2018-09-30
Castelmagno, ospite fisso al desco del re
Il formaggio piemontese pare debba il suo nome all'imperatore del Sacro romano impero. Per Gino Veronelli era il migliore del mondo, Gianni Agnelli lo offriva a Villar Perosa, Mario Soldati lo definì «la cena più ghiotta». Edoardo Raspelli invece lo denigrò con l'appellativo di «Castelgesso».Quando il giornalista chiese a Gino Veronelli qual era il miglior formaggio del mondo, rispose senza esitazioni: «Il Castelmagno». Era sufficiente una fetta di pane a far da companatico, tanto che Mario Soldati ebbe a dire come questo abbinamento, fu «la più squisita, raffinata e ghiotta cena che ho consumato». Eppure la storia del Castelmagno ha radici lontane, che per alcuni risalgono a Carlo Magno. Si dice che nel suo castello di Acquisgrana fosse presenza costante. Un innamoramento che richiese i suoi tempi. Ospite del vescovo di Saluzzo, il capo del Sacro romano impero, nel vedere quelle fette dalla crosta rugosa e le venature bluastre, frutto di pregiate muffe alpine, prese a ripulirlo manco fosse ... un avanzo di malga. Quando gli venne spiegato che erano proprio quelle erborinature a dargli un tono regale al palato, l'imperatore Magno lo prese sul serio e non se ne staccò più. È un formaggio che nasce in Val Grana, una realtà delle Alpi Cozie, in terra occitana. Sull'etimo si è discusso a lungo. La leggenda vede nel culto locale di San Magno l'ispirazione anagrafica. E anche qui la storia si sdoppia. Per alcune fonti Magno faceva parte della legione tebea, nel terzo secolo, cristiani di origine egiziana messi a presidiare i confini germanici dell'impero. Alcuni si dispersero nelle valli alpine divenendo missionari del Vangelo. Per altre fonti Magno era un monaco benedettino vissuto nelle alpi Rezie attorno al Settecento. Un'epoca dove i monasteri stavano diventando il centro di riferimento per molte popolazioni impoverite dalla caduta dell'impero romano e dalle invasioni barbariche. Nell'alta valle Grana un primo edificio dedicato a San Magno venne eretto nel 1475, tanto è vero che è considerato il protettore del bestiame e dei pascoli. Culto che si consolidò verso il 18° secolo quando sempre più pellegrini ascesero dalla valle per giungere al santuario, invocando la protezione da pestilenze e carestie.Il Piemonte è un klondike di specialità casearie, ma il Castelmagno ha sempre vissuto di vita propria. Un tempo i pastori dovevano far di necessità virtù e assemblare il latte delle poche bestie di loro proprietà. Alla mungitura serale veniva aggiunta quella dell'alba, non solo di latte vaccino ma, in minime quantità, anche caprino e ovino. Un processo in cui la manualità ha un ruolo decisivo, così descritta da Alberto Marcomini «come un neonato viene quotidianamente rigirato dalle esperte mani dell'affinatore (generalmente donne) e accarezzato dall'umidità prodotta dall'acqua». Magia pura, che rende ragione di un prodotto che ha vissuto momenti di gloria importanti. Nell'Ottocento era nei migliori ristoranti di Parigi o Londra, dove arrivava assieme alle parrucche. Infatti, all'epoca, sembra che la manualità dei valligiani magni fosse unica nell'allestire parrucche contese, poi, sino alla Camera dei Lord. Terra di emigrazione, la Val Grana. Lo spopolamento era in agguato. I lustrascarpe della stazione di Porta Nuova, a Torino, spesso provenivano da queste parti. Altri prendevano la via della Costa Azzurra, come spaccapietre. In valle la produzione resisteva, arrivando anche alle 10.000 forme. Il colpo di grazia avvenne dopo la Seconda guerra mondiale, complice anche il nascente sviluppo industriale. La caduta demografica, nei tre Comuni interessati, arrivò a toccare punte superiori all'80 per cento. Tuttavia l'identità valligiana ebbe un'impennata d'orgoglio, guidata dal sindaco illuminato degli anni Ottanta, Gianni De Matteis, che si adoperò a far sì che il suo formaggio fosse tra i primi a ottenere, nel 1982, la Doc ministeriale. Seguì la nascita di un consorzio e, nel 1996, la prestigiosa Dop europea. I tempi del degrado erano stati arrestati. De Matteis aveva intuito che la salvaguardia del prodotto poteva diventare un nuovo volano di sviluppo per l'economia di una valle altrimenti destinata a diventare un deserto, in altura. Veronelli, che iniziò i suoi pellegrinaggi in Val Grana negli anni Cinquanta, ne parlò spesso con Ave Ninchi nella storica trasmissione A tavola alle sette. Guido Alciati, nel suo magico ristorante Da Guido a Costigliole d'Asti, offriva agli avventori, oltre alla leggendaria trifola albese e ai calici di Barolo e Barbaresco, l'immancabile fetta di Castelmagno. Non solo giornalisti e gourmet, ma anche membri dell'alta società, come Clara Agnelli, consorte dell'indimenticato Giovanni Nuvoletti, a lungo presidente dell'Accademia italiana della cucina. Se a Villar Perosa, alla tavola dell'avvocato Gianni Agnelli, il Castelmagno accoglieva degnamente gli ospiti, il merito della scoperta è stato suo. Un formaggio diventato adulto, con i suoi 1.000 anni di onorata gavetta. Ecco allora che la stagionatura, con le straordinarie erborinature frutto dei mesi di paziente affinamento, cominciò a spuntare con sempre maggiore velocità le tacche del calendario e, dai tradizionali 6 mesi, se non oltre, si scese sin quasi a lambire il limite minimo dei 2 mesi concessi dalla disciplinare. Peccato che questo ringiovanimento faceva venir meno una delle sue prerogative. Una pasta con «quel suo granino, vera grande delizia da schiacciare contro il palato: un'emozione indescrivibile, unica». Non sono parole dell'ultimo food blogger, ma di uno dei massimi storici della gastronomia, Corrado Barberis, che in Val Grana ci è nato. Aveva celebrato il suo confratello di malga con queste parole: «La sua pasta, con i bei riflessi rosso accesi, ricorda la chioma di una irlandese di fuoco, una Maureen O'Hara, tanto per intenderci». Dalle stelle alle stalle, come certificato da quell'iconoclasta di Edoardo Raspelli, che cominciò a bollare di «Castelgesso» quelle forme dalla pasta bianca, quasi efebica, non certo adatta a stimolare i ferormoni gustativi come le preparazioni più tradizionali e stagionate. Ecco Paolo Massobrio che si inventa il Castelmagno day, nel 1997. Degna cornice il santuario in cima alla valle. Qui viene portato un pianoforte a coda, da cui si librano le note di Fryderyck Chopin e poi poesie di Eugenio Montale; canti gregoriani, il tutto celebrato infine con degne preparazioni al piatto. Ora il Castelmagno è una realtà consolidata. Il disciplinare ha permesso che quelle che sino a pochi anni or sono erano tradizioni tramandate per oralità e manualità familiare, siano state codificate in maniera tale da ottimizzare la resa del prodotto. Vi è un Castelmagno di montagna e un altro d'alpeggio, cioè in quota. A garanzia la «sventolina», l'etichetta dalla forma che rinvia alla croce occitana, simbolo identitario di queste terre. Il percorso voluto da Gianni De Matteis ha raggiunto il suo obiettivo. Una sintesi mirabile tra attività produttive e mantenimento dell'equilibrio ambientale. Al campionato internazionale dei formaggi, tenutosi nel Wisconsin nel 2002, il Castelmagno, nella categoria pasta dura, ha surclassato il Parmigiano reggiano. Un esempio di questa mutazione genetica è la storia di Giorgio Amedeo. È stato il primo cittadino della valle a laurearsi in ingegneria. Un cursus honorum che lo ha portato a diventare amministratore delegato della più importante azienda italiana di casseforti. Dismessi i panni di imprenditore, Amedeo è tornato nella sua valle. Assieme al figlio Andrea è tra i più raffinati produttori d'alpeggio. In cucina il Castelmagno è molto versatile. Il risotto ne esalta la sua manteca, con vari abbinamenti. Dalle tradizionali nocciole, alle castagne, al barolo. Intrigante con les orles (gli spinaci selvatici di montagna). Ma ci stanno bene pure i ravioli, gli gnocchi. E, perché no, con la tartare di fassona, altra regina di queste valli alpine, mentre con il tartufo è meglio andarci piano: tra re non si invadono i rispettivi territori, anzi no, come diceva Gino Veronelli, «re con re». E, quindi, per brindare alle sue storie e alle pazienti arti manuali che ne sono da sempre levatrici, cosa meglio di un ottimo Barolo?
Il primo ministro del Pakistan Shehbaz Sharif e il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman (Getty Images)
Riyadh e Islamabad hanno firmato un patto di difesa reciproca, che include anche la deterrenza nucleare pakistana. L’intesa rafforza la cooperazione militare e ridefinisce gli equilibri regionali dopo l’attacco israeliano a Doha.
Emanuele Orsini e Dario Scannapieco