2021-01-30
Caterina de’ Medici, una dote in cannellini
Caterina de' Medici (Getty Images)
La futura regina consorte portò i fagioli bianchi alla Corte di Francia. La «carne del povero», nelle sue infinite varietà, ha stregato numerosi palati di talento: da Gioacchino Rossini a Giacomo Puccini, da Giuseppe Verdi a Giuseppe Giusti. Indro Montanelli fu testimonial del Sorana. A Carlo Azeglio Ciampi piaceva lo zolfino.Risalendo lungo lo stivale prosegue un viaggio che vede l'umile fagiolo, per certi versi, protagonista inaspettato di millanta storie. Basti pensare a quante varietà accompagnino il percorso tra cucina e dispense, con relativi personaggi e scampoli di cultura materiale a farne contorno. Senza scomodare le dantesche propulsioni a scoppio della sua guida tra gli inferi, tale Barbariccia, riaccendiamo i fornelli a Paganica, nel tribolato Abruzzo aquilano. Qui l'omonimo fagiolo, alimentato dalle risorgive che scendono dal Gran Sasso, è visto come uno dei volani di ripartenza di un territorio che può offrire molto, assieme allo zafferano indigeno, eccellenza meno conosciuta rispetto al cugino di Navelli. Crescono con le loro «capanne», quattro pali di salice lavorati durante l'inverno a fare da sostegno al loro sviluppo, in un'ottica di equilibrio ambientale ideale. Una volta divenuti adulti le radici sono lasciate nel terreno, concime naturale ricco di azoto per la stagione a venire. Mentre i fagioli vengono «capati», cioè selezionati uno a uno, per dare il meglio di sé ai fornelli, bucce e piante sono utili per integrare la dieta delle mandrie ovine, dal cui latte verranno elaborati i migliori pecorini. Piatto identitario le sagne e fagioli, piccole tagliatelle frutto della macinatura del grano nuovo presso i mulini. Ruvide e integrali. Un tipo di pasta che, nella tradizione matriarcale, favoriva la miglior produzione di latte, ma questa volta delle puerpere ai loro pargoli. Al di là degli Appennini ci attende la Toscana, per certi versi la patria nobile del fagiuolo da tempi non sospetti, cioè pre colombiani. Fagioli cannellini che rientravano nella cospicua dote che portò con sé, per sposarsi oltralpe, Caterina de' Medici, futura moglie di Enrico II. Li coltivava nei suoi giardini di Versailles, ribattezzandoli toscanelli. Giusto tributo aristocratico a un prodotto che, in patria, il tosco romagnolo Pellegrino Artusi tracciava di basso profilo con un «si dice a ragione che i fagiuoli sono la carne del povero, quando l'operaio frugandosi in tasca vede, con occhio malinconico, che non arriva a comprare un pezzo di carne per fare un buon brodo, trova nei fagiuoli un alimento sano, nutriente e di poca spesa». Legumi profondamente radicati nella cultura locale tanto che una persona poteva «andare a fagiolo», cioè andare bene in certe situazioni, e se «capitava a fagiolo», cioè al momento giusto, era tombola per tutti, posto che i fagioli erano gli invitati principali (magari prima di finire in pentola) nelle giocose rimpatriate di famiglia in coincidenza delle feste comandate. Un posto nel cuore di molti palati golosi lo trova il fagiolo di Sorana. Quando la cucina toscana furoreggiava nel gran Milan del dopoguerra, un ambasciatore su tutti li fece conoscere, il grande Aimo Moroni, che di Pescia era originario. Sedersi al suo tavolo di via Montecuccoli era un'autentica scoperta di saperi e sapori. Le sue narrazioni un tributo alla miglior tradizione della cultura materiale. Inforcava la sua Seicento multipla, la paziente consorte Nadia di guardia ai fornelli, e con il fiuto di un cercatore d'oro offriva ai suoi commensali il meglio (anche) della sua terra. Uno per tutti la zuppa etrusca «un piatto semplice, ma ci vogliono tre pentole e un po' di tempo per prepararla». Con un fondo di pane a fare da culla, sul piatto, a una jam session di cavolo verza, cipollotti, porri e… i fagioli dei ghiareti, ovvero quei terreni ghiaiosi e sabbiosi che facevano da incubatrice alla crescita di un prodotto coltivato tra castagneti e oliveti. Un microcosmo sviluppatosi attorno al territorio di Pescia grazie alle bonifiche volute dai Medici rinascimentali e i granduchi leopoldini. Un frutto della terra che ha stregato innumeri palati di talento. Gioacchino Rossini, che correggeva le spartiture del locale Andrea Naldi in cambio di qualche libbra di legume locale, oppure Giuseppe Verdi che li incontrò mentre alleviava le membra e lo spirito alle terme di Montecatini. Tra queste valli ebbe il suo imprinting culinario Giuseppe Giusti che, una volta accasatosi a Firenze, si raccomandava sempre che gli venissero spediti quelli «legittimi». Giacomo Puccini, dopo un soggiorno a Pescia in cui compose alcuni brani de La Bohème, iniziò a inviarli regolarmente al suo editore milanese, Giulio Ricordi. La curia vaticana sollecitava ogni anno il pievano di Sorana ad inviarne qualche sacchetto per le cucine di papa Pio IX. Ma nonostante tanti quarti di nobiltà storica il fagiolo di Sorana stava per estinguersi. Un grido di dolore lo lanciò un loro tifoso testimonial, Indro Montanelli, dalle colonne del Corriere della Sera. Ultimo resistente l'indomito Mauro Carreri, fondatore, nel 1999, di un piccolo consorzio di produttori, «il ghiareto», dopo che, nel 1998, aveva dato luogo al biennale «Fagiolo d'oro», un premio abbinato al gemello «Partitura di Rossini». Nell'albo d'oro figure che si erano battute per la salvaguadia di questo prodotto, quali appunto Aimo Moroni, Indro Montanelli, Paolo Petroni, attuale presidente dell'Accademia italiana della cucina, o lo avevano valorizzato al piatto, come il re della chianina, il macellaio Dario Cecchini, o Sirio Maccioni, che nel suo Le Cirque, a New York, serviva solo il legume di Sorana. Altre colline, altra storia, ovvero quella del fagiolo zolfino, di Pratomagno, nell'aretino. Un prodotto molto delicato. Teme l'umidità e le brusche escursioni termiche, tanto che si può coltivare solo in collina. Un prodotto tanto ambito da aver subito diversi tentativi di falsificazione sui mercati, con buona pace dell'Artusi. Se il cugino di Sorana era ricercato dai palati vaticani, lo zolfino ha posto solide radici nei menù del Quirinale fin dai tempi di Carlo Azeglio Ciampi. Tra i custodi di questo piccolo fagiolo giallo, da alcuni definito «un pulcino», Mario Agostinelli. Detto anche fagiolo del cento, perché seminato attorno al centesimo giorno dell'anno. Beppe Bigazzi lo vede partner ideale della ribollita, mentre vi è un'altra storia che lo colloca nella leggenda, ovvero i fagioli al fiasco. Un tempo, sulle rive dell'Arno, i maestri vetrai avevano iniziato a produrre dei contenitori di vetro simili alle borracce, utili ai viaggiatori lungo i sentieri dell'epoca. Venne naturale rivestirli di una erba palustre, detta stincia. Quando, per un editto del 1388, vennero proibiti i contenitori di metallo per bevande, il fiasco prese piede. Ma mentre nelle cantine era l'ideale per conservare i tesori di Bacco, i maestri vetrai fecero di necessità virtù con la fresca, la pausa intermedia del pranzo. Soffiavano un vetro «spartito bene», cioè di spessore uniforme e quindi resistente alla cottura. All'interno acqua e fagioli, aglio, salvia e magari due salsicce nelle stagioni fredde. Il tutto messo a covare bene tra le camerette del forno. Ed ecco nascere i fagioli al fiasco. Nelle famiglie contadine, invece, si riciclava il vetro che aveva esalato l'ultimo sentor di Chianti e, dopo aver cotto il pane nel forno a legna, si poneva il fiasco tra la cenere, tappato con della stoppa che permetteva l'uscita del vapore. Sembra che l'ispirazione per le melodie di Suor Angelica venne a Giacomo Puccini mentre frequentava la sorella Iginia, madre superiora agostiniana in un convento nella Lucchesia. Arie (liriche) e fagioli nobilitati con rara armonia. Sui titoli di coda non possono mancare i fagioli all'uccelletto dove l'etimo vuolsi succedaneo a quando, terminati i tempi della caccia, bisognava pur sostituire i piccoli pennuti, al focolare, con qualcos'altro. Alla ricetta 384 arriva la soffiata di Pellegrino Artusi «mettete un tegame al fuoco con l'olio in proporzione, quando questi grilletta forte buttate giù i fagiuoli e conditeli con sale e pepe».
Giorgia Meloni al Forum della Guardia Costiera (Ansa)
«Il lavoro della Guardia Costiera consiste anche nel combattere le molteplici forme di illegalità in campo marittimo, a partire da quelle che si ramificano su base internazionale e si stanno caratterizzando come fenomeni globali. Uno di questi è il traffico di migranti, attività criminale tra le più redditizie al mondo che rapporti Onu certificano aver eguagliato per volume di affari il traffico di droga dopo aver superato il traffico di armi. Una intollerabile forma moderna di schiavitù che nel 2024 ha condotto alla morte oltre 9000 persone sulle rotte migratorie e il governo intende combattere. Di fronte a questo fenomeno possiamo rassegnarci o agire, e noi abbiamo scelto di agire e serve il coraggio di trovare insieme soluzioni innovative». Ha dichiarato la Presidente del Consiglio dei Ministri Giorgia Meloni durante l'intervento al Forum della Guardia Costiera 2025 al centro congresso la Nuvola a Roma.
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