vera e propria mercificazione della maternità, un enorme passo indietro per i diritti delle donne». E, aggiungiamo noi, anche per i diritti dei bambini, quelli a cui purtroppo non è mai consentito esprimersi.