2023-01-14
Carlo Fidanza: «La lobby nera era una bufala, ora riparto»
Carlo Fidanza (Imagoeconomica)
L’esponente milanese di Fdi dopo la richiesta di archiviazione: «I centri di potere sono altri, si pensi al caso Qatar. Ma nessuno parla di “cricca rossa”. Io ministro mancato? Non ho rimpianti. Ricorderò lo sguardo dei miei figli quando venivo infangato».Carlo Fidanza ha dovuto mordere il freno per mesi. La fin troppo nota inchiesta di Fanpage sulla «lobby nera» lo ha esposto a un bestiale linciaggio mediatico. E probabilmente, ora che il pm ha chiesto l’archiviazione, non gli sarà concesso altrettanto spazio per il riscatto. Resta un fatto: tutta la storia è finita in archivio. Ora una nuova battaglia si profila all’orizzonte: a Milano c’è un'altra inchiesta che tocca lui e il collega di partito Giangiacomo Calovini. Si tratterebbe di corruzione, ma per ora siamo solo alla chiusura indagini.Carlo Fidanza, quindi la famigerata lobby nera non esiste?«Non è mai esistita, solo un titolo ben studiato. Le lobby, me lo lasci dire, sono ben altre. E lo stiamo vedendo in queste settimane con il cosiddetto Qatargate. Solo che nessun giornalista indignato ci ha fatto sopra ore di prime serate col titolo “lobby rossa”».Che cosa le lascia questa vicenda?«Sarebbe facile rispondere amarezza. In realtà mi lascia tanta forza e tanta consapevolezza in più, una migliore capacità di distinguere gli amici veri dai falsi amici, la stima di tante persone, la voglia di ripartire ancora più determinato».Che cosa è accaduto davvero secondo lei? Quelle sulle lavatrici erano millanterie? Oppure aveva intuito la trappola?«Non ho mai usato quel termine. Erano millanterie da parte di altri. Io nei giorni precedenti avevo già rifiutato offerte insistenti di contributi irregolari da parte dello stesso soggetto, stranamente quei colloqui non sono stati trasmessi. In quel frangente volevo soltanto capire quali fossero le reali intenzioni dei protagonisti. Tant’è che da quel momento in poi non ho avuto più alcun contatto e ovviamente, al contrario di quello che ho letto nell’atto di chiusura indagini, nemmeno la scenografica consegna del trolley era minimamente concordata con me. Avevo intuito qualcosa di strano, ma ho pensato di trovarmi in presenza di quello che a Milano chiamiamo uno “zanza”, può capitare. Non ho mai pensato potesse essere un giornalista sotto mentite spoglie».C’è qualcosa di cui si è pentito?«Sì certo, ho sempre avuto la coscienza a posto e avrei dovuto gridare da subito la mia totale estraneità ai fatti. Di fronte al tentativo di dipingerti come il mostro che non sei, se non reagisci finisce che qualcuno ci crede veramente».Ha sentito Giorgia Meloni? Che vi siete detti?«In queste ore soltanto un fugace sms, sapeva che l’inchiesta era stata chiusa ed eravamo tutti fiduciosi che prima o poi sarebbe arrivata la richiesta di archiviazione. Non c’era bisogno di aggiungere altro, anche perché ha problemi più importanti a cui pensare».Quanto vi ha davvero danneggiato in termini di consensi questa storia?«Ricordo molto bene quei momenti, a poche ore dalle elezioni comunali di Roma e Milano. Era stata una campagna tutta in salita, con candidati degnissimi ma scelti all’ultimo e nuovi alla politica, ci sembrava di essere travolti dall’ondata di fango. A conti fatti non credo a un particolare danno elettorale in quelle elezioni, le avremmo perse in ogni caso. E subito dopo abbiamo iniziato la cavalcata che ci ha portato al governo ed evidentemente gli italiani avevano facilmente derubricato quella vicenda a quello che realmente era: il nulla più assoluto».Lei avrebbe potuto fare il ministro. È arrabbiato per questo?«Gli attestati di stima fanno sempre piacere. Non so se sarebbe accaduto davvero e francamente ora non importa, non ho rimpianti. Abbiamo ottimi ministri ed è questo ciò che conta. Quello che mi ha fatto più arrabbiare è stato passare per impresentabile dopo trent’anni di militanza politica senza macchia. Anzi no, quello che non ho perdonato sono gli occhi dei miei figli quel maledetto giorno in cui per la prima volta hanno dubitato dell’onestà del loro padre. Un dolore difficile da raccontare».Che cosa pensa oggi di Fanpage?«Faccio mie le parole vergate in un comunicato dell’Unione delle Camere Penali qualche giorno dopo l’uscita di quelle immagini in tv. “Questo non è giornalismo di inchiesta”. E ancora: “Siamo giunti ad un crocevia estremamente pericoloso, nel quale le persone sono offerte in pasto all’opinione pubblica sulla base di informazioni raccolte nel corso di una vera e propria ‘indagine privata’, che addirittura precede e ‘genera’ la vicenda procedimentale propriamente intesa, che non conosce termini da osservare, autorizzazioni da chiedere, contraddittori da rispettare, che si avvale dei mezzi più invasivi della privacy, di intercettazioni ambientali, telecamere nascoste e agenti provocatori, i cui risultati vengono divulgati senza alcun controllo”. Siamo di fronte, insomma, a “una nuova pericolosa frontiera del processo mediatico”».Pensa che la lasceranno in pace ora? Ho la sensazione che non sarà così semplice...«Mi dispiace che, a poche ore dalla richiesta di archiviazione per la inesistente “lobby nera”, ci sia un nuovo provvedimento della Procura di Milano che mi riguarda. Chiederò di essere ascoltato dai pubblici ministeri per chiarire definitivamente i fatti di reato contestati e dimostrarne l’assoluta inconsistenza. Con la stessa serenità che mi ha caratterizzato negli scorsi quindici mesi, dimostrerò che non c’è stata alcuna corruzione». Lei ritiene di aver commesso qualche errore? «Certo che sì, sono stato troppo leggero nella gestione di alcuni rapporti, complici anche i ritmi frenetici della campagna elettorale. Io ho un carattere così, sono serissimo e quasi maniacale sul lavoro, ma mi piace sdrammatizzare, dissacrare. Ora, è brutto dirlo, non possiamo più permettercelo. Ho sbagliato a non capire che quel momento in realtà era già arrivato. Ora voglio guardare avanti però, c’è tanto da lavorare in Europa per difendere gli interessi dell’Italia».
Nicola Pietrangeli (Getty Images)
Gianni Tessari, presidente del consorzio uva Durella
Lo scorso 25 novembre è stata presentata alla Fao la campagna promossa da Focsiv e Centro sportivo italiano: un percorso di 18 mesi con eventi e iniziative per sostenere 58 progetti attivi in 26 Paesi. Testimonianze dal Perù, dalla Tanzania e da Haiti e l’invito a trasformare gesti sportivi in aiuti concreti alle comunità più vulnerabili.
In un momento storico in cui la fame torna a crescere in diverse aree del pianeta e le crisi internazionali rendono sempre più fragile l’accesso al cibo, una parte del mondo dello sport prova a mettere in gioco le proprie energie per sostenere le comunità più vulnerabili. È l’obiettivo della campagna Sport contro la fame, che punta a trasformare gesti atletici, eventi e iniziative locali in un supporto concreto per chi vive in condizioni di insicurezza alimentare.
La nuova iniziativa è stata presentata martedì 25 novembre alla Fao, a Roma, nella cornice del Sheikh Zayed Centre. Qui Focsiv e Centro sportivo italiano hanno annunciato un percorso di 18 mesi che attraverserà l’Italia con eventi sportivi e ricreativi dedicati alla raccolta fondi per 58 progetti attivi in 26 Paesi.
L’apertura della giornata è stata affidata a mons. Fernando Chica Arellano, osservatore permanente della Santa Sede presso Fao, Ifad e Wfp, che ha richiamato il carattere universale dello sport, «linguaggio capace di superare barriere linguistiche, culturali e geopolitiche e di riunire popoli e tradizioni attorno a valori condivisi». Subito dopo è intervenuto Maurizio Martina, vicedirettore generale della Fao, che ha ricordato come il raggiungimento dell’obiettivo fame zero al 2030 sia sempre più lontano. «Se le istituzioni faticano, è la società a doversi organizzare», ha affermato, indicando iniziative come questa come uno dei modi per colmare un vuoto di cooperazione.
A seguire, la presidente Focsiv Ivana Borsotto ha spiegato lo spirito dell’iniziativa: «Vogliamo giocare questa partita contro la fame, non assistervi. Lo sport nutre la speranza e ciascuno può fare la differenza». Il presidente del Csi, Vittorio Bosio, ha invece insistito sulla responsabilità educativa del mondo sportivo: «Lo sport costruisce ponti. In questa campagna, l’altro è un fratello da sostenere. Non possiamo accettare che un bambino non abbia il diritto fondamentale al cibo».
La campagna punta a raggiungere circa 150.000 persone in Asia, Africa, America Latina e Medio Oriente. Durante la presentazione, tre soci Focsiv hanno portato testimonianze dirette dei progetti sul campo: Chiara Concetta Starita (Auci) ha descritto l’attività delle ollas comunes nella periferia di Lima, dove la Olla común 8 de octubre fornisce pasti quotidiani a bambini e anziani; Ornella Menculini (Ibo Italia) ha raccontato l’esperienza degli orti comunitari realizzati nelle scuole tanzaniane; mentre Maria Emilia Marra (La Salle Foundation) ha illustrato il ruolo dei centri educativi di Haiti, che per molti giovani rappresentano al tempo stesso luogo di apprendimento, rifugio e punto sicuro per ricevere un pasto.
Sul coinvolgimento degli atleti è intervenuto Michele Marchetti, responsabile della segreteria nazionale del Csi, che ha spiegato come gol, canestri e chilometri percorsi nelle gare potranno diventare contributi diretti ai progetti sostenuti. L’identità visiva della campagna accompagnerà questo messaggio attraverso simboli e attrezzi di diverse discipline, come illustrato da Ugo Esposito, Ceo dello studio di comunicazione Kapusons.
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Mark Zuckerberg (Getty Images)